domenica 25 maggio 2014

Per D___

Un piccione, un piccione stava entrando dalla finestra. Strano, a volte questa città ne sembra sprovvista. Quando dormono, la notte, si posizionano sulle aste di ferro che trafiggono in alto i portici, e sembrano non muoversi mai: statue, simulacri ripiegati su se stessi: un accumulo muto di sporcizia sembrano lassù. Ma questa mattina c’è il sole, cosparso, e il sole con la sua onnipotenza spazza via ogni cosa: le nuvole veleggiano in un oceano blu e l’atmosfera sembra tutta leggermente accarezzata da anime riposate. Sarebbe bello ogni tanto spegnere il cervello e non curarsi del frastuono interiore: l’atto di spegnerlo significherebbe solo attivarlo su altri canali meno disturbati, solo questo. E va bene così.
Le persone possono essere compresenti anche senza esserlo: è una misteriosa fascinazione che ci fa ancora sperare, una connessioni di menti che dialogano da lontano, per dirsi semplicemente ciao, eccomi qui. Ma oggi quelle persone stanno quasi tutte male, un male interiore e generalizzato, senza prospettiva, e non fanno altro che riversare disperatamente il loro male su altre persone: a volte, davvero, non possono fare altrimenti. E allora si distanziano per non farsene ancora, bruscamente, e questo non è altro che un segno di indiscussa, anche se incontrovertibilmente contrastante, debolezza. “L'ingiustizia è una maestra rigida ma impareggiabile.” Probabile, caro Dave, probabile; come ogni cosa che sempre con l’occhiolino divertito e strizzato mi hai suggerito.
In questo giorni accorri spesso tra i miei pensieri, lo sai? Forse perché ho solo bisogno di ridere, e tu, a me, mi hai fatto sempre ridere un sacco. Quando ti leggevo, col tempo, hai fatto nascere in me una risata nuova, inedita, una risata che era un misto di stupore, di catartiche invenzioni, ma anche di cruda e spietata consapevolezza di ciò che ci gira attorno sbeffeggiandoci. Mi hai insegnato l’umiltà, quell’umiltà che ho incorporato sin da bambino, ma che ora si riflette lucida nei miei tentativi di riscoprirla. Quanto mi hai insegnato, forse da lassù non puoi capirlo, ma io cerco di spiegartelo lo stesso. Quando parlo di te agli altri vivi in ogni mia parola, e questo non può che essere un autentico miracolo. Come quei miracoli che dispensavi sulle pagine quasi senza accorgertene, quasi senza volerlo, e che s’imprimevano nella mia mente con una tale forza da invadermi dolcemente l’essenza; esattamente come una delle tante melodie dei Sigur Ros: melodie tutte e sempre solo mie, così diverse ad ogni rivisitazione acustica, in base ai miei stati d’animo. Un potere comunicativo che hanno in pochi, un modo di sapersi connettere con un’altra mente che mi lascia sempre felice nel pensare a quel giorno, in cui, incuriosito come non mai, cercavo chi tu fossi, tra quei libri dai titoli così bizzarri che erano associati al tuo nome di saggista, professore, scrittore intimamente americano.
Le tue note, le tue mille e infinite note, sono mondi difficili e buffi da affrontare, da padroneggiare, per una mente inesperta come la mia, mannaggia a te. Sono oltremodo arzigogolati, e pregni di quella premura che sa tenderti però sempre la mano, ad ogni occasioni bislacca di interpretazione, per non abbandonarti mai. Grazie. Quanto volte ho sentito che parlavi solo a me; quante volte ho sentito di poter essere seduto su di una comoda poltrona per ascoltare le tue sterminate peripezie pirotecniche.  
Avevi ragione, hai avuto ragione, tante volte. Ora che i miei occhi possono osservare quello che avevi prognosticato, questa società è come tu l’avevi immaginata tanto tempo fa. Come diavolo facevi? Ma si può sapere chi è che ti suggeriva le risposte? I manuali di sociologia che studiavo all’università, in comparazione a ciò che mi dicevi e mi raccontavi, erano una burla inutile e ripetitiva.
Forse ora starai ridendo di me, però io queste cose dovevo dirtele prima o poi. La gente è triste, come quando dicevi di aver scritto quel romanzo infinito pensando esattamente a loro: “non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei è molto infelice”... “Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.”
E quando per la prima volta mi hai fatto conoscere Lenore tutto da quel momento è cambiato; da quel momento in poi tutte le cose non erano più come le avevo lasciate prima. Hai inventato una donna che non si poteva non amare, coccolare nelle sue contraddittorie manifestazioni, e poi l’hai fatta scomparire, nel risucchio di quel tuo burrascoso cilindro magico di romanzo, affinché vivesse per sempre dentro di me, e mi portasse ad immaginare un mondo di felicità che manco t’immagini. All’inizio ho pensato che volessi semplicemente prendermi per il culo, poi ho capito che mi stavi solo facendo uno dei tuoi tanti doni: sei terribile. “Tocca le cose con considerazione e quelle saranno tue; le possederai; si muoveranno o resteranno ferme o si muoveranno per te; si distenderanno e apriranno le gambe e ti cederanno le loro più intime giunture. Ti insegneranno tutti i loro trucchi.” Sai quante volte ci penso? L’ho sempre fatto, per quanto mi è parso possibile, e continuerò a farlo, anche se quelle cose possono e si animano bruscamente contro di me saprò di aver fatto sempre la cosa giusta.
Ti scriverò ancora, sappilo, perché un contatto diretto con te ormai ce l’ho da tempo: ha contraddistinto questi miei ultimi quattro anni di vita, ed è stata una delle sensazioni più piacevoli, divertite, intellettualmente impegnate che io abbia mai provato. Ma soprattutto, come scrisse quel traduttore “pazzo” che si innamorò a ragione di te, e cocciutamente per un anno intero fu intento nel tradurti per la prima volta al resto del mondo intero, per la prima volta in un’altra lingua diversa dalla tua, e cioè la mia, sfidando ogni scetticismo su quello che potevi trasmettere a tutti quanti perché non gli credevano, e lui battagliando di sudore riuscì nell’intento di regalarci per quanto possibile l'animo, la ricchezza dei tuoi pensieri, beh ecco, vorrei salutarti riprendendo le sue magnifiche parole, perché lui, quel traduttore italiano, anche lui ricordandoti ha toccato inesorabilmente le corde nel mio animo frustrato, rifocillandolo però, e riempiendolo di un’aria nuova; un’aria sicura di speranza in quel tuo atto tragico, in quel tuo strascico grido d’aiuto:

“Non starò a raccontarvi la vera e propria disperazione che quel 12 settembre del 2008 colpì me e molti altri dei suoi lettori e ci tenne per lunghi mesi in una morsa di dolore. Ognuno di noi ha un rapporto molto personale con la letteratura di David Foster Wallace. Come gli oracoli, sembra voler dire cose diverse a persone diverse. Ma oggi posso dire che non una delle sue parole ha cambiato significato, per me, dopo il suicidio. Mentre lo rileggo continuo a notare, anzi, quanto fosse frequente e potente il Comico, nella sua opera, e ci sono mattinate terse spazzate dal vento in cui sono sicuro di ritrovarmi a vivere dentro uno dei suoi giochi, d’essere un suo personaggio preso nella morsa d’una certezza ridicola e mordace, quella d’aver imparato a vivere da un suicida.”

"Per sempre lassù", e per sempre dentro di me. Ciao Dave, a presto (strizzatina mia, questa volta)       


venerdì 23 maggio 2014

Pane duro

Il pane duro è come il precariato: lungo a terminare.
Quando lo mangi senti un sapore stantio, di un qualcosa che è rimasto lì e di cui non si è potuto godere fino in fondo il profumo entusiastico dell’appena sfornato.
Quel momento iniziale, motivante e fragrante, viene spazzato via dapprincipio, con una spietata noncuranza di chi ti dice che, da subito, neanche il tempo di iniziare, hai un numero assegnato di scadenza inderogabile, proprio lì, stampato sulla tua non più tanto giovane fronte.
Proprio come il pane, che a distanza di pochi giorni si rende praticamente immangiabile, e il suo aspetto risulta venato da grumi di bianco secco; ogni tanto quei grumi li associ a quelle prime rughe che vedi farsi strada sul tuo volto allo specchio, quando speri che siano solo il risultato di gran risate al genuflettersi di occhi festosi, e poi, invece, scopri essere soprattutto il sottile risultato di un bacino premuroso di lacrime spossate, che scivolano e si incuneato presso di loro.  
Quando mastichi per tanto tempo il pane duro all’inizio non te ne accorgi, perché fondamentalmente hai fame; ma dopo un po’ cominciano a subentrarti inesorabili scosse alle mascelle che si propagano per tutto il cranio, ed è lì che ti rendi conto di quanto, a sentire interiormente quel fastidioso croccante stridio di crosta, puoi ritenerti ancora tutto sommato fortunato: riesci ancora ad ingerire qualcosa, a nutrirti in qualche modo, anche se il nutrimento non è dei migliori: ma tu butta giù, e vedrai che lo stomaco si riempie lo stesso.
Quando lo tieni in mano, sempre quel pane duro, senti che non deve essere buttato via, che non deve essere abbandonato al suo miserabile destino, e in quel frangente puoi associarlo al puro volontariato, o anche all’etichetta di disoccupato occupato in mille altre occupazioni: occupazioni non riconosciute dal capitalismo consumistico, dal capitalismo monetario; perché il lavoro, anche se dicono che non c’è, è diventato debole solo in questa accezione, e si è tramutato in tanto altro che già viene praticato, ma che fa fatica ad essere riconosciuto abbastanza per quello che realmente è, poiché non produce gli utili famelici per quel tipo specifico di consumo.
Ci sono tanti altri tipi di consumo, come i consumi valoriali, come le condivisioni di scambi avulsi da contratti formali, dove lo spirito dell’illusione che risiede nella sterminata individualità di ognuno prende corpo, e si manifesta nelle gesta dell’inventiva, nel luccichio intermittente e sensazionale dell’iniziativa inedita, nella sconfinata libertà umana.
Semplicemente il pane duro è un pane che non deve essere smaltito per poi semplicemente inquinare la nostra esistenza: va mangiato. Il concetto di lavoro che c’è dietro va modificato, e allora si accende il forno della fantasia che porta il nome dell’imprenditoria individuale e se ne fa una bruscetta, di quelle che ti ricordano tua nonna che quando eri piccolo te la preparava con parsimoniosa cura; di quelle leggermente dorate e con quel tocco di simpatico abbrustolito, che rende quel pane in un rinnovato stato di grazia; una grazia che può accogliere la giusta quantità di ciliegie di pomodoro decorate dal sale, e avvolte, infine, dall’abbraccio rincuorante di quell'olio leggero e profumato di fresco.
Bisognerebbe profumare la disoccupazione, e ravvivarla in quello che si cela al suo interno: chi ha detto che chi è disoccupato per i centri d’impiego – sparsi per ogni dove e davvero inutili – non sia per nulla e in qualche modo occupato? Chi ha detto che costui non si mobiliti altrimenti per immagazzinare cultura propria per poi espanderla, incanalandola nei circuiti virtuosi della collettività con cui entra in diretto contatto? Chi ha detto che chi verte in questa condizione semplicemente etichettata – che serve solo a rifocillare le false statistiche – non sia anche un infaticabile crogiuolo di smanettamento continuo che sta cercando con sudore e fatica esistenziale di riformattare per sé e per altri un genere di sapere diverso? Un sapere e delle pratiche non più arenate nelle logiche di quella generazione che dicono essere stata spazzata via e che non potrà più avere un misero barlume di ritorno?
Nessuno può dirlo, perché appena si sarà prodotta “la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali. Non esistono forze in grado di interromperne il corso – né umane né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica.”

Allora, se bisognerà mangiarne ancora di pane duro per disvelare quest’ulteriore mutazione si continuerà a farlo, decisamente, ma ci sarà chi, stanco di quel pano duro, lo abbandonerà spossato, nell’inquinamento della propria depressione esistenziale; e chi, invece, sarà sempre intento ad accendere tutti i forni impensabili dell’immaginazione, per poi finalmente sedersi tranquillo e rasserenato, felice di una stanchezza meritata, per potersi infine assaporare quell’anziana bruschetta rinvenuta che ha semplicemente il magnifico sapore di un Nuovo buono.