Un piccione, un piccione
stava entrando dalla finestra. Strano, a volte questa città ne sembra
sprovvista. Quando dormono, la notte, si posizionano sulle aste di ferro che
trafiggono in alto i portici, e sembrano non muoversi mai: statue, simulacri
ripiegati su se stessi: un accumulo muto di sporcizia sembrano lassù. Ma questa mattina c’è il
sole, cosparso, e il sole con la sua onnipotenza spazza via ogni cosa: le
nuvole veleggiano in un oceano blu e l’atmosfera sembra tutta leggermente
accarezzata da anime riposate. Sarebbe bello ogni tanto spegnere il cervello e non
curarsi del frastuono interiore: l’atto di spegnerlo significherebbe solo
attivarlo su altri canali meno disturbati, solo questo. E va bene così.
Le persone possono essere
compresenti anche senza esserlo: è una misteriosa fascinazione che ci fa ancora
sperare, una connessioni di menti che dialogano da lontano, per dirsi semplicemente
ciao, eccomi qui. Ma oggi quelle persone stanno quasi tutte male, un male
interiore e generalizzato, senza prospettiva, e non fanno altro che riversare
disperatamente il loro male su altre persone: a volte, davvero, non possono
fare altrimenti. E allora si distanziano per non farsene ancora, bruscamente, e
questo non è altro che un segno di indiscussa, anche se incontrovertibilmente contrastante,
debolezza. “L'ingiustizia è una maestra rigida ma impareggiabile.”
Probabile, caro Dave, probabile; come ogni cosa che sempre con l’occhiolino
divertito e strizzato mi hai suggerito.
In questo giorni accorri
spesso tra i miei pensieri, lo sai? Forse perché ho solo bisogno di ridere, e
tu, a me, mi hai fatto sempre ridere un sacco. Quando ti leggevo, col tempo, hai fatto
nascere in me una risata nuova, inedita, una risata che era un misto di
stupore, di catartiche invenzioni, ma anche di cruda e spietata consapevolezza
di ciò che ci gira attorno sbeffeggiandoci. Mi hai insegnato l’umiltà, quell’umiltà
che ho incorporato sin da bambino, ma che ora si riflette lucida nei miei
tentativi di riscoprirla. Quanto mi hai insegnato, forse da lassù non puoi
capirlo, ma io cerco di spiegartelo lo stesso. Quando parlo di te agli altri
vivi in ogni mia parola, e questo non può che essere un autentico miracolo. Come
quei miracoli che dispensavi sulle pagine quasi senza accorgertene, quasi senza
volerlo, e che s’imprimevano nella mia mente con una tale forza da invadermi
dolcemente l’essenza; esattamente come una delle tante melodie dei Sigur Ros: melodie tutte e sempre solo mie, così diverse ad ogni rivisitazione
acustica, in base ai miei stati d’animo. Un potere comunicativo che hanno in
pochi, un modo di sapersi connettere con un’altra mente che mi lascia sempre
felice nel pensare a quel giorno, in cui, incuriosito come non mai, cercavo chi tu
fossi, tra quei libri dai titoli così bizzarri che erano associati al tuo nome
di saggista, professore, scrittore intimamente americano.
Le tue note, le tue
mille e infinite note, sono mondi difficili e buffi da affrontare, da
padroneggiare, per una mente inesperta come la mia, mannaggia a te. Sono oltremodo
arzigogolati, e pregni di quella premura che sa tenderti però sempre la mano,
ad ogni occasioni bislacca di interpretazione, per non abbandonarti mai.
Grazie. Quanto volte ho sentito che parlavi solo a me; quante volte ho sentito
di poter essere seduto su di una comoda poltrona per ascoltare le tue
sterminate peripezie pirotecniche.
Avevi ragione, hai avuto
ragione, tante volte. Ora che i miei occhi possono osservare quello che avevi prognosticato,
questa società è come tu l’avevi immaginata tanto tempo fa. Come diavolo
facevi? Ma si può sapere chi è che ti suggeriva le risposte? I manuali di
sociologia che studiavo all’università, in comparazione a ciò che mi dicevi e
mi raccontavi, erano una burla inutile e ripetitiva.
Forse ora starai ridendo
di me, però io queste cose dovevo dirtele prima o poi. La gente è triste, come
quando dicevi di aver scritto quel romanzo infinito pensando esattamente a
loro: “non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte
degli amici miei è molto infelice”... “Succedono cose davvero terribili.
L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di
modi possibili e immaginabili.”
E quando per la prima volta
mi hai fatto conoscere Lenore tutto da quel momento è cambiato; da quel momento
in poi tutte le cose non erano più come le avevo lasciate prima. Hai inventato
una donna che non si poteva non amare, coccolare nelle sue contraddittorie
manifestazioni, e poi l’hai fatta scomparire, nel risucchio di quel tuo burrascoso cilindro magico di romanzo,
affinché vivesse per sempre dentro di me, e mi portasse ad immaginare un mondo
di felicità che manco t’immagini. All’inizio ho pensato che volessi semplicemente prendermi
per il culo, poi ho capito che mi stavi solo facendo uno dei tuoi tanti doni:
sei terribile. “Tocca le cose con considerazione e quelle saranno tue; le
possederai; si muoveranno o resteranno ferme o si muoveranno per te; si
distenderanno e apriranno le gambe e ti cederanno le loro più intime giunture.
Ti insegneranno tutti i loro trucchi.” Sai quante volte ci penso? L’ho sempre
fatto, per quanto mi è parso possibile, e continuerò a farlo, anche se quelle
cose possono e si animano bruscamente contro di me saprò di aver fatto sempre la cosa
giusta.
Ti scriverò ancora, sappilo,
perché un contatto diretto con te ormai ce l’ho da tempo: ha contraddistinto
questi miei ultimi quattro anni di vita, ed è stata una delle sensazioni più
piacevoli, divertite, intellettualmente impegnate che io abbia mai provato. Ma
soprattutto, come scrisse quel traduttore “pazzo” che si innamorò a ragione di
te, e cocciutamente per un anno intero fu intento nel tradurti per la prima
volta al resto del mondo intero, per la prima volta in un’altra lingua diversa
dalla tua, e cioè la mia, sfidando ogni scetticismo su quello che potevi trasmettere
a tutti quanti perché non gli credevano, e lui battagliando di sudore riuscì
nell’intento di regalarci per quanto possibile l'animo, la ricchezza dei tuoi pensieri, beh ecco,
vorrei salutarti riprendendo le sue magnifiche parole, perché lui, quel
traduttore italiano, anche lui ricordandoti ha toccato inesorabilmente le corde
nel mio animo frustrato, rifocillandolo però, e riempiendolo di un’aria nuova; un’aria sicura di speranza in quel tuo atto tragico, in quel tuo strascico grido d’aiuto:
“Non
starò a raccontarvi la vera e propria disperazione che quel 12 settembre del
2008 colpì me e molti altri dei suoi lettori e ci tenne per lunghi mesi in una
morsa di dolore. Ognuno di noi ha un rapporto molto personale con la
letteratura di David Foster Wallace. Come gli oracoli, sembra voler dire cose
diverse a persone diverse. Ma oggi posso dire che non una delle sue parole ha
cambiato significato, per me, dopo il suicidio. Mentre lo rileggo continuo a
notare, anzi, quanto fosse frequente e potente il Comico, nella sua opera, e ci
sono mattinate terse spazzate dal vento in cui sono sicuro di ritrovarmi a
vivere dentro uno dei suoi giochi, d’essere un suo personaggio preso nella
morsa d’una certezza ridicola e mordace, quella d’aver imparato a vivere da un
suicida.”
"Per sempre lassù",
e per sempre dentro di me. Ciao Dave, a presto (strizzatina mia, questa volta)