Il Messico è questo selciato arso dal sole, pietre e polvere
che fanno pace con la vegetazione vessata. Il Messico sono tutti questi
paesaggi sciancati, che ti abbracciano a protezione in quel loro circolo di
montagne, solite dialogare con nuvole orfane. Il Messico è una nostalgia senza
tempo: è un maggiolino scassato che danza senza freni sulle ruote di un
trattore. Il Messico è una vergognosa polarizzazione tirata agli estremi: il
disagio da una parte – braccianti in piedi su camionette aperte mentre vanno a
lavoro sotto al sole; e la classe irraggiungibile dall’altra, che sposando il
“modello di successo” ha praticamente dato il culo agli Stati Uniti d’America.
In mezzo a tutto questo non è rimasto nulla; c’è solo il deserto a coprire le
distanze...
E ancora. Il Messico è il buongiorno delle signore
inservienti, che tutte le mattine, col sorriso, lustrano i pavimenti di centri
commerciali fintamente sgargianti. Il Messico è un autobus a forma di camion,
un bastone di legno al posto del cambio, una cassettina a scomparti che
raccoglie centesimi di pesos incolonnati, traballanti e precari, ed è tutto un
fragore di vetri come spezzati a trasportare con sé il lato vero
dell'antropologia. Il Messico è il mango fresco alla mattina, e il meritato
litro di caguama alla sera; Il pane c’è, sì, ma non è lo stesso: ci pensano
pile di tortillas a fare da base a tutto. Il Messico sono tutte queste salse
colorate e piccanti: più il colore è acceso e più le salse rianimano la vita.
Il Messico è una perenne distonia sui volti: è una tristezza
che si fa sottomissione eterna, ma che in un attimo si libera in festa non
appena trombe e chitarre rilevano le solite maschere raggrinzite. “Tutto
è permesso; scompaiono le gerarchie abituali, le differenze sociali, i sessi,
le classi, i gruppi. Gli uomini si travestono da donne, i padroni da schiavi, i
poveri da ricchi. Vengono ridicolizzati l’esercito, il clero, la magistratura.
Governano i bambini o i pazzi. Si commettono profanazioni abituali, sacrilegi
obbligatori. L’amore si fa promiscuo. Talvolta la festa diventa messa nera. Si
violano regolamenti, comportamenti, costumi. L’individuo rispettabile getta la
sua maschera di carne e gli abiti scuri che lo isolano e, vestito di colori
sgargianti, si nasconde dietro una maschera che lo libera da se stesso. La
Festa, dunque, non è solamente un eccesso, un dispendio rituale dei beni penosamente
accumulati durante tutto l'anno; è anche una rivolta, una subitanea immersione
nell'informe, nella vita allo stato puro. Attraverso la festa, la società si
libera dalle norme che si è imposta. Si burla dei suoi dèi, dei suoi princìpi e
delle sue leggi, nega se stessa. La festa è una rivolta nel senso letterale del
termine. Nella confusione che genera, la società si dissolve, affoga in quanto
organismo retto in base a regole e princìpi determinati. Ma affoga in se
stessa, nel suo caos o libertà originale. Tutto entra in comunicazione: si
mescola il bene col male, il giorno con la notte, il santo col maledetto. Tutto
convive, perde forma, singolarità e torna alla massa primordiale. La Festa è
un'operazione cosmica: l'esperienza del disordine, la riunione degli elementi e
dei princìpi contrari allo scopo di provocare la rinascita della vita.”
(Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, p. 42).
Il Messico è un’identità bistrattata: è una farfalla che
dopo aver vissuto pienamente il suo giorno rallenta spossata il suo ritmo, il
cui disegno d’ali risulta spezzettato. Il Messico è un’accoglienza senza
scadenze: la casa di chi ti conosce sarà sempre la tua, e il parcheggiatore
sdentato senza patria ti ricorderà, senza remore, quali sono le tue lontane
origini alla deriva. Ma il Messico, dopotutto, non è che una colonna sonora di
Piero Piccioni, splendida, al pomeriggio, che riproduce incessantemente quel
suo “Mexican Dream”.
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