mercoledì 27 novembre 2013

Si sta bene sui tetti

Accadeva spesso che si dormiva in tre sopra uno stesso letto, in alto, sopra un soppalco che assomigliava più ad una comoda piccionaia che ad altro, ed eravamo felici. Anche un po’ sbronzi a dire il vero, ma questo era solo un inutile dettaglio. Capitava che si faceva tardi, e che la metropolitana era ormai chiusa da un pezzo e noi continuavamo a viverci la nostra euforia collettiva, insieme, noncuranti di quest’altro inutile e sempre incombente dettaglio: l’orario che segnava l’ultimo scocco di tempo utile per poter prendere l’ultimo treno che ci avrebbe condotto sotto il nostro tetto di appartamento in affitto. Ma non importava; la nostra casa era là, dove già eravamo, e dunque il resto passava in secondo piano, senza pensarci su. I dettagli esterni non ci interessavano più di tanto: erano i nostri dettagli, quelli che creavamo insieme, che ci importavano di più. Così come quelle riunioni in case così distanti l’una dall’altra, ma così vicine nello spirito del momento, un momento magico, capitato per delle circostante perfette che decisero di riunirci tutti lì, e di organizzare una grande festa umana. Sì, Umana. Quale espressione più abusata, bistrattata, ricca di significati ma mai veramente vissuta. In quei mesi invece, tutto sembrava possibile, e tutti, tutti insieme e nessuno escluso, la vivemmo sul serio quella sensazione: l’umana voglia di scoprirci, di confrontarci, di incazzarci, di sollevarci e di supportarci l’un l’altro, sgomitando nel sudaticcio brodo esistenziale. Fu un’esperienza unica, di quelle che possono capitarti poche volte nella vita e che sicuramente ti lasceranno il segno per molto e molto tempo, e che, tuttavia, fanno presto a concludersi. Insieme eravamo in grado di creare degli aloni di significato persistenti, di quelli che non riesci a cancellare neppure se ti ci metti d’impegno con gomito di panno. E quegli aloni erano formati dai cerchi concentrici delle diversità di ognuno, poiché solo dal riconoscimento delle differenze che si può scoprire il prisma delle ricchezze che prendono forma, e vanno espandendosi, in una qualità proteiforme che risulta inaspettata e rimane longeva, poiché semplicemente vera. Lo stare insieme era un rituale di riconoscimento reciproco, un volgere lo sguardo all’altro ascoltandolo in tutta la sua complementarietà che metteva a disposizione del gruppo: eravamo come dei tasselli di un grande puzzle, un puzzle che ogni giorno di più cresceva e prendeva forma, e si arricchiva di varianti, di variabili preziose, di indicatori di noi stessi: di forme tutte nostre che si incastravano nella simmetria consapevole e matura. Il riconoscimento di noi stessi, infatti, passa necessariamente attraverso il riconoscimento altrui, e non c’è verità più indiscutibile di questa. E allora uno si arrampicava sui tetti e invitava gli altri a contemplare esterrefatto il cielo stellato, quel cielo che sorprendentemente prendeva aria e si liberava dalla sporcizia accumulata durante tutto il giorno. E quelle luci distanti di stelle lampeggiavano ad intermittenza, scandendo un battito di polso che era sincronizzato sui nostri sentimenti di amicizia, che si consolidava e che recitava a memoria il dettato di un copione universale. E tutti sbirciavamo quelle pulsazioni, sorridendo, confabulando, e spalleggiandoci a vicenda. E allora i nostri discorsi prendevano le loro traiettorie biforcute e, come labirinti di gioia tra arbusti alti e bassi, ci permettevano di esplorare le nostre più intime essenze. Ricordo tali momenti con una nostalgia pura, la stessa nostalgia che caratterizzò tutti quanti nel momento in cui prendemmo coscienza che tutto ciò stava volgendo irrimediabilmente al termine. Cercai a mio modo di fissare quei momenti, di renderli eterni, uno ad uno, su dei foglietti volanti presi alla rinfusa da una scrivania scompigliata, e scrissi. Scrissi tanti pensieri teneri e di congedo per quelle persone che ancora dormivano su, su quella dolce piccionaia, mentre io afferravo le mie cose con delicatezza per non disturbare il loro meritato sonno, e andavo, per prendere la strada del mio nuovo giorno, lontano da loro con gli occhi ma mai così lontano da quello stesso nostro spirito, dalla comunione di quei momenti che sempre resteranno scolpiti da qualche parte, sì, forse proprio lì, su quel puzzle raffigurante buffi e autentici personaggi che trovarono, in quei mesi trascorsi assieme, semplicemente il coraggio di aprirsi ad una contingenza potenzialmente felice, senza alcun timore, poiché solo lì sarebbero stati in grado di rendere esperienziale la loro interdipendente libertà espressiva, per sempre e nuovamente; allo stesso modo in cui si fa ripartire una melodia che ci rimane impressa e da cui, non c’è scampo, non riusciremo mai e poi mia propriamente a distaccarcene, anche se per un motivo lontano da noi ci prendessimo egoisticamente la briga di volerlo fare.

domenica 24 novembre 2013

Il dolce far nulla serve un sacco

Lavorando come osservatore e ricercatore sociale nei nidi d’infanzia ho imparato una cosa che mi è sempre sfuggita o che, a dire il vero, ho disimparato da tempo: il dolce far nulla serve un sacco. Tale prescrizione è sempre stata avanzata, con un vigore altamente sfacciato, da qualunque modello pedagogico che si rispetti. Sì, proprio così. Perché i bambini, sin dalla più tenera età, in vista di un loro virtuoso sviluppo affettivo, cognitivo e creativo, devono imparare ad occupare il loro prezioso tempo anche cominciando ad identificare quelli che sono i loro momenti di solitudine, quegli spazi così ricercati che riconoscono il vuoto come governatore delle loro prime e minute azioni; attimi e momenti di vuoto che prevedono la ripetitività, la lentezza, e i primi bagliori di quello stato d’umore che riconosciamo tutti con l’annoiarci. Dobbiamo dunque imparare dai bambini: dobbiamo re-inventarci partendo dalla noia più falsamente frustrante, quello condizione che così, in maniera errata, cerchiamo di rigettare da noi stessi alla prima occasione. Solitamente, i genitori postmoderni di questi pargoli alle loro prime zampettate sono piuttosto ansiosi. Chiedono spasmodicamente alle educatrici/agli educatori se i loro bimbi oggi hanno fatto questo e quello, cosa hanno imparato di così importante per rasserenare le loro menti così tormentare per un così prematuro distacco. Dovete sapere, infatti, che i genitori in oggetto (nella maggior parte dei casi), impossibilitati dai loro carichi lavorativi, ricorrono al nido per i tempi di cura e, quotidianamente, sono costretti a vivere un senso di colpa imperdonabile: l’”abbandono” a degli estranei dei primi anni di vita dei loro figli. E quindi cercando di compensare preoccupandosene a più non posso, esigono sempre di riscontrare quel passo qualitativo che possa far pensare “comunque sta facendo e imparando tante cose e quindi, per lo meno, non va tutto perso: qualcosa di buono, in fondo, la sto facendo”. Quello che non sanno però è che anche quando i loro bimbi non fanno assolutamente niente è molto più che bene per loro, e su questo non si dovrebbe discutere. La verità è che questa società supersonica e sempre più frenetica e votata all’esaltazione della prestazione efficiente a tutti costi ha scombussolato realmente le nostre coordinate di riferimento. Il tempo e lo spazio vanno a braccetto, sì, ma si dissolvono reciprocamente nell’insensatezza di ciò che ci rimane dopo, dopo aver compiuto tutto quello che dovevamo per forza di cose fare per non annoiarci; tutte quelle attività di intrattenimento che sempre di più ci stanno allontanando inesorabilmente dal rumore sordo della nostra mente in solitudine. Certo, forse viviamo, più che in altre epoche, il regno della solitudine esistenziale, ma lo facciamo sempre interfacciandoci a qualcosa che potrebbe distrarci, a qualcosa che ci distanzia dalla vera auto-riflessione rigenerante. Dobbiamo ricominciare ad elogiare per noi stessi la lentezza, l’attendere che qualcosa prima o poi verrà, sicuramente. E non stare lì, impazienti di voler produrre tutto e subito, anche a costo di non capirci nulla e di bere tutte le bevute disponibili su quel banco al bar che chiama a suon di euro la quantità. Diversamente, la qualità è tutto, e va assaporata incessantemente, attimo dopo attimo, come falso grigio di quel vuoto che ci invade nei momenti di panico, un panico che si riscopre un lusso non appena cominciamo a dialogare veramente al cospetto di noi stessi, risultando ripetitivi certo, ma per nulla scontati, poiché quello che viene da dentro di noi è sempre unico e va gelosamente custodito e coccolato e fatto crescere. Dobbiamo educarci alla lentezza di una passeggiata che non porta a nulla, quel sentiero che tocca solo noi stessi e il mondo, che sempre e comunque è lì e ci dona inaspettatamente qualcosa. Dobbiamo rigettare la cultura del fare per forza e riprenderci le nostre pause interiori di silenzio, che non significano più rimorso di un tempo che ci hanno fatto credere come sprecato: nulla è davvero così sprecato se lo si valorizza come nostro e come peculiarmente singolare da poter condividere gratuitamente assieme. Dobbiamo cominciare a vedere di nuovo e, con questo, riguardo alla cecità di questa performatività che ci assale e ci sgomenta annientandoci nell’oblio dell’esistenza, vorrei concludere con l'aiuto di uno fra i maestri indiscussi della letteratura, un colosso che mi ha insegnato tanto e che porto sempre con me: “Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.” (Cecità, José Saramago)

lunedì 18 novembre 2013

La trascendenza si cerca in basso

Giochiamo d’immaginazione. Siete a cena, una cena a cui desideravate parteciparvi da un sacco e dove magari c’è anche tanta gente che non vedete davvero da tanto tempo, tale per cui è davvero difficile stabilire con certezza l’ultima volta in cui avete avuto modo di stare tutti insieme, tutti di nuovo così appassionatamente. Quel tempo macigno, infatti, ha pensato bene di riempire tutte le falle e, per giunta, ha arricchito la vostra vita con tanto altro e altro ancora, il ché è altamente normale. Tra le vostre presenze sul quel tavolo c’è qualcosa di invisibile, una materia che ormai fa luce su tutte le cose e appartiene propriamente alle vostre vite; un qualcosa che non potrete mai e poi mai condividere pienamente, nonostante i vostri più efferati sforzi di spiegazione condivisibile. E dunque persone del passato si rifanno vive nel vostro presente, con un volto nuovo e bizzarro, e quasi tutti i dialoghi, per avere una propria e più viva legittimazione, devono rifarsi quasi necessariamente ad un passato né tanto vicino né troppo lontano, seppure ormai inesorabilmente andato. La vita, nel frattempo, ha fatto il suo corso naturale e distanziato. Ad un certo punto (presumibilmente all’inizio della presa di posto), un tipo abbastanza audace, un tipo che ci vede lungo sulle sorti di una cena cosiddetta da “rimpatriata”, si alza col bicchiere in mano e, tintinnando con decisione quel povero bicchiere utilizzando una posata qualunque, chiede, senza remore, la parola tra i rimpatriati: ha in mente una proposta inconsueta e altamente provocatoria: deporre tutti i prolungamenti tecnologici (nella fattispecie smart phone o simili) e accumularli ad un angolo lontano del tavolo, dimodoché l’atto in sé possa essere da monito per tutti: chiunque si arrischi nel cercare di sbirciare o di gironzolare in una realtà altra che non sia quella della serata in corso d’opera verrà penalizzato duramente: pagherà senza sconti l’intera cena a tutti, nessuno escluso. Tuttavia viene contemplata un’unica, quanto remota, eccezione al caso: si potrà eventualmente rispondere solo ad un’inaspettata (?) chiamata della mamma, poiché ritenuta dalle circostanze plausibilmente improrogabile – nel caso in oggetto, al termine della chiamata, la mamma in questione dovrà, per forza di cose, confermare, preferibilmente in vivavoce, l’effettiva veridicità del suo ruolo di mamma del soggetto interessato, salutando collettivamente tutti i commensali presenti alla cena; anche se non conosce tutti quanti non importa). Lo scopo del gioco è la deterrenza dalla nuova trascendenza in formato digitale: riusciranno i nostri eroi nel motivato e tanto ricercato intento? (di motivazione, per dirla tra noi, ce ne vorrebbe a palate). Tutto ciò, infatti, sembra esser diventato difficilmente attualizzabile al giorno d’oggi. Una volta capitava di osservare il cielo per trovare una qualunque ispirazione; oppure c’era chi preferiva il mare per staccare un attimo dal quotidiano e per collegarsi all’altrove (chi ha il mare a portata di mano, sa di cosa sto parlando); o ancora, tendevamo, molto innocentemente, ad essere per lo meno partecipi al cospetto di una conversazione seppur di circostanza. Tutto, in qualche modo, prendeva quelle sembianze che riuscivano a trasportarci in una dimensione in cui si poteva riconoscere un barlume di momentanea sensatezza. Anche se tutte queste belle cose continuiamo comunque a farle, sembra che il quadro della situazione non sia più lo stesso: che lo vogliamo o no le cose sono piuttosto cambiate. Con un occhio si osserva l’interlocutore per non tradire il proprio ascolto (che si presume attivo) e con l’altro si dà una sbirciatina ad uno schermo digitale: il mondo si è concentrato in una sola mano ed è peggio di una calamita scorrevole e “informativamente” imbizzarrita: anche se cerchi di sfuggirle lei prima o poi ti troverà: basta sollecitare e toccare quello schermo. E può anche essere un nuovo tipo di distrazione da dipendenza ma, effettivamente, sta modificando il nostro modo di concepire il contesto in cui siamo inseriti e i legami sociali che vogliamo o tentiamo, affannati, di costruire, rinsaldare, e sviluppare in divenire. E dunque le cene sono diventate parecchio noiose con tutta questa gente che alla prima occasione utile evade, si fa letteralmente assente, cercando non si sa cosa in quell'aggeggio così utile e "spettacolare" (tu non lo sai, lui forse sì); sempre con quel capo chinato verso il basso, simile ad una strana e obbligata deferenza che lo estranea da tutto e da tutti. E quelle sue dita sono così impegnate a scorrere e a smanettare che non ce la possono fare e, penso, che preferivano di gran lunga gesticolare caldamente con persone reali, presenti, piuttosto che stare lì, unte delle proprie impronte digitali sudaticcie, a tastare a tentoni un freddo, ma così sorprendentemente accessibile, schermo bombardato di meraviglie.

Forse volevo dire tante cose, forse non ho detto davvero proprio nulla, ricadendo magari in sterili luoghi comuni piuttosto noiosi; ma in questo caso è proprio la disarmante sensazione che la fa da padrone, non so come spiegare. Evidentemente, per tali questioni, è davvero parecchio difficile capirci qualcosa, almeno per il momento. Ma quell’ipotesi di cena, tanto inusuale quanto veramente rappresentativa di un ritorno a soli pochi anni fa, io me la vorrei proprio godere un’altra volta, giusto così, per saggiarne l’effetto che fa, di nuovo.

giovedì 14 novembre 2013

Il tramonto è Biancosarti

Lui è già lì, tutto già profumato e candido, appena uscito dalla sua sciacquata ascellare post-giornata intensa da master, e ti aspetta, per un tempo che ti sembra essere sempre indeterminato. Non si sa perché, ma quando arrivi e metti piede nella sua immensa abitazione non lo trovi mai: sembra nascondersi sempre in luoghi tutti appollaiati, luoghi di ristoro sparsi per tutta la casa e che tu non troverai mai. Poi, dopo il decimo e guardingo passo che ti conduce nel suo soggiorno accogliente e ampiamente orizzontale, lo trovi che ti spunta, proprio dove disorientato ci sei anche a tu, e si presenta come un folletto che ti dice in un ruggito addolcito al miele “Zioooo, alloraaa?? Com’è com’è ahhh. (Pausa bella piena; dopodiché) Tutt’apposto?” in un idioma che è un mix di musica, mare ed effervescenza catartica. La cosa più sorprendente però è che lui è praticamente quasi mezzo nudo quando te lo dice. Fa caldo, è vero, e siamo nel maggio di un’inquinatissima città nord industriale, e lui è già spoglio di tutto, della giornata, di ogni minimo pensiero che infastidisce la serenità conquistata anzitempo dalla mente (tutto questo solo apparentemente però, perché quella sua simpatica testa pelata lavora ad una velocità supersonica, e le connessioni che riesce a fare in un decibel di secondo non saranno mai alla tua portata; questo è tassativo: lo devi sapere). Dunque, è praticamente già tutto mezzo nudo, pronto per un qualcosa che sembra altamente cerimonioso, ma tu non lo sai: davanti a lui il tuo approccio mentale deve presentarsi come una lavagna sgombra di bagnato pulito, pronta ad accogliere qualsiasi estrosità, altrimenti risulta difficoltoso capirci qualcosa, dopo. I suoi slip ultra firmati, oltre che incredibilmente attillati e pronti per una sfilata di moda super sexy, a momenti cedono; ed è tutto un pittoresco personaggio agghindato di se stesso che te la fa prendere proprio bene, e tu lo vedi e non riesci a capire... Perché? Perché fondamentalmente non capisci esattamente se ha dimenticato di togliersi gli occhiali da sole in casa o ancora li indossi per un motivo tutto suo. Le possibilità sono due: o è un essere da occhiale da sole dipendente, e forse ci sta; o vuole godersi qualcos’altro di inaspettato, e tu, per la miseria, vai a tentoni incuriosendoti sempre di più. Allora, la prima ipotesi, secondo il mio umile parere, potrebbe essere plausibilissima, dato che, quegli occhiali da sole, così fighi e da urlo, sono anche piuttosto graduati, e quindi senza la loro gradevole inforchettata alle orecchie il nostro personaggio ci vedrebbe ben poco, e proprio per gentile concessione a tal motivo non ci pensa minimamente a staccarsene, per nessunissimo motivo; perfino quando in aula pone domande interminabili e cervellotiche, ma soprattutto labirintiche, a professori piuttosto imbarazzati, professori che, sempre con la faccia incrinata e a punto interrogativo, cercano disperatamente l’aiuto del pubblico. La seconda ipotesi si svela da sé, gradualmente, un vero e proprio tappeto rosso che si srotola, che ti fa accomodare con il benvenuto riservato solo ai re, e ti permette di calpestare, morbidamente, un soggiorno trascendentale che si protende nella sua apertura alare verso il tramonto. E quindi ti ritrovi in una stanza, oltre che spalancata, imbevuta a sorsate, tutta inondata di quella tipica luce arancione infuocata che racconta il cedere di un cielo felice che si abbandona; e tu cerchi te stesso sentendoti esattamente così: appagato nell’abbandono. Poi che fa: facendoti prendere posto su panche da osteria ti volge le spalle per trafficare in un frigo esplosivo, tutto intento a sfoderare, in fine, una bottiglia che ai suoi occhi vedi preziosissima ma che tu continui a non riconoscere. Sì, perché si tratta di una bottiglia prodotta, in vero, solo di recente, ma che ha il sapore della veggenza antica. All’apparenza sembra una di quelle bottiglie sorseggiate nelle versioni aperitive di decine di anni fa, conosciute solo da buoni vecchi intenditori e da lui, il nostro personaggio. E allora comincia a versare una quantità ben considerevole di questo aperitivo Biancosarti, introducendolo nel tuo appena sciacquato bicchiere unto da lavandino, e te lo pone, quel bicchiere, con l’intrinseca tesa di braccio propria della grazia divina. Tutto ciò permette un andirivieni di discorsi del tutto originali, neppure lontanamente stereotipati, che ti fanno sentire come in un tutto con la quintessenza del piacere: dialogica e corporale assieme. E allora affronti discorsi caserecci (con sue celebri citazioni del tipo: “Zio? "Mi sono sempre chiesto come si faccia a scappare a gambe levate"), ma anche conversazioni battuta-e-risposta sulle sorti di questo nostro mondo che cade a pezzi, pescando, ad intermittenza, rimasugli di ricordi che vedono come protagoniste quelle ragazze che ti hanno fottuto anima e corpo, ma che poi risultano essere sempre, paradossalmente, le uniche vere regine di discorsi compiaciuti. La modalità tipica del suo parlare, oltre a quel marcato accento che lo distinguerà sempre e comunque, si estrinseca, nello specifico, con paroloni ricercati e inusitati, intervallati, qua e là, da risate auto-riflesse che necessitano di una bombola d’ossigeno esterna, invisibile ai tuoi occhi. Tu, di primo acchito, non capisci la natura di quelle risate, ma in seguito, dopo aver percorso un tragitto bello lungo e accompagnato da abbondanti e dolci sorsate di Biancosarti, riesci a coglierne la vera essenza, l’essenza di un sorriso che ha il carattere inglobante, esattamente come quello dispensato dallo Zio Gandhi alla frustrata umanità. Ecco perché io a questa persona, lungi dall’essere un personaggio frutto della mia immaginazione (sarebbe tutto più semplice se fosse andata in questo modo, e se fosse stato un mio amico immaginario; e invece no, neanche a dirlo), gli voglio un mondo di bene, e come giustamente sottolineammo tutti insieme una volta, in preda alla nostalgia collettiva che si sarebbe presentata in quel breve periodo imminente, ribadisco “Il tempo è nostro amico e tu ce lo riempi dell'interminabile voglia di vivere.”

mercoledì 13 novembre 2013

La condizione postmoderna

Rapporto sul sapere

Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Si tratta indubbiamente di un effetto del progresso scientifico; il quale tuttavia presuppone a sua volta l’incredulità. Al disuso del dispositivo metanarrativo di legittimazione corrisponde in particolare la crisi della filosofia metafisica, e quella dell’istituzione universitaria che da essa dipende. La funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini. Essa si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis. Ognuno di noi vive al crocevia di molti di tali elementi. Noi non formiamo delle combinazioni linguistiche necessariamente stabili, né le loro proprietà sono necessariamente comunicabili. Pertanto la società che ne deriva dipende meno da una antropologia newtoniana (come lo strutturalismo e la teoria dei sistemi) e più da una pragmatica delle particelle linguistiche. Esistono molti gioghi linguistici differenti, che costituiscono l’eterogeneità degli elementi, ed i giochi possono generare istituzioni solo attraverso un reticolo di piastrine, che costituiscono il determinismo locale. Tuttavia il sistema decisionale si sforza di gestire queste nebulose di socialità attraverso matrici di input/output, secondo una logica che implica la commensurabilità degli elementi e la determinabilità del tutto. La nostra vita è così votata all’accrescimento della potenza. La sua legittimazione in materia di giustizia sociale e di verità scientifica consisterebbe nella ottimizzazione delle prestazioni del sistema, nell’efficacia. L’applicazione di questo criterio a tutti i nostri giochi non è disgiunta da certi effetti terroristici, velati o espliciti: siate operativi, cioè commensurabili, o sparite. Questa logica della miglior prestazione è indubbiamente inconsistente da molti punti di vista, in particolare da quello della contraddizione in campo socioeconomico: esso esige ad un tempo meno lavoro (per abbassare i costi di produzione) e più lavoro (per alleggerire il peso sociale della popolazione inattiva). Ma l’incredulità è ormai tale che, contrariamente a Marx, nessuno si aspetta oggi che tale inconsistenza possa costituire una via di scampo. La condizione postmoderna è tuttavia estranea al disincanto, così come alla cieca positività della delegittimazione. Dove può risiedere la legittimità, dopo la fine delle metanarrazioni? Il criterio di operatività è tecnologico, non è pertinente per giudicare del vero e del giusto. Forse nel consenso ottenuto attraverso la discussione come ritiene Habermas? È una soluzione che violenta l’eterogeneità dei giochi linguistici. E l’invenzione si produce sempre attraverso il dissenso. Il sapere postmoderno non è esclusivamente uno strumento del potere. Raffina la nostra sensibilità per le differenze e rafforza la nostra capacità di tollerare l'incommensurabile. La sua stessa ragione d'essere non risiede nell'omologia degli esperti, ma nella parologia degli inventori (“parologia” qui intesa come "mosse" grammaticali del gioco linguistico).

Tratto da La condizione postmoderna, Jean-Francois Lyotard, Feltrinelli, 1981.

lunedì 11 novembre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 4)

Questo è un ricordo un po’ sfumato, di quelli che ne trai l’essenza e basta, quel tanto che ti occorre però per renderlo irrimediabilmente speciale. Ero a Bruxelles, come si evince dal titolo melanconico che, ormai per consuetudine, riserbo a questa sessione di post piuttosto a tema, ed ero, dicevo, assieme ad una banda italiana. “Banda” non è il termine più appropriato; diciamo più che altro una “scorribanda”, una scorreria ecco, come una folata improvvisa di una combriccola italiana apparentemente sprovveduta e accidentata e che, in uno specifico posto designato da una cartina tutta stropicciata della città, metteva in atto un saccheggio diligente e improvvisato, tutto con la massima resa e il minimo sforzo. Il posto specifico in questione era una specie di grande rimessa, di quelle che di aspetto non puoi che associare al deposito dei grandi magazzini, ma appositamente addobbata a marketing per ricevere un evento viticolo che avrebbe sfoggiato le prelibatezze perlate di fiumi e fiumi di quella varietà sfaccettata che può anche svelare (e chi l’avrebbe mai detto) il buon vecchio vino portoghese. Ora, non chiedetemi i nomi e le qualifiche annali dei diversi e importantissimi vini che erano a completa disposizione lì per tutti gli avventori, perché proprio non me li ricordo. Ho solo una luce mnemonica che mi proietta nelle altre luci di una tipica danza, quella danza che tra un banchetto e l’altro, tra un signore che tutto ingiacchettato centellinava dolcemente vini rossi pregiati in bicchieri altrettanto altisonanti, e ancora un altro, altri signorotti tutti esperti e appassionati, con le guance paffute e infuocate dalla passione del vino nelle vene sempre in circolo, quella danza dicevo che ti trasportava dove ti portava solamente la sapiente curiosità. Almeno questo era quello che pensavano loro, i signorotti tutti ben vestiti, e invece no: quale curiosità? Poteva anche essere, una specie di curioso approccio verso l’”alterità-fatta-a-vino”, ma... Diciamola tutta come stavano davvero le cose: ci eravamo solamente e senza mezzi termini imbucati in una danza completamente gratuita, agghindata di degustazione di vini portoghesi dalla consumazione praticamente illimitata e non convenzionale (ragionevolmente fino ad esaurimento scorte). E quindi questi simpatici signorotti gran bevitori, ma anche grandi illustratori di essenze, ti guardavano con quell’occhio esperto, cercando conferma in te del medesimo e identico luccichio di passione, quella stessa comunione di interessi che si rifaceva all’arte tanto decantata e gustativa e, con quel loro fare davvero accomodante tipico di quell’intimità piuttosto garbata, ti dicevano scorrevolmente e senza un minimo di pausa “Senta un po’, che ve ne pare?”, cercando l’effetto del probabile lustro illuminante che avrebbe provocato in te quella stessa ebbrezza odorata che provocava in loro, la stessa e studiata sciacquata di bocca e, infine, l’ingerimento compiaciuto nei meandri di tutto quel tuo corpo che non era che ormai inebriato. Ah quali momenti indimenticabili, davvero. Come avrete precocemente già afferrato da un pezzo diventammo anche noi dei veri esperti e appassionati e intenditori di vino, e davvero, chi ne ha più ne metta, perché sì, abbiamo fatto proprio così, ce ne inventammo di belle belle: tutte le qualifiche e attività più inculate di viticoltura biologica con i contro-cazzi ce l’avevamo e le operavamo noi; di punto in bianco eravamo diventanti gli autentici esperti del settore che non avevano alcun bisogno del sentito dire per approcciarsi ad un tal ben di Dio a completa (e gratuita) disposizione. E allora via davvero alle danze; da un banchetto all’altro, da un signore ad un signorotto simpaticone all’altro che ti versava da bere aggratis, in fiumi di vino che venivano e andavano, sì, proprio giù, a toccare le nostre anime commensali. Eh sì, perché non si trattava solo di vino in quel bizzarro magazzino, ce n’erano di prodotti e di tutti i tipi. Più che altro erano un mezzo indiscutibile per colmare il vuoto di pancia che sarebbe risultato brontolone piuttosto a breve se non pensavi subito a compensarlo a dovere. E dunque formaggi di tutti i tipi e salumi piccanti serviti ad hoc: tutte pietanze commisurate per l’esaltazione gustativa di quel maledetto liquido rosso che andava sempre di più giù, ad ogni sorsata di bicchiere. E poi c’era anche una delle attrazioni innovative a darti quella grinta giovanile in più, una specie di liquore portoghese molto dolce, un certo Licor Beirao, che andava mixato col lime o con la fragola, a tua scelta “Come lo desidera?” e tutto a tua completa e sempre disponibile concessione (ragionevolmente fino ad esaurimento scorte). Ma il re della serata era, ovviamente immaginabile, il Signor Porto, e che Porto: tanto era signore che si era moltiplicato in sette varianti della sua specie, e tutte accuratamente da provare, poiché ogni vitigno aveva la sua storia, la sua terra, e il suo modo così peculiare di fabbricazione armoniosa. E quindi danzavamo e sparavamo minkiate a go go, fingendoci intenditori dell’uno o dell’altro vino, e ne volevamo assaggiare di tutti i tipi, e ancora, mai davvero sazi, perché proprio non ci tornava, e volevamo ancora definire meglio le sorti di quelle splendide sensazioni che avrebbero inglobato tutti noi, per mente e per corpo. È inutile dire che fu una di quelle serata in cui l’occhiatina divertita in gruppo la faceva da padrone, e dove l’incredulità del tanto bere gratis si fondeva ad una negoziazione di sentimenti che ci rendeva uniti, tutti insieme, perché solo tutti insieme eravamo per la prima volta riusciti a vivere un’avventura propriamente nostra, dal sapore inconfondibilmente collettivo. Poi però, tutti brilli e leggeri, comprammo qualsiasi cosa, tutte quelle bottiglie di vino (e di Porto) che ci avevano di più colpito al palato, e l’intento finale di quei signorotti arguti era alla fin fine bello e compiuto; ma andava bene così, perché è dal diletto e dal divertirsi che nascono le cose migliori, e queste gentili persone, con le loro altrettante gentili offerte, non avevano fatto altro che farci assaporare il sole di quella loro e mai troppo inculata terra. E non è detto che tutta la condivisione che abbiamo di questo mondo debba sempre necessariamente consumarsi in un marketing bruto e brutale, no, assolutamente, perché può e deve esserci per forza sempre qualcos’altro, che vada al di là del fottere qualcuno per racimolare e fare il proprio dannato ed egoistico interesse; quel qualcos’altro che sempre ci unirà, oltre la disparità delle singole vedute opportunistiche; quel qualcosa di immateriale che scalfisce sempre la somma delle parti e sovrana, come il Porto, e ci accomuna, tutti, sempre, come in un’avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un’esuberanza libera e interdipendente. Sempre.

venerdì 8 novembre 2013

Una manciata di Incipit

Un pomeriggio d'estate Mrs Oedipa Maas, rincasando da un party Tupperware in cui la padrona di casa aveva messo forse un po' troppo kirsch nella fonduta, scoprì che lei, Oedipa, era stata nominata esecutore o – meglio, a suo parere – esecutrice testamentaria di un certo Pierce Inverarity, un magnate immobiliare californiano che una volta nel tempo libero aveva perso due milioni di dollari, ma possedeva ancora beni in quantità, e abbastanza aggrovigliati da renderne l'inventariazione tutt'altro che una passeggiata.

L’incanto del lotto 49, Thomas Pynchon



Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.

Chiedi alla polvere, John Fante




Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.

Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino




Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti, e Mindy Metalman non fa eccezione, pensa Lenore, all'improvviso. Sono piatti e lunghi, con le dita strombate e i mignoli afflitti da bottoni di una callosità giallognola che riappare a mo' di battiscopa lungo i calcagni, e sul dosso dei piedi sbucano peluzzi neri arricciati, e lo smalto rosso è screpolato e si scrosta a boccoli per quant'è vecchio, mostrando qua e là striature bianchicce. Lenore se ne accorge solo perché Mindy si è chinata in avanti sulla sedia accanto al minifrigo per staccare dalle unghie dei piedi appunto un paio di fiocchi di smalto; i lembi dell'accappatoio si dischiudono su un generoso scorcio di scollatura, decisamente più sostanziosa di quella di Lenore, e lo spesso asciugamano bianco che cinge la chioma zuppa e shampizzata di Mindy si è allentato e una ciocca di capelli scuri è sgusciata tra le pieghe e scende leggiadra incorniciandole la guancia fin sul mento.

La scopa del sistema, David Foster Wallace

domenica 3 novembre 2013

La faretra dei sentimenti

Un impeto, un fragore, un tuono di festa: ecco la quintessenza della felicità. Il viaggio per raggiungere tutto questo è però solitamente percosso da sentieri bui, minacciosi, tendenti all’incubo degli incubi peggiori, ed io non faccio altro che inoltrarmi, mi ci catapulto ecco, li percorro e li attraverso, tutto tremante, tenendo per mano la chiara e intima consapevolezza del vederci sempre lontano, qualsiasi cosa accada, qualsiasi traversia possa minacciosa aspettarmi, conservando sempre con me, su quel selciato personale di cammino, quel pizzico di sentore speranzoso che mi proietterà sempre più lontano, e più lontano ancora, sempre si spera, dove qualsiasi e pregiata gemma di vita può essere toccata solo dalla più arguta e allo stesso tempo incantata sempre presente immaginazione. E dunque fagotto in spalla e si parte, con la scintilla per ogni dove. La finestra delle possibilità si fa sempre più angolare e dai suoi angoli, con caleidoscopica precisione, si dipana per estensione: li afferri e mo’ di mollette e gli allunghi a tuo piacimento attraversando la loro elasticità, allargando questa volta il tuo di angolo visuale. E dunque che fai: ti arresti. Ti sembra di vederci tutto chiaro e allora avanzi nuovamente. I soggetti del tuo desiderio sono tutti là, ansiosi della tua scelta e febbricitanti di una possibilità che solo da te verrà dettata con l’indice alzato; e allora non ti resta che scrutarli, con fare piuttosto ammaliato in procinto della tua emozionante indicazione... Quando un mio amico mi suggerì il titolo meravigliosamente inconsueto di questo post le circostanze erano imbevute di liquida tumescenza alcolica, e la fioca luce dei viottoli dove eravamo inseriti illuminava le nostre esistenze finalmente ritrovate, non permettendomi, tuttavia, di afferrare bene, di primo acchito, cosa lui, sempre quel mio amico, stesse di preciso pensando; ma colsi distrattamente, in quel suo sguardo dall’euforia spensierata del coniare smanioso ex novo, un rimando simbolico ad altri mondi, mondi tutti suoi soggettivi venuti piuttosto da lontano, e che si rifacevano (sempre quei mondi) ad una cazzutissima espressione che sguazzava nelle sue cervella da peluche sudaticcio col drink in mano incorporato. E allora decisi di re-interpretare quella sua felice espressione come un’entrata in scena memorabile e mi proposi che, da quel momento in poi, avrei dovuto rincorrere quell’obbligo che vedeva suggellare quel nostro incontro-momento, tra quei viottoli di luce giallo fioca, la tipica luce che si rintana in quella dimensione sfumata che appartiene propriamente alla cartella-catalogazione post-aperitivo. La faretra. Che diavolo gli sarà sobbalzato in testa a quel peluche sudaticcio e barbuto in quel nano di secondo spuntato: la faretra. Un astuccio pregiato che contiene lungimiranti frecce di precisione, come quelle che risalgono al tardo medioevo, di cui è rimasta visibile traccia in tante delle sue superstiti, come quella che ha ben pensato di rimanersene conficcata nella sua ombra secolare distinguendosi lassù, in alto, alla luce di un porticato in legno della Bologna dei giorni nostri (solo per inciso: esiste davvero quella freccia, e l’ha fatto intendere chiaramente che non ha nessuna intenzione di smuoversi da lì). Magari quel nesso cerebrale di quel mio amico barbuto e sudaticcio (con un pullover rosso e una valigetta vintage per l’occasione) si rifaceva a dettami ancestrali incuneatisi proprio in quel bizzarro momento in quei suoi peculiari interstizi cognitivi, chissà. Fatto sta che mi ha spinto a dovere a rovistarci in quella faretra delle meraviglie e a rimuginarci parecchio su, circa una possibile connessione con un qualcosa che solo lontanamente poteva assomigliare ad un sentimento. E allora sono arrivato alla conclusione che si tratta di un’espressione grandiosa, pensa un po’ “La faretra dei sentimenti”, quale tessuto immaginifico più azzeccato. A volte il termine “faretra” lo ritrovavo in saggi ultra-specializzati di sociologia-non-inculata-letteralmente-da-nessuno, utilizzata da ricercatori sottopagati e costretti e ricurvi tutti stipati in aule studio davvero piccolissime; e questa gente tramortita dalla vita accademica (che sempre avevano oltretutto desiderato) si ritrovava ad utilizzare quel termine, per darsi, come dire, un minimo di stacco poetico e melodioso da tutta quella caterva di ricerca che erano solititi compiere per baroni stempiati e bastardi, solo pronti a mettere la loro firma sui loro tanto ricercati e appuntati scritti (gli scritti dei ricercatori). Questa momentanea e slanciata poeticità a fronte dello snervo l’ho sempre vista come un tentativo bizzarro e malriuscito di evasione, anche perché quel termine in quei testi sociologici era accostato solitamente alle parole “soluzioni” e “possibilità”, tutti tecnicismi che, comunque, venivano asserviti ad un’unica e sola causa comune: far fare bella figura al – per incrementare la quantità delle pubblicazioni accademiche del – dispotico barone bastardo citato in precedenza (e non si tratta di baroni rampanti; quelli sono fatti di tutt’altra stoffa, almeno per come li intendo io – vedi l’opera troppo incredibilmente fantasiosa, e forse il libro più tremendamente bello, di Italo Calvino “Il barone rampante”). E dunque, diversamente, l’associazione della faretra ai sentimenti mi ha dato come un respiro nuovo, una particella di ossigeno mai respirata prima, una ragione nuova per credere che all’interno di quell’astuccio pregiato possiamo veramente fare incetta delle nostre emozioni e trovarcele in mano dove-meno-te-lo-aspetti: perché le vere emozioni sono quelle che sul serio colpiscono il nostro interlocuotore-soggetto e lo fanno piacevolmente sconquassare di quella veridicità spiazzante che sarà sempre giustificata, perché umanamente e inter-soggetivamente vera.

Ora, non so se sono riuscito realmente a cavarci un ragno dal buco, ma meta-realmente penso di sì. Ecco perché vorrei dedicare queste mie parole a quel peluche del mio amico che, spero, or ora, in questo preciso e assoluto momento, sia tutto intento a leggere fino a qui, proprio fino al ciao Bubu.

sabato 2 novembre 2013

Una storia ridotta all'osso della vita postindustriale



Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso. A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sì, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sì, o invece sì.

David Foster Wallace