domenica 8 giugno 2014

Oceano d'aria

Quando versi dell’acqua in un bicchiere accade che nel frastuono del liquido capovolto nascano isolate goccioline d’aria, goccioline nate dal nulla. Nella caduta, si ritrovano imprigionate in una cella invisibile, densa, senza pareti, e seguono smarrite un moto tutto loro, come se fossero state stordite e avvolte da morbidi mantelli. Poi, senza preavviso, una melodia di guanti in festa entra in azione e le sorregge, comincia a coccolarle, come se fossero tutte raggruppate su di un’amaca che sculetta spensierata, noncurante delle prime luci disvelanti del tramonto. In quel moto inaspettato di luci e molecole, in quel risucchio voraginoso di pochi e fermi istanti, prendono poi forma, una forma di convinzione, un coraggio tutto loro, e ritornano così pian piano in superficie, come se fossero sospese verso una direzione ben precisa, la direzione di un’altra luce attraente. Ed è allora, in quello scatto fotografico quasi perfetto, in quella sequenza quasi rallentata appositamente per loro che sprigionano delle proprietà guizzanti, muovendosi senza regole ondeggiando, sì ondeggiando, finalmente sicure di sé, serene di quello che stanno per compiere, come se fossero telecomandate verso un cielo meritato di libertà. In questo modo, raggiungono quella che riconoscono come una loro fonte, una distesa oceanica d’aria che le sovrasta e che le attende per risucchiarle infine nel mondo appagante.

Allo stesso modo noi siamo stati immersi e ora stiamo risalendo, pian piano. Non sappiamo di preciso qual è la nostra direzione, non sappiamo dove stiamo andando, ma il suo richiamo lo sentiamo vicino, e prima di questo momento tutto ciò non ci è mai sembrato così familiare. Come tante voci che ci sussurrano all’orecchio a migliaia di chilometri di distanza: sappiamo in fondo chi ci sta chiamando, chi sono quelle voci, anche se a malapena riusciamo a scorgerne i volti. Nel nostro intimo però sappiamo di essere interconnessi, gli uni agli altri, in quell’oceano d’aria che ci attende e che pazienta, sempre, per noi, per noi tutti. Come nella scrittura, in quel processo laborioso e di scatto, di continui aggiustamenti e rifiniture, di guizzi pindarici e di logiche misteriose, che continueranno ad assecondare sempre, nella loro essenza, i dettami ancestrali di menti a malapena connesse e in affanno di parole, ma che vogliono ugualmente comunicarsi di essere ancora vicine, perché questo è il segreto, semplicemente: l’essere sempre vicini, nonostante le discrasie, nonostante le incomprensioni sopraggiunte, malgrado gli scarti che ci distanziano e ci occluderanno nel frastuono. Verrà un giorno in cui ci raggrupperemo tutti assieme, alla stessa maniera di quelle goccioline, e sarà allora che conquisteremo con convinzione la nostra traiettoria con gli altri, nella fusione dei corpi, delle menti, in quella distesa emozionale piena d’aria che è fatta di libertà, di cui il mondo è il primo e indiscusso sovrano. 

mercoledì 4 giugno 2014

Rosso passione slavato

È una mattinata umida, soleggiata, in preda alla fornace dell’estate che avanza. L’inquinamento è ormai al limite, sta strippando, e tutto sembra racchiuso in sfere soporifere che non hanno una loro precisa dicitura, una consona direzione da seguire. Il traffico è lento, altalenante. C’è un andirivieni di macchine rumorose e silenziosissime: non si capisce bene dove guardare, dove stare attenti al flusso discontinuo. Il contesto raccolto dalle colline pare spopolato, e i pochi rimasti in giro hanno, per la maggiore, un bastone in mano per sorreggersi, nulla di più, e il loro andamento è lento, più lento della lentezza in dirittura di arrivo. La pensilina della fermata dell’autobus è rossa: è tutto rosso qua attorno, ma di rosso, in realtà, si vede ormai ben poco in giro. La passione che anima le persone è smorta, glielo leggi nei loro visi tramortiti. È un’antropologia segnata, maltrattata, che cerca ormai qualsiasi spiraglio nel formato digitale disperso chissà dove. L’analogico è disturbato, emette poche frequenze significative, ma solo ogni tanto. In coda al bancomat c’è della gente chinata su se stessa, fissa il vuoto pavimentato o, di converso, i loro palmi luminosi e impostati sull'icona del silenzioso. Un fornaio con berretto rosso e camice bianco preleva i suoi pochi contanti rimasti: è un uomo alto, di colore, ben impostato, ed elargisce ai vicini un sorriso bianco di altri tempi. Solo per un attimo si ha la sensazione di vivere una boccata d’ossigeno, ma quel gesto, quel sorriso, quel segno di riconoscimento sociale nell’attesa passa, e tra quelle persone si intrufola una sensazione quasi mai provata prima, esterrefatta.
Sotto la pensilina rossa l’autobus, altrettanto di colore rosso, stenta a stagliarsi sull’orlo di qualsiasi orizzonte: i fiumiciattoli ascensionali del caldo sopraggiunto distolgono la vista e immergono tutte le percezioni umane in un liquido pervasivo, onnipresente. Ad un certo punto, in un precisato lasso di tempo che si fa largo, un ragazzo osserva attentamente un volatile che è appena planato in terra indisturbato; lo osserva in maniera maniacale e non si capisce esattamente il perché. Probabilmente lo ha visto sonnecchiando in uno di quei tanti documentari che non si caca nessuno in tv, e che per l’appunto decidono, sapientemente, di fare breccia nei telespettatori a notte fonda, tra quelle anime sconquassate che per un’imprecisata ragione non riescono più, normalmente, ad acchiappare il loro fisiologico sonno. Il suo atto dell’osservare persevera cocciuto, intransigente, e il volatile si sente quasi osservato, qualora possa davvero sentire l’osservazione maniacale di un umano in cerca di risposte dal calibro di un non so ché. E poi è un attimo. Come se si trattasse di un pallone sistemato con cura sul dischetto di un fragoroso rigore quel ragazzo scalcia il volatile, una botta secca di collo pieno, e il povero volatile non si capacita, i suoi tempi di reazione sono alquanto timidi rispetto al secondo calcio che sopraggiunge di nuovo e di nuovo, senza pietà, con forza, e proietta le sue penne svolazzanti, assieme a quell’esile corpo contuso, sul selciato abbrustolito dell’asfalto, rotoloni, una chiazza schizzata di sangue animalesca. Il ragazzo corre in strada, insegue l'attentato e calpesta a più riprese il volatile come se non ci fosse un domani. Dopodiché, quando ormai il volatile non dà più segni di reazione alcuna, il ragazzo prende la sua traiettoria e se ne va, come nulla fosse. I pochi spettatori dell’accaduto indicano col dito ora il volatile in terra ora il ragazzo che cammina placidamente indisturbato, e indicano solamente senza dire una parola, senza pronunciare un monito, un alcunché, delle dita indirizzate verso nessuno a dire il vero: sembrano invero, anche queste, un insieme sfaccendato di un rimasuglio abbandonato, una reazione solo quasi spontanea, e che finisce lì.
L’autobus rosso continua a non passare, ma le macchine lente e solitarie e compattate nel loro isolazionismo sicuro d’avanguardia continuano indifferenti il loro tragitto, e qualcuna di queste, con le loro ruote altrettanto indifferenti e belle cicciotte colpiscono a più riprese i resti di quel volatile che ormai non ha più senso per il suo cielo, non ha più nulla da spartire con i suoi compagni che per loro fortuna sono ancora là, in alto, in volo, e che osservano, forse, da lontano e piangenti, lo scempio appena consumato e a spese di quel malcapitato compagno di cielo, che aveva solo avuto la delicatezza di tastare per un attimo la terra, per saggiare cosa si provava una volta ogni tanto, ma che ora, invece, continua a srotolarsi tra quelli che sono ormai i suoi resti di piume e carne e sangue per ogni dove, su quel maledetto selciato abbrustolito appena visitato, e che assolutamente no, assolutamente, non gli è mai appartenuto propriamente.
Sempre ad un altro imprecisato punto un signore comincia a prendersela con una radice di un albero: prima carezze affettive, la mano quasi scorticata ad ogni passaggio. E poi pugni, pedate, craniate a ripetizione, e anche qui, senza un apparente motivo logico iniziale che facesse presagire un comportamento del genere. Le macchine, alla vista di quella sequenza di atti e attimi scossi, rallentano di più, tutte piano piano, voltandosi appena. Ed è a questo - questa volta precisato - punto che accade un maxi tamponamento a imbuto, una fisarmonica che si accartoccia solo da una lato, che identifica, tutte in fila, le macchine che si spiaccicano su se stesse seguendo i fanalini posteriori delle altre. E quello che sembrava uno scenario pacato si anima ora di un fuoco più divampante, un fuoco a immagine sua più avvenente rispetto a quello appena pronunciato e liquido delle condizioni atmosferiche. E tutti scendono dalle loro postazioni personalizzate formato-macchina e cominciano a sbraitare l’uno con l’altro, e ognuno va incontro al suo personale facilmente individuabile tamponatore, seguendo la scia opposta della fisarmonica immaginaria che, questa volta, si accartoccia di umane presente al contrario, tutte cozzate l’una sull’altra, una montagnetta. E c’è un finimondo che imperversa e che si scuote e che prende subito in mano lo smartphone che può salvare sempre le circostanze, che può salvare anche la vita se è necessario, digitando numeri invisibili su una tastiera scorrevole che rincorre tanti numeri alla rinfusa, perché col caldo e il sole non si vede proprio nulla su quei stramaledetti aggeggi. E allora sirene, strombazzate, delirio nel delirio. I bastoni lenti dei passanti si fermano e l’altra mano (sempre di questi mal capitati passanti) sistema gli occhiali stanchi su quel putiferio di accaduto, ad un ritmo quasi sincronizzato. L’autobus non passa più, o meglio si è bloccato sull’orizzonte impaziente: il suo rosso della passione che ti condurrà a casa è ancora distante dal compiere la sua scia colorata, e indicata, sommariamente, sui cartelloni plastificati delle pensiline piantate; quel suo solcante tragitto di sempre (il tragitto sempre di quell’autobus rosso, tuo solo dai finestroni rumorosi ad ogni zolla) è ancora tanto distante dal riempire e salutare le sue consuete tappe transitorie.
L’atmosfera animata ha raggiunto dunque e infine un punto di equilibrio, l’equilibrio della ragione. Ma la sana passione è rimasta per fortuna ancora in cielo, e svolazza indisturbata: completamente esente dalle logiche umane della terra. E allora un altro volatile plana con convinzione su quei resti ancora lì, e ancora una volta dimenticati, di quell'altro volatile senza nome, senza un perché. Si avvicina al suo ex-compagno di voli, di stagioni, e gli porge uno sguardo, quasi una carezza visiva, e, dandogli un ultimo e degno di questo nome saluto, raggiunge gli altri suoi compagni nelle distese di quel cielo spazzato e va, lasciandosi dietro, quasi a malincuore noncurante, un rosso passione slavato.