venerdì 4 ottobre 2013

Viaggio alcolemico

Ero in viaggio per il mondo. Presi due diverse coincidenze di aerei corazzati in terra tedesca, per poi imboccare il largo nell’immensa distesa dell’oceano atlantico, e andare. Mi sentivo libero, spensierato, e per nulla impaurito: fu un viaggio sorprendentemente distensivo. Nel primo volo dall’Italia, l’accecante luce solare traspariva furtivamente tra ammassi di nuvole gravi, sovrastanti impetuose vette aguzze e alpine, protese verso di loro in una lotta scorrevole di forme strambe e arcuate, che si specchiavano in quell’immenso e piccolo oblò in cui potevo scorgerle severe, scoscese. E allora quelle nuvole divenivano all’improvviso zucchero filato e i promontori cioccolata fondente, con spruzzate ritoccate qua e là di morbida e candida panna montata di purezza, docilmente raggelata nella sua persistente e altezzosa disparità glaciale... Nell’ultima coincidenza presa, corruppi l’hostess di volo affinché mi passasse, ad ogni suo sopraggiungere nelle mie vicinanze, tutte le lattine di birra Warsteiner che volevo, a condizione però che gli altri passeggeri, lì seduti come me nello stesso comparto, non avessero desiderato anche loro le stesse lattine di birra che gli sarebbero spettate di diritto (dato che il prezzo di volo le comprendeva tutte alla grande). Con quella specie di connivenza da sottobanco mi assicurai svariate bevute: si trattava per di più di una birra che portavo sempre nel cuore, la stessa birra che così tanto avevo degustato ed imparato ad amare durante la mia prima giovinezza. Mi andò abbastanza bene. Il risultato più evidente, palesemente sgamabile, fu il riuscire, tranquillamente e senza nessuna fretta, a raccattare una sbronza di quelle memorabili. Tuttavia in tutto ciò, e in questo viaggio che iniziava davvero alla grande, avevo fatto male i miei calcoli: un’ora prima dell’atterraggio, sempre la stessa hostess, mi consegnò con molta meticolosità (la stessa cura con cui mi passava le birre come se fossero soluzioni preziose durante un compito in classe) il modulo da compilare per sbarcare in terra americana, un modulo di cui l’ufficio immigrazione (che scoprii dopo essere davvero intransigenze e accessoriato di omini e donnine piuttosto incazzati) non concedeva alcun tipo di dichiarazione menzognera: stavo letteralmente sorvolando un immenso oceano di cacca. Per fortuna lo spirito d’intraprendenza italiano si ricordò che figuravo trai suoi figli e mi illuminò di un’immensa passione creativa, guarda caso proprio nel momento del bisogno. Alla fine riuscii a comprendere tutto il modulo, a squadrarlo contro-luce e compilarlo tutto d’un fiato, con uno sforzo che teneva tranquillamente testa alle più ardimentose concentrazioni per sempre stampate nella fortezza della memoria, quelle stesse che necessitavano bisognose di uno sbocco salvifico: ero sudato fradicio. Lo sbalzo di orario mi catapultò sei ore indietro e, incrociando il giorno che mi salutava con la manina e che andava in direzione contraria alla mia, atterrai in una delle città più belle del mondo: New York. Arrivato al mio sobborgo di destinazione, mi meravigliai di quanto a volte il mondo possa dispensare incondizionatamente chicche peculiari di una bellezza incontrastata, la stessa che puoi ritrovare ovunque a dire il vero, solo se ti impegni sul serio: lo stesso formato di bellezza che tanto ci ha insegnato il film “American Beauty”, dove c’è quello psicopatico spilungone morettino e dagli occhi blu che riprende ogni tipo di bellezza incontrata per strada e, a mo’ di busta volante e danzante al vento, ricollega fenomeni apparentemente dissociati l’un l’altro in una comunione immaginifica che è da orgasmo. Ad ogni modo, la bellezza che vi ritrovai si identificò nel sorprendente balletto prematuro concesso da fiocchi di neve che cadevano dal cielo: la stagione era nel vigore autunnale ma si concesse uno slancio di benvenuto che non potevo non concepire come solo a me dedicato. Gli innumerevoli alberi in perenne tramonto dorato scioglievano le loro glasse di neve rigonfie, in un dileguarsi quasi artificiale di pioggia ghiacciata e assente. Di tanto in tanto, qualche scoiattolo rigonfio nella sua pelliccia spelacchiata affondava le sue zampette incredibilmente vivaci in quel bianco manto, disfacendolo graziosamente del proprio peso che risultava delicatamente impercettibile. I raggi del sole fendevano l'aria sospesa, creando scomparti di luce forieri di un segreto ristoro, il quale annunciava solennemente il dispiegarsi di una giornata incantevole.

1 commento:

  1. i tuoi profondi e superdettagliati "scritti" mi lasciano incantata.....

    RispondiElimina