lunedì 14 ottobre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 3)

Dopo diverse traversie, ero riuscito finalmente a trovare una collocazione in terra straniera: strano ma vero. Era stata una conquista ardua, sudata, percorsa da km che disegnavano, di traiettorie solo mie, l’intera città sconosciuta, ma eccola lì: una casa-bomboniera che scintillava di candido pulito. Strano. Sì perché la maggior parte delle abitazioni a Bruxelles, riservate ai forestieri precari, non si presentano poi così tanto bene; eh no: ti deve andare proprio di lusso. E vi ho detto tutto. Ed ecco che tra quei rarissimi casi di fortuna, di cui ne vai tremendamente fiero a fronte di altri sprovveduti come te in cerca disperata, rientrò statisticamente anche il mio: un’autentica botta di culo inaspettata. Una casa non tanto grande ma graziosa, curata sin nei minimi dettagli, con un soggiorno da urlo e un piano di cottura in cucina da far invidia alle innumerevoli trasmissioni televisive che sfoggiano tanta arte culinaria al fuoco quanto pietanze stranissime tali da spiazzare completamente le tue gelose e minute conquiste in cucina lontane dalla mamma; ma questo è un altro discorso. Dicevo dell’appartamento; uno di quelli che rientra solo lontanamente nella casistica degli appartamenti fuori-sede, una sede lontana da sogno. Almeno era quello che si percepiva stando nel nido privato di raccoglimento, di ristoro, di rientro dal tram tram della giungla cittadina, eh sì, perché là fuori era tutto completamente e diametralmente diverso. Devo dire, però, che il quartiere immediatamente limitrofe, tutto sommato, non era poi tanto male: ricordava i tanti sobborghi carini e residenziali, di quelli accessoriati di un pizzico di storia alle spalle, e ti rendevi immediatamente conto di toccare con mano un sentore fiammingo che si affacciava alla vicina tulipana Olanda. Quello che avvertivi dopo, immediatamente attraversato l’uscio di quel quartiere quasi asettico-temporale, non aveva nulla a che fare con la strada di casa mia, forse con la città intera, ma che dico, probabilmente con l’intero continente europeo preso per le sue generalità... E mi chiederete giustamente il perché, e io allora ve lo spiego con spassionato riscontro. Eh sì, perché quello che lambiva il mio appartamento, aldilà della zona d’area immediatamente successiva, non c’entrava davvero nulla con tutto ciò che osservavo con gli occhi annaspati ogni volta che mettevo piede fuori casa, a quelle orrende e tremendamente fredde ore del mattino, quando un sole che non c’era mai manco si era svegliato, e quando lo faceva, così, a stento, si comportava esattamente come un capriccioso dittatore dispotico, che impartiva ordini per ogni dove a lastre di nuvole capricciose e grigie, dispensando, a più riprese, la sua umida, lontana, fredda autorità (del sole dispotico). E quindi dopo qualche passo ti ritrovavi immerso in un altro mondo, letteralmente, fatto di strade colonizzate da una cultura che percepivi da subito lontano dalla tua, e le cui etichette dispensavano ad ogni occasione scritture corsive e ricamate; anche i negozi esponevano insegne di quel tipo, avvertendoti che lì, sì, proprio su quella terra che stavi calpestando distrattamente, la tua di cultura (qualsiasi essa fosse stata) proprio non era riconosciuta in quel contesto fuori da quello specifico mondo, o quasi. Sinceramente non ho mai pensato che ci fosse una specie di netto rifiuto da parte della gente che popolava quei luoghi, una sorta di status auto-conclamato che li differenziava marcatamente dagli altri; no, nulla di tutto questo. Piuttosto era una sorta di auto-percepita esclusività, tipica di quei sistemi che vogliono gelosamente custodire le loro tradizioni e non ne vogliono proprio sapere, proprio perché non vogliono barattare le loro regole o tradizioni o cerimonie per nessun’altra cosa al mondo. E quindi dopo tutte queste osservazioni da novello sociologo immerso in un contesto sconosciuto capii di essere di fronte ad una terra altra, che determinata gente del posto, diversa da quella appena descritta, etichettava come “Arabia Saudita”. Ebbene sì, vivevo alle porte di parte dell’Islam: non suonavi neppure il campanello e c’eri dentro, imbevuto, e accolto fino al midollo. E fino a qui nessunissimo problema, direi. Fino a quando però seppi che la stazione della metropolitana più vicina (la famosa Bekkant, e chi se la scorda... Che razza di nome è Bekkant??), che ogni giorno attraversavo per prendere il mio solito quotidiano treno sporchissimo che mi conduceva a lavoro, era stata, nel recente passato (la zona prossima a quella stazione), teatro dei delitti più efferati: omicidi, stupri, sparatorie, spaccio di quello pesante di roba altrettanto pesante, e così via... Insomma: un posto che era meglio evitare o, alla peggio, da frequentare con due occhi grandi così. Ed io con la mia aria da flaneur, da naif sprovveduto e ignaro, osservavo e a volte addirittura sorridevo con compiacenza a tutta quella popolazione così diversa (perché i visi e i volti erano davvero così diversi), che non aveva nulla da spartire con tutti gli altri visi e volti sparsi e formicolanti per tutta la città (e sia bene inteso, non erano solo arabi quelli che mi circondavano, ce n’era per tutti). E quindi un bel giorno conobbi un mio nuovo collega appena sopraggiunto in terra bruxellese e, poverino, in cerca anche lui disperata di una sistemazione all’arrembaggio, mi chiese per favore ospitalità nel frattempo, in attesa di tempi migliori. Ovviamente lo ospitai, anche perché un qualcosa mi diceva che saremmo diventanti tanto complici di quelle miriadi di avventure che ci aspettavano anzitempo, e su questo, non mi sbagliavo affatto. Infatti capitò che in quei giorni, di gradevole e tranquillissima ospitalità, gli feci visitare il mio quartiere e, anche lui, un po’ spaesato nella mia stessa misura, condivideva con me le bizzarrie proteiformi che avevamo di fronte: questi scorci di città spaccata diversissimi l’uno dall’altro, una città tipicamente postmoderna che, come un puzzle senza senso, mette insieme i più disparati linguaggi e paesaggi senza nessun apparente nesso logico. E allora una sera, in questo teatrino delle meraviglie, ci imbattemmo in un bar veramente losco all’apparenza, di quelli che proprio non gli dai due soldi visto dall’esterno, una catapecchia che si regge in piedi su quei muri smerdati di piccione. E arrivò quel fatidico momento in cui ci si guarda incuriositi e sorridenti e, tra quei nostri sguardi reciproci, cominciò a saettare, insinuandosi, un “ci proviamo?”, e ci provammo. Per una birra, poi, di quella genuinamente belga, nessuno è morto mai... Il posto non era affatto male, più per la tipologia di persone che lo popolavano che per il resto. Era uno di quei bar in stile familiare, gestito da gente davvero paciona e tranquilla dove potevi rilassarti per veramente stare in assoluta comunione col mondo, e bere. Non potevamo desiderare altro: una serata rilassata all’insegna del folklore più intimo e inaspettato, incuneato negli interstizi di quella pittoresca città. E tutti cantavano, chiacchieravano animatamente; famiglie con carovane di bambini che vivevano le loro sacre ore del riposo all’insegna dell’anelata e sempre presente per tutti noi comuni mortali sorella birra. E noi uniti nel cerimoniale più melodioso, circondati da una lingua francese veramente strascicata, e davvero lontanamente elegante, ma animata dalla generosità rincuorante da fuocherello accesso in un bosco di quelle formose persone (sì la barista, identifichiamola così, anche se affaccendata in tutt’altre faccende, era formosa e bella in carne e costantemente sorridente = tanto alcol inalato e non solo), dicevo di queste persone che ti inglobavano nel loro mondo, e chi davvero, chi se lo aspettava. E dopo svariate bevute che consistevano in quelle prelibatezze belghe dorate ne uscimmo intrisi di tutto: di festa, di candore nostalgico dei bei tempi andati (ma che lì stranamente erano ancora presenti) e una luna, sorprendentemente una luna che, finalmente fattasi spazio sgomitando tra quei soldati di nuvole instancabili e umide nella loro tristezza piovosa costante, ci ammiccava da lontano (sempre quel miraggio di luna) e ci sorrideva sghemba, luminosa, tra i cerchi fumosi di un caldo alcolico che era finalmente e propriamente interiore.

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