sabato 26 aprile 2014

La pensabilità della speranza

Sono a terra, sento che sono a terra. Sono lastricato, nient’altro.
È tutto buio attorno a me: la risacca del mare non c’è e l’asfalto mi stride in viso, severo. Tanto bella era la spensieratezza; peccato che se l’è portata via il vento, con le sue ragioni, e le sue giornate animate d’agosto, quando il fervido pullulare della sera andava risposandosi in quella candida stanchezza meritata a fine giornata e che non chiedeva più nulla, no, più nulla, se non il richiamo disinteressato di enormi e invisibili cicale nel loro battibecco infinito, un rimando ancestrale tremendamente confortante.
Un battito sordo, un tumulto appena passato, una confusione che lambisce le sfere della coscienza. E poi una luce, un’inspiegabile luce mi rischiara in viso e viene a cercarmi. Un soccorso repentino probabilmente, non saprei, ma chiaramente un-autentico-dono-salvifico.
Quando penso che sia tutto finito e non c’è davvero più nulla che si possa fare è proprio allora che si presenta la forma del riscatto, quello scatto umano che si riflette in una consapevolezza nuova, quella stessa che percepisci e che non sapevi minimamente di avere, prima. Sembra come se si sia formata a tua insaputa, pazientemente, nel rovo di una fucina lenta e saggia, che vuole darti consiglio, che prova a bisbigliarti ogni tanto, ma solo quando il suo pulsare è ancora timido e inesperto ai tuoi occhi, e sarà proprio per questo che, probabilmente, in quei primi immaturi frangenti, ne ignori completamente l’esistenza.
Tutto non è mai perduto, e se giaci al suolo e ancora respiri vuole dire che puoi rialzarti, prima o poi, con calma, puoi prenderti tutta la calma di questo mondo, il tempo c’è, c’è sempre stato...
Ho sempre pensato di avere un obiettivo nella vita, uno scopo prioritario: fare bene quello che sapevo fare meglio: impegnarmi, lavorare sodo, cercare curiosamente l’inspiegabile di uno spettacolo troppo forte per essere recepito tutto d’un fiato: la vita.
Ora, invece, mi ritrovo ad essere svuotato della mia essenza, di quell’unico senso che mi aveva sviluppato il mondo dinnanzi. E allora combattuto e chino reggo, al cospetto di una realtà all’apparenza vuota, la mia formazione, dettata dal ritmo di quel passato effervescente e carico di un esperienziale tutto mio, personale. E mi domando quanto ne sia valsa la pena, sì, quanto per la miseria, sì: questo costantemente mi chiedo.
Chi come me appartiene a queste generazione bruciata di diseredati dalle emozioni, dai desideri, dall’impulso vitale, questiona costantemente riguardo al suo futuro, un futuro gravido di incertezze: un chiodo fisso. Chi come me, dopo anni passati nel nomadismo più sfrenato di questa vita, si domanda se tutto il contenuto di senso di quegli attimi sacrificati alla propria gioia, alla propria tranquillità, alla propria spensieratezza, possa essere reso spendibile in un sistema sociale esterno che possa offrirgli, dopotutto, finalmente, un misero e sorprendente qualcosa: oggi questa domanda, a conti fatti e col senno di poi, può sembrare abbandonata, del tutto inevasa, di fronte ad una complessità fatta della stessa materia di quell’asfalto: severa. Una complessità a cui non siamo stati neppure lontanamente educati; sta qui il problema: la società è implosa – in quella sua nebulosa di astri maculati e così confusi – e noi, per l’amor del cielo, non siamo stati educati minimamente a cotanta complessità. Nei fatti non la conosciamo; manco riusciamo a immaginarcela (che è la cosa più importante).
Tuttavia, nulla è ancora così perduto. C’è ancora la gente, le gente come te, e io – si possa dire e pensare quello che si vuole – io credo sempre nella gente, brutta o bella che sia (brutta e bella per e in ogni accezione). E c’è ancora l’Europa, mamma Europa. Un esperimento mai concepito prima da luminari che ripudiavano in tutte le sue forme la guerra; nelle sue gestualità, nei suoi ritmi, nei sui malsani tatticismi strategici: la sua inumana politica andava a colpire proprio il contrario di ciò che dovrebbe sbandierare e rendere realizzabile la vera politica, quella seria, ovvero: il bene comune, il bene di tutti noi.
E quindi... Ampio respiro, fratellanza dei popoli, uguaglianza di diritti che surclassano i confini, affinché quest’ultimi non si traducano nella vera piaga del mondo globalizzato attuale: la disuguaglianza sociale senza esclusione di colpi; quella disuguaglianza che etichetta la gente innocente di colpe inesistenti: colpe create su misura per escludere. Questa piaga – la disuguaglianza sociale – purtroppo, è ancora definita e normata entro dei confini nazionali, all’interno di Stati-nazione che pretendono di bacchettare la vera essenza che ci unisce tutti: la consapevolezza e la forza di avere gli stessi diritti vitali su questo pianeta che stiamo martoriando, silente ma incazzoso nelle sue impetuose manifestazioni naturali che, violente, si sbarazzeranno del suo unico e vero cancro: il nostro dannoso e vigliacco lato oscuro che ormai ha superato davvero ogni limite.
E allora via i confini! Prendete una gomma bella grande e fate festa sdrucciolando in lungo e in largo tutte queste linee complicate e insignificanti: bisogna sconfinare! E mamma Europa ci sta indicando la via: poveri illusi chi non trae da Lei il vero senso dell’umanità che cerca di prendere corpo, di darsi un tono. Serve l’anima a tutto questo processo, affinché si sviluppi e perduri nel tempo. Ma l’anima dobbiamo mettercela noi, con l’impegno di tutti, collaborando, assieme, nelle e fra le nostre straordinarie diversità.
I nuovi saperi frutto dell’opera dell’intelligenza collettiva nascono in zone periferiche e mute. Sono destinati alla marginalità rispetto al pensiero dominante, ma se qualcuno li osserva, li racconta e li connette, la realtà può modificarsi. È vero che non ci sono maree di cittadini smaniose di liberarsi: la libertà (e la responsabilità che porta con sé) è ansiogena. Proprio questa condizione apre uno spiraglio. È il tema antico posto da Marx: se sono io stesso a co-produrre la mia alienazione, su questo spazio di libertà si può lavorare. C’è sempre una possibilità di (r)esistenza. Paul Freire diceva che bisogna creare il desiderio di libertà fra gli oppressi, restituire soggettività alle persone. Se si raggiunge una massa critica di nuovi comportamenti, questi potranno produrre cambiamento sociale al di là delle leggi e delle intenzioni dei governanti e dei finanzieri. Al di là non vuol dire contro [chiaro Grillini? Altrimenti riscrivo pazientemente di nuovo l’inequivocabile stralcio di citazione], ma semplicemente che la liberazione dell’intelligenza collettiva favorisce il re-innesco di circoli virtuosi disattivati a causa dello sfibramento dei legami sociali e del dominio della razionalità strumentale.” (Mazzoli, 2014).

E allora? Cosa stiamo aspettando? Il mio asfalto ora è lontano: è proprio sotto i miei piedi. Viene illuminato per giunta dal mio spiraglio di luce: trovatevi anche voi il vostro, o il vostro cercherà voi.
Ordunque: osservare, raccontare, connettere: la realtà può davvero modificarsi. Ciao.        

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