venerdì 23 maggio 2014

Pane duro

Il pane duro è come il precariato: lungo a terminare.
Quando lo mangi senti un sapore stantio, di un qualcosa che è rimasto lì e di cui non si è potuto godere fino in fondo il profumo entusiastico dell’appena sfornato.
Quel momento iniziale, motivante e fragrante, viene spazzato via dapprincipio, con una spietata noncuranza di chi ti dice che, da subito, neanche il tempo di iniziare, hai un numero assegnato di scadenza inderogabile, proprio lì, stampato sulla tua non più tanto giovane fronte.
Proprio come il pane, che a distanza di pochi giorni si rende praticamente immangiabile, e il suo aspetto risulta venato da grumi di bianco secco; ogni tanto quei grumi li associ a quelle prime rughe che vedi farsi strada sul tuo volto allo specchio, quando speri che siano solo il risultato di gran risate al genuflettersi di occhi festosi, e poi, invece, scopri essere soprattutto il sottile risultato di un bacino premuroso di lacrime spossate, che scivolano e si incuneato presso di loro.  
Quando mastichi per tanto tempo il pane duro all’inizio non te ne accorgi, perché fondamentalmente hai fame; ma dopo un po’ cominciano a subentrarti inesorabili scosse alle mascelle che si propagano per tutto il cranio, ed è lì che ti rendi conto di quanto, a sentire interiormente quel fastidioso croccante stridio di crosta, puoi ritenerti ancora tutto sommato fortunato: riesci ancora ad ingerire qualcosa, a nutrirti in qualche modo, anche se il nutrimento non è dei migliori: ma tu butta giù, e vedrai che lo stomaco si riempie lo stesso.
Quando lo tieni in mano, sempre quel pane duro, senti che non deve essere buttato via, che non deve essere abbandonato al suo miserabile destino, e in quel frangente puoi associarlo al puro volontariato, o anche all’etichetta di disoccupato occupato in mille altre occupazioni: occupazioni non riconosciute dal capitalismo consumistico, dal capitalismo monetario; perché il lavoro, anche se dicono che non c’è, è diventato debole solo in questa accezione, e si è tramutato in tanto altro che già viene praticato, ma che fa fatica ad essere riconosciuto abbastanza per quello che realmente è, poiché non produce gli utili famelici per quel tipo specifico di consumo.
Ci sono tanti altri tipi di consumo, come i consumi valoriali, come le condivisioni di scambi avulsi da contratti formali, dove lo spirito dell’illusione che risiede nella sterminata individualità di ognuno prende corpo, e si manifesta nelle gesta dell’inventiva, nel luccichio intermittente e sensazionale dell’iniziativa inedita, nella sconfinata libertà umana.
Semplicemente il pane duro è un pane che non deve essere smaltito per poi semplicemente inquinare la nostra esistenza: va mangiato. Il concetto di lavoro che c’è dietro va modificato, e allora si accende il forno della fantasia che porta il nome dell’imprenditoria individuale e se ne fa una bruscetta, di quelle che ti ricordano tua nonna che quando eri piccolo te la preparava con parsimoniosa cura; di quelle leggermente dorate e con quel tocco di simpatico abbrustolito, che rende quel pane in un rinnovato stato di grazia; una grazia che può accogliere la giusta quantità di ciliegie di pomodoro decorate dal sale, e avvolte, infine, dall’abbraccio rincuorante di quell'olio leggero e profumato di fresco.
Bisognerebbe profumare la disoccupazione, e ravvivarla in quello che si cela al suo interno: chi ha detto che chi è disoccupato per i centri d’impiego – sparsi per ogni dove e davvero inutili – non sia per nulla e in qualche modo occupato? Chi ha detto che costui non si mobiliti altrimenti per immagazzinare cultura propria per poi espanderla, incanalandola nei circuiti virtuosi della collettività con cui entra in diretto contatto? Chi ha detto che chi verte in questa condizione semplicemente etichettata – che serve solo a rifocillare le false statistiche – non sia anche un infaticabile crogiuolo di smanettamento continuo che sta cercando con sudore e fatica esistenziale di riformattare per sé e per altri un genere di sapere diverso? Un sapere e delle pratiche non più arenate nelle logiche di quella generazione che dicono essere stata spazzata via e che non potrà più avere un misero barlume di ritorno?
Nessuno può dirlo, perché appena si sarà prodotta “la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali. Non esistono forze in grado di interromperne il corso – né umane né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica.”

Allora, se bisognerà mangiarne ancora di pane duro per disvelare quest’ulteriore mutazione si continuerà a farlo, decisamente, ma ci sarà chi, stanco di quel pano duro, lo abbandonerà spossato, nell’inquinamento della propria depressione esistenziale; e chi, invece, sarà sempre intento ad accendere tutti i forni impensabili dell’immaginazione, per poi finalmente sedersi tranquillo e rasserenato, felice di una stanchezza meritata, per potersi infine assaporare quell’anziana bruschetta rinvenuta che ha semplicemente il magnifico sapore di un Nuovo buono.

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