mercoledì 3 dicembre 2014

La semantica deleteria della velocità

L'ostinata velocità ci paralizzerà, e noi rimarremo lì, in quell'orbita sconquassata, girovagando a vuoto nel silenzio increscioso e solitario della nostra sterile consapevolezza, che al minimo sussulto s'imbroncerà, al primo impatto si adirerà, contro l'alterità, armandosi fino ai denti di pregiudizi per semplificare, di barricate per proteggere, non appena verrà sfidato gentilmente quel nostro ansimante e artefatto dinamismo - cocciuto e deleterio seminare d'insensesatezza - che non porterà a niente, che non produrrà alcun genere di frutto maturo: solo rami fratturati, linfe scaraventate da tempeste limpide all'orizzonte, dove i sorrisi delle foglie si spegneranno inesorabili nel loro fluttuare forsennato, e dove in aggiunta potrà - solo per una salvifica casualità - trapelare un lontano richiamo di speranza, la stessa speranza che non si perde mai, considerando in questo caso una preziosa possibilità, e cioè quella di rallentare il beccheggio del movimento impazzito, e di far sì che quei sorrisi formato-foglia possano finalmente dondolare, lentamente, nel dolce riflusso gravitazionale verso il basso, sempre più giù, sì, quasi ondeggiando sbadatamente, per abbandonarsi e posarsi su quelle ultime anime pie di gente rimasta, che pavimentata per ogni dove le riceve in segno di lealtà, e finisce per accoglierle premurosamente nell'amor di condivisione.

mercoledì 19 novembre 2014

Vita da nomade

Sono un nomade, da anni ormai. Ho vissuto molti luoghi, e in tutti quei posti la posta in gioco era sempre molto alta: badare alla mia sopravvivenza. Ho varcato soglie imprevedibili del mio essere. Ho visto scene euforiche di un inedito me che si mescolava con le faccende del mondo. Ho avvertito il calore di lacrime che scendevano giù per colmare lo sfogo delle distanze. Ho macinato distese di chilometri, lastricate e paesaggistiche visioni di contesti del tutto diversi tra loro, completamente nuovi al mio occhio vergine e inesperto, la cui spazializzazione mnemonica si rifà, tutt'ora, a quelle persone incontrate lungo i sentieri, che continuano ad animarli irrequieti, in quelle gesta così sospese poiché impacchettate in vitali esperienze dedite ad un altro tempo, un tempo ormai andato, ma in quel modo unico e irripetibile che alberga ancora nella mia mente, cocciutamente, intenta a ricordare nostalgica... Sono una persona diversa ora. Tanto tempo è passato e il mio respiro è cambiato. La mia voce ha subito un'alterazione soddisfatta del timbro d'intonazione, e il mio sguardo, ormai, è decisamente di un maturo cenere. Ho fatto dell'imprevedibilità il mio punto di forza. Della sospensione del ricordo, e dell'arresto del desiderio volitivo, l'alternativa congeniale per concedermi all'adattamento fluttuante delle circostanze. L'incertezza è l'unica certezza che ho, ma tutto questo scontroso individualismo che si percepisce a giro mi ammazza, sì: ammazza lentamente la mia creatività, la denutrisce. La maggior parte delle persone continua a calpestare ignara queste strade pregne di lordume e, allo stesso tempo, continua a condurre la propria esistenza strozzata in questa morsa invisibile di disumanizzazione imperante... Il risultato è che ognuno è diventato tremendamente solo, costretto com'è ad essere libero di vivere la propria sonora solitudine esistenziale. Allora chiudo gli occhi, per un momento, anzi per due, e penso solamente alla mia prossima avventura esotica, alla mia prossima tappa mentale, lontano da qui.
Anonimo

giovedì 16 ottobre 2014

Mi chiamo Frandom, e sono una rana che saltella nel buio.

Mi sento inutile, sono inutile, mi hanno reso inutile. Tutto il sapere che vado accumulando nella mia vita risulta scomodo, e viene sistematicamente riciclato in qualcosa di stantio, di marcio, da eliminare il prima possibile.

Paradossalmente, chi ha studiato poco o chi conosce lo stretto e necessario, chi non si fa troppe domande, e chi, per carità, opera in settori indispensabili alla macchina-mondo – ma del tutto estranei al ed esenti dal pensiero che dovrebbe azionarlo, può avere la facoltà o addirittura la capacità economica di comprarsi una casa, di avere una vita indipendente e autonoma. Chi lassù detiene il vero potere ha intenzione di legittimare solo quest’ultimi, perché chi al contrario ha troppo sapere da manifestare, da spendere per gli altri, risulta oltremodo scomodo, e deve essere messo assolutamente da parte: va oscurato… Male che vada in un futuro lontano, e vista la sua caparbia cocciutaggine, verrà arruolato come mercenario pluripremiato e profumato di soldi, un vero e proprio soldato addestrato al sistema economico attuale, e lì il suo pensiero cambierà di conseguenza, il suo cervello verrà estirpato, per essere sostituito con un altro più consono, ritagliato su misura, giusto in proporzione al denaro che gli verrà concesso. “Lavori solo per poco e fai qualcosa che non ti fa felice”: questo è il sentimento di coloro che si vedono perennemente rassegnati, che hanno da dire molto, ma che tra un po’, molto presto, verranno messi a tacere, e si vedranno uniformati alla flessibilità arrogante e deleteria del mondo che li circonda. Non fraintendetemi: la flessibilità ci dev’essere. L’incertezza e il cambiamento che la contraddistinguono sono la stabilità dei nostri giorni, su questo non si discute. Solo che, dal mio povero e insignificante punto di vista, quella concezione di flessibilità andrebbe concepita e trattata un tantino più umanamente, solo questo.

È tutta un’illusione, un’illusione di segno negativo: ci hanno educato e formato unicamente verso questo tipo d’illusione. Ci hanno fatto credere che lì fuori sia tutta una guerra cruenta, una guerra di tutti contro tutti, senza pietà. Non ci hanno detto però che quella guerra non è altro che il riflesso giustificato di un sterminio interiore: il nemico non sono gli altri, siamo semplicemente noi stessi. Al contrario, l’illusione positiva, quella che ci consente di immaginare, di costruire, di custodire dei segreti per noi stessi, e di creare un percorso desiderabile verso questa direzione, quest’illusione positiva e edificante di mondi possibili altrimenti non esiste più, ci è stata sottratta, ma non ce ne siamo accorti: “Quando è accaduto tutto ciò?” “Dov’è che si trova il punto di rottura?” “Da dove dovremmo ripartire?” Nessuno è in grado di rispondere. È stata completamente sradicata quell’illusione di segno positivo che ci consentiva di agire in maniera costruttiva, quella che ci permetteva di alimentare le care utopie che segnavano i nostri preziosi percorsi personali… Fin da quando ha cominciato a narrarsi e ad essere narrata, la storia è sempre stata un cimitero di utopie: ciononostante permetteva un cammino, consentiva di tracciare una direzione voluta o non voluta, ma necessaria; ora, invece, non esiste più nemmeno la storia. Quest’ultima era formata da avvenimenti significanti, importanti o poco importanti che fossero; accadimenti che segnavano dei punti di rottura rispetto ad un prima e a un dopo. Ora invece esistono solo “eventi”, monadi di eventi isolati che spuntano dal nulla, per affascinare ed estasiare, non avendo più con sé né cause a priori né conseguenze a posteriori. Con essi sono andati perduti quegli effetti di significato che potevano donare una luce, che potevano a loro modo creare una consapevolezza interiore, e che dettavano – seppur goffamente – il ritmo, ormai perso, del mondo in cui ci è capitato di vivere. Avvenimenti che non posso essere più chiamati come tali, perché ciò che creano con la loro nascita non fa che sparire nella loro fonte, viene risucchiato immediatamente nel momento stesso in cui si manifestano: sono satelliti privi di senso, che orbitano attorno al loro non-senso fino al punto di implodere in se stessi. Non esiste più una trasmissione di significato, quel saggio mistero che ci veniva tramandato tramite quelle illusioni positive che ci rendevano vivi, curiosi, pro-attivi, costantemente in movimento riflessivo verso noi stessi e verso l’alterità. Oggi c’è una distesa desertica di significato, una cementificazione dell’io che raggiunge una parvenza di felicità solo quando, acquistando un qualsivoglia oggetto, accede necessitante al mercato dei consumi (preferibilmente un oggetto dell’ultimo modello, non sia mai!).

Come si fa a fingere di essere felici in un mondo del genere? Purtroppo la mia testa funziona ancora, e fin troppo bene. Al contrario, sono proprio quelli più convinti delle loro idee che seguono, senza accorgersene, i dettami della massa informe. La pressione sociale è per chi crede di pensare ciecamente con la propria testa. Fra il credere e l’agire, però, c’è un enorme abisso. Bisognerebbe ascoltare gli isolati, quelli che lontano dai riflettori cercano con tutte le loro forze di rimanere al buio, di preservare una propria, seppur maltrattata, interiorità: “Elogio dell’ombra”. Borges era un Dio, un Dio prematuro e poco ascoltato. Anche Dave lo è stato, a suo modo. Peccato che fosse un Dio costantemente sotto effetto di psicofarmaci. Se queste “soluzioni” non l’avessero strappato così prematuramente dalla vita oggi sarebbe stato di grande aiuto per tutti noi, per l’intera umanità; avrebbe sicuramente illuminato quelle sacche di buio che è necessario ascoltare, perlustrare, dove, senza pensarci due volte, bisognerebbe sporcarsi le mani. Certo è che aveva un indiscusso potenziale.

E quindi che altro dirvi: sono Frandom, una rana che, come avete letto, accumula e associa pensieri a random, e che ora, con tutto rispetto, immergerà i suoi occhi gonfi di vivere nel buio salvifico di una nuotata saltellante, per salutarvi con affetto… Ciao.

lunedì 13 ottobre 2014

Espatrio

Voce del verbo espatriare: ovunque ci sia spazio metti-i-libri (è passato un solo giorno, e il fighissimo utile Kindle è stato restituito al rivenditore), vicino alle salviette portatili, utili alle lacrime tra amici-abbracci-e-baci, e alle manine sventolanti che sposano gli ultimi bagliori di sguardi che si intrufolano in quei tonificanti labirinti di idee - c'è sempre di mezzo Borges -, che ti fanno prendere le due velocità del viaggio - una vicina, l'altra lontana: ogni cosa viene mangiata da un'altra cosa, e il più grande di tutti, il cielo, si porta via i miei ulivi, che spariscono, via via, a soffiate verdi, ma in questo vortice risucchiante non dimenticare: il tuo paese è il più bello di tutti, sempre, non denigrarlo mai quando sei fuori, fallo dentro se proprio devi, perché fuori fa freddo e hai sempre bisogno del vestito giusto, del tono perspicace, perché solo l'apparenza, il segreto e la scena salveranno il mondo, invece la troppa trasparenza per la troppa specializzazione porterà solo alla paralisi dell'osceno, all'istantaneità esasperata che arresta tutto quanto, e poi? Quanto mi costa? Il prezzo tacito della diversità è troppo basso per il suo valore effettivo, quindi direi che mi va ottimamente.

Sul vetro di viaggio un dito ha scritto frettolosamente "TI AMO", si legge controluce, probabilmente si riferirà a quell'incantevole paesaggio scorrevole che si intromette, infestato dal sole, tra onde collinari e mare in dirupo. Ciao.

mercoledì 8 ottobre 2014

Chiacchierata con Jean Baudrillard

"Garanzia Giovani": un altro slogan vuoto, inetto, così ripetitivo nella sua deleteria insignificanza: altra presa per il culo. Angelino, un emerito idiota. Anna Maria (Forza quel bel Paese che è l'Italia), scomparsa del corpo: manifestazione dell'osceno...
La scena girevole del transpolitico.
Far circolare un massimo di responsabilità a vuoto equivale a far esplodere l'irresponsabilità generale, e dunque a far saltare il contratto sociale. La regola del gioco politico è abolita non da una preciso esercizio della violenza, ma dalla circolazione impazzita di atti e di imputazioni, di effetti e di cause, dalla messa in circolazione forzata dei valori di stato, come la violenza, la responsabilità, la giustizia... Questa pressione è fatale per la scena politica.
Tutto ciò che dimentica questa scena e questa padronanza dell'illusione per dedicarsi alla semplice ipotesi e alla padronanza del reale cade nell'osceno. Il modo di apparizione dell'illusione è la scena, il modo di apparizione del reale è l'osceno.

Perché la sola sovranità è nella padronanza delle apparenze (che ci salverà). La sola complicità è nella comunanza collettiva dell'illusione e del segreto (le uniche che ci daranno speranza e che sono prive del non-senso: perché l'illusione il senso ce l'ha sempre avuto).
Tutte cose che, nell'era del transpolitico, nell'era dell'esacerbazione di tutto, dove il caso ci ha sprofondato in un'incertezza anormale che ci induce a reagire con un eccesso di causalità e di finalità, stiamo quasi definitivamente per perdere...

Il reale non cede a vantaggio dell'immaginario, cede a vantaggio del più reale del reale: l'iperreale. Più vera del vero: tale è la simulazione.
La presenza non cede di fronte al vuoto, cede di fronte a un raddoppiamento di presenza che cancella l'opposizione della presenza e dell'assenza.
Nemmeno il vuoto cede di fronte al pieno, ma di fronte alla pletora e alla saturazione - più pieno del pieno, tale è la reazione del corpo nell'obesità, del sesso nell'oscenità, la sua abreazione al vuoto.
Il movimento non scompare tanto nell'immobilità quanto nella velocità e nell'accelerazione - nel più mobile del movimento, se così si può dire, e che lo conduce all'estremo mentre lo spoglia di senso.
La sessualità non dilegua nella sublimazione, nella repressione e nella morale, è molto più certo il suo dileguare nel più sessuale del sessuale: il porno. L'ipersessuale contemporaneo dell'iperreale.
Più in generale, le cose visibili non trovano fine nell'oscurità e nel silenzio - svaniscono nel più visibile del visibile (vedi Facebook): l'oscenità.

giovedì 2 ottobre 2014

Plot

Fa il lavapiatti per arrotondare. Scrive per una rivista che va con la corrente, perché dice sempre che tutti quanti, ormai, vanno contro una corrente che non sanno neppure definire, e lui si è rotto il cazzo di questa cosa qua.
I businessmen bevono costantemente il suo sangue: gli Arcade Fire condividono con lui questo destino. Vive in una crisi fatta di sistemi sociali non più lubrificati tra di loro. Convive con una riformattazione societaria tentando di decifrarne le fattezze.
Nei suoi ricordi mescolati viene aggredito da un orca, non sa precisamente il perché. Poi le sue vicissitudini terrene si arrestano tutte d'un colpo, per entrare in una dimensione altra: il coma.
Al suo capezzale si ritrovano le donne più importanti della sua vita, tre, tutte diverse tra loro ma con una passione smodata in comune: David Foster Wallace.
Cominciano a conoscersi, e iniziano pian piano a scoprire quanto di lui, ognuna di loro, si è persa, perché quella specifica parte che non conoscevano solo una di loro l'ha vista nascere, e se l'è goduta sino alla fine, fino alla loro rottura.
Lo scrittore Dave, in realtà, lo hanno tutte e tre conosciuto grazie ai racconti appassionati di lui; e tutte e tre sono diventate studiose specializzate dell'intera sua opera, perlustrata e approfondita da tre differenti angolazioni. Lui era letteralmente innamorato di Dave, lo ha sempre chiamato il suo "boyfriend".
Nonostante questo filo d'Arianna che segna una voce sicura nel caos di una forse, invana, speranza di risveglio, l'identità del nostro risulta spacchettata, poiché ogni donna porta con sé un ricordo diverso di lui, forgiato da contesti e vite differenti; plasmato dalle loro singole soggettività sempre oltremodo premurose nei suoi confronti, arricchenti per così dire, stando almeno a quanto ne sapevano loro. Poi ad un tratto un capodoglio riemerge a salvarlo, ma non si capisce bene da quali profondità più oscure del pianeta riesce a svegliarlo, mentre lui aveva appena compiuto un viaggio stralunato nella sua testa o forse per il mondo intero, ma questo si scoprirà.
Alla vista delle tre donne si riaddormenta nuovamente, forse per pigrizia, forse per stanchezza, ma spera ardentemente in un loro compresente ritorno...


English version by Edna Arauz

He works as a dishwasher to get around. He writes for a magazine that goes with the flow, because he always says that by now, everyone is going against a current that doesn't even know how to define, and he got fucking tired of this thing here. 
The businessmen drink his blood constantly: Arcade Fire shares this fate with him. He lives in a crisis made ​​of social systems that are no longer lubricated between them. Lives with a corporate reformat trying to decipher the features.
In his mixed memories he was attacked by an orca, doesn't know exactly why. Then his earthly vicissitudes stop all of a sudden to enter into another dimension: the coma.
At his bedside, you'll find the most important women of his life, three, each one of them very different from the other but with one passion in common: David Foster Wallace.
They begin to know each other, and start to discover little by little how much of him, each one of them had lost, because that one and only specific part that none of the knew, just one of them watched it bloomed/born, and enjoyed it until the end, up to their break up.
They had known Dave the writer thanks to his passionate stories; and the three of them had become specialized scholars of his whole work, scoured and deepened by three different angles. He was literally in love with Dave, he always called him his "boyfriend".
Despite this Ariadne's thread which marks a confident voice in the chaos of a perhaps, vane, hope of awakening, the identity of our protagonist remains unresolved, because each woman carries within herself a different memory of him, shaped by different contexts and different lives; formed by their own single subjectivity always extremely caring towards him, enriching, so to speak, at least according to what they knew.
Suddenly a sperm whale remerges to save him, but it's not clear from which dark depths of the planet succeeds to wake him, as he has just made a dazed trip into his head or all around the world, but this will be discovered later.
He goes back to sleep at the sight of the three women, perhaps out of laziness, perhaps due to fatigue, but longing fervently their copresent return...

martedì 23 settembre 2014

Coscienti allucinazioni

Sei troppo bagnato dalla realtà
ora fai un passo, esci…
Asciugati… Cosa vedi?


Un grumo di pensieri si è formato col tempo
quel tempo che col cuore non potrai mai uccidere
Sedimenti su sedimenti incastonati
strutture su sovrastrutture accumulate e composte a casaccio
che impediscono di ascoltare, osservare, scrivere
Silenzi e attese
immobili corse sugli autobus
tra visi smarriti dietro vetrate liquide di strade asfissiate
dal traffico congestionato e bagnato di quell'inutile abbondanza grondante
Il regno del sospeso, di scene al rallentatore, di un’inerzia massacrante
che reagisce disperato ad una velocità più mobile della mobilità
che arriva al suo punto di saturazione e smette
smette di produrre senso
Quante volte hai pensato di voler smettere di pensare
e quante volte ancora hai pensato a ciò che la tua mente produce
non ricavandone nulla
La tracce si cancellano non appena le impronti
le conseguenze delle tue azioni ritornano alla loro fonte
per svanire
Il processo causale ha subito un cortocircuito
È invece l’evento universale, in sé privo di cause e di conseguenze
che viaggia sull'onda insignificante di un linguaggio sconosciuto
Tocca a te riprendere in mano le redini del tuo discorso personale
fatto di sentimenti viscerali e di nervi scoperti
di parole e gesti che oltrepassano la superficialità patinata
la superficie epidermica delle cose
Ed ecco la genuinità di tramonti abbracciati e rasserenati
forieri della promessa di un arrivederci a domani
Quando meno te l’aspetti quello stato di inerzia subirà una scossa
e un andamento spontaneo segnerà quelle tue parole scritte da tempo
ma che ora si impregnano di un automatismo immediato, universale
Un tacito tramestio incessante
un sano lavoro che riemerge dagli abissi del suo anonimato
Ora puoi immergerti nuovamente, fallo
vivi tranquillamente di coscienti allucinazioni, di creatività sensata
e non preoccuparti, il resto poi verrà da sé

venerdì 19 settembre 2014

The Ciociaro's chronicles #1



Catania, 20/08/2014

- “…Vibratori al vento; Prepuzi in cappella; Sborra di fuoco; Sbattimelo ovunque, sbattilo lì; Puliscimi le tubature; Tette solenni parte II; Il tuo cazzo è il mio, ed io sono sua; Culi calati; Sborration; Giochi di mano, giochi di puttano; Gargarismi indecenti; Aurora sborealis con enormi cazzi ad Harlem; poi Bramose di cazzo; Bramose di fica; Uomini soli 2; poi c'è Vaselina connection... sì, ah, poi Fregne pregne di cazzi duri...…”
- ohhh!! Ma non si vergogna?? Ma io dico: le sembrano modi questi di parlare?? Che dissoluta volgarità!!
- Ma che ne capisce lei signora! … Questa è una dottissima citazione di uno dei massimi capolavori del Cinema!!... Ma io dico: che ne sa lei?? Si faccia gli affaracci suoi! Circolare prego…
E girandosi di sbieco aggiunge tra sé brontolando e scodellando la testa: - Mannaggia alla miseria: quanta gente ignorante c’è a giro… Non se ne esce, non se ne esce…
Così inizia l’esperienza siciliana del nostro caro ed inimitabile Ciociario, all’aeroporto di Catania, mentre aspetta le sue infinite valigie formato casa per il nastro scorrevole che ancora scorrevole non è, ma lui, nell’attesa, si diverte mentalmente a citare film, rovistandone alcuni nella sua impeccabile memoria, per poi esplicitarne, ad un pubblico immaginario (o semplicemente a se stesso – quest’ultima ipotesi è molto più plausibile), i climax più significativi: un vero e proprio esercizio di stile. Finalmente dopo parecchi minuti buoni, che a lui paiono un nonnulla, preleva le sue tanto attese valigie, due enormi armadi con le rotelle per una sola settimana di soggiorno, e si dirige verso l’uscita, verso un sole che chiamare sole è davvero misera cosa, perché quella lì fuori che lo attende è proprio una palla infuocata e minacciosa, credete a me. Ad ogni modo, lui ha pensato davvero a tutto, e i suoi occhiali da sole Ray-Ban ultimo modello sembrano una delle armi più efficaci contro quei micidiali, e prima di oggi a lui sconosciuti, raggi UV accessoriati di sentore africano. Esce e respira. Allo stesso tempo non si lascia sfuggire l’occasione di studiare prontamente la situazione femminile circolante: un autentico sciame di formosità ballonzolanti per ogni dove. I suoi occhi scandagliano; dietro le sue lenti così congeniali sempre quei suoi occhi hanno tutto il tempo di assaporare il momento, e sembrano preparare un banchetto da Re che riserverà diverse pietanze visive, tutte da spiluccare… Dalla sua espressione soddisfatta e leccata di ciglia, pare, comunque, essere enormemente soddisfatto (lo so è una tautologia, ma è efficace). E chi lo avrebbe mai negato. “Beh, una bella sudata di viaggio ne sarà valsa la pena, no?!”, sembra ad un tratto pensare tutto fiero e con le braccia sui fianchi.
È incredibile quanto, ad un osservatore esterno, il Nostro possa apparire tremendamente prevedibile nelle sue movenze, nei suoi pensieri fintamente arcuati, nei suoi atteggiamenti da buon maschione italiano. E invece, a dispetto di quel maledetto luogo comune che cercheremo piano piano di demolire, è sempre un passo avanti rispetto agli altri, non c’è che dire. Quell’osservatore esterno non si capaciterà mai della sua osservazione; non arriverà mai a conclusioni semplici e scontate, perché le sue considerazioni su quel preciso momento saranno già belle che superate, e risulteranno banali blande e sfilacciate non appena lui, il Nostro, avrà fatto il suo prossimo e sempre impeccabilmente direzionato passo; non appena, sempre lui, avrà quella sua inconfondibile disinvoltura di sfoderare quell’incredibile e nuova mossa spiazzante per tutti… La mossa che lo farà notare, lo renderà riconoscibile alle folle, in mezzo a cui un raggio luminoso lo designerà al cospetto di tutti (soprattutto agli occhi del mondo femminile): a tutti coloro che sono in costante ricerca di una postazione altisonante, profumata, da trono: una posizione all’ultimo grido. Questo è il nostro Ciociaro: l’Inarrivabile, un esempio da copertina che si intrufola, senza troppi ostacoli, nella percezione facilona delle masse. E se si arrivi a lui, anche per un respiro di millesimo di secondo ristorato da quella grazia tipica del “finalmente sono qui”, beh, è sicuramente tanta roba.
Comincia a camminare, dunque a molleggiare, perché la sua camminata, dovete sapere, è particolarmente interessante. Se per esempio ci trovassimo sempre in mezzo ad una folla (riprendo lo stesso esempio perché, per semplicità, aiuta a comprendere meglio), una folla dicevo formicolante, come può essere la fauna antropologica che sfreccia calpesta e sfrutta un non-luogo di passaggio, come quello che può interessare un qualunque aeroporto, e volessimo in qualche modo seguirlo e stargli dietro, perché io, in prima persona, sono il suo biografo personale incaricato e quindi, giocoforza, dovrò adottare necessariamente questa condotta di vita, ma voi, dal canto vostro, tutti voi, nessuno escluso, potrete benissimo essere già, o diventare un giorno molto vicino, uno tra i suoi milioni e sterminati fans (“sterminati” non perché qualcuno vi sterminerà non appena svelerete questa vostra incredibile dipendenza che vi state inconsapevolmente accollando – e credete a me: è davvero inconsapevole: mentre bussa alla vostra porta (sempre quella dipendenza) è già bella comoda sul vostro sofà, a sgranocchiare indisturbata i vostri pop corn appena spadellati e caldi e salati al punto giusto, per godersi lo spettacolo più patetico del mondo che vi vede protagonisti assieme a milioni di altri; ecco perché sterminati, perché prima o poi sarete veramente in molti)… Dicevo, se volessimo per qualche ragione stargli dietro – ma la ragione, spero, sia ormai chiara – questa condotta è una tra le cose più semplici del mondo. Lui molleggia, quindi, mentre cammina, descrive una traiettoria ritmica su e giù del suo portamento che, così facendo, si distribuisce nella sua direzione in avanti; ma allo stesso tempo oscilla, quindi si nasconde per un attimo per poi riemergere rispetto ad una linea immaginaria che rasenta il capo della massa uniforme che lo circonda. Quindi molto semplice da adocchiare a distanza, ripeto: potremmo trovarci in una fra le città più popolose al mondo, e l’effetto non cambierebbe. Però questa facilità di avvistamento rende tutto il resto davvero complicato. Sembra che Il Nostro furbone lo faccia apposta: è come se il suo molleggiare ostenti una facilità di raggiungimento… In quello che è, in quello che fa; magari per farti solo accarezzare il desiderio di salutarlo, di porgergli la mano… E invece è proprio questo quello che vuole: far annusare ciò che è; rendere appetibile la possibilità di essere come lui, affinché tutti quanti si uniformino alla sua diversità clamorosa… In questo modo acquisisce con molta facilità consensi; distribuisce speranze a tutto tondo… Ma sappiamo benissimo che sono solo speranze, e, nonostante questo, e soprattutto per questo, permettono l’attivazione di tutta la popolazione del mondo verso un’ipotetica e inavvicinabile realtà immaginata, verso un’illusione. E questo è Lui: è il re delle illusioni. Ecco perché l’ho chiamato l’Irraggiungibile… È come le stelle: la loro luminescenza lontana vive della loro illusione… Magari quelle stelle che pulsano da così lontano non ci sono già più, e noi siamo ancora lì, inebetiti ad osservarle…
E lui, il Nostro, in effetti non c’è già più, ma dov’è? Ah, eccolo! Ve lo avevo detto che non è facile smarrirlo… Si è piantato in un punto, e non sembra smuoversi. Alla vista di una bella donna, del suo seno che, nella sua mente, potrebbe benissimo non avere più confini, in due ganci sganciati in un nanosecondo, e squadrando poi ogni minimo dettaglio del viso di lei, perché per lui, così dice, il viso è la cosa più importante di tutte, partorisce e pensa ad alta voce uno slancio soddisfatto che viene dal profondo del suo essere, e che, fedelmente, fa così: “A quella, quando esce, le devi mettere il satellitare!”… Su questa espressione altamente postmoderna gli è venuta ad tratto una gran fame. Gli comunicano che, per cena, ci sarà carne di cavallo; polpette di cavallo, precisamente. Comincia a salivare al solo pensiero… Il Nostro, anche questo dovete assolutamente saperlo perché è di assoluta importanza, mangia come una fogna insaziabile, che non conosce fondo, che nel suo vocabolario di ingredienti di tutti i tipi non conosce la parola fine… Ha bisogno di energie, di molte energie… Questo perché, immaginerete voi, le consuma in maniera smisurata! Ebbene sì, in fondo, non è che un balordo smisurato che consuma smisurate energie: ecco perché sembra facile stargli dietro… Ma come vi ho già detto non è assolutamente così… Nella prossima puntata cominceremo piano piano a scoprire il perché. Adieu!

mercoledì 17 settembre 2014

Del prendersela coi giovani

In un’epoca in cui l’insofferenza degli anziani per i giovani e dei giovani per gli anziani ha raggiunto il suo culmine, in cui gli anziani non fanno altro che accumulare argomenti per dire finalmente ai giovani quel che si meritano e i giovani non aspettano altro che queste occasioni per dimostrare che gli anziani non capiscono niente, il signor Palomar non riesce a spiccicare parola. Se qualche volta prova ad interloquire, s’accorge che tutti sono troppo infervorati nelle tesi che stanno sostenendo per dar retta a quel che lui sta cercando di chiarire a se stesso.
Il fatto è che lui più che affermare una sua verità vorrebbe fare delle domande, e capisce che nessuno ha voglia di uscire dai binari del proprio discorso per rispondere a domande che, venendo da un altro discorso, obbligherebbero a ripensare le stesse cose con altre parole, e magari a trovarsi in territori sconosciuti, lontani dai percorsi sicuri. Oppure vorrebbe che le domande le facessero gli altri a lui; ma anche a lui piacerebbero solo certe domande e non altre: quelle a cui risponderebbe dicendo le cose che sente di poter dire ma che potrebbe dire solo se qualcuno gli chiedesse di dire. Comunque nessuno si sogna di chiedergli niente.
Stando così le cose il signor Palomar si limita a rimuginare tra sé sulla difficoltà di parlare ai giovani. Pensa: “La difficoltà viene dal fatto che tra noi e loro c’è un fosso incolmabile. Qualcosa è successo tra la nostra generazione e la loro, una continuità d’esperienze si è spezzata: non abbiamo più punti di riferimento in comune”.
Poi pensa: “No, la difficoltà viene dal fatto che ogni volta che sto per rivolgere loro un rimprovero o una critica o un’esortazione o un consiglio, penso che anch’io da giovane mi attiravo rimproveri critiche esortazioni consigli dello stesso genere, e non li stavo a sentire. I tempi erano diversi e ne risultavano molte differenze nel comportamento, nel linguaggio, nel costume, ma i miei meccanismi mentali d’allora non erano molto diversi dai loro oggi. Dunque non ho nessuna autorità per parlare”.
Il signor Palomar oscilla a lungo tra questi due modi di considerare la questione. Poi decide: “Non c’è contraddizione tra le due posizioni. La soluzione di continuità tra le generazioni dipende dall’impossibilità di trasmettere l’esperienza, di far evitare agli altri gli errori già commessi da noi. La distanza tra due generazioni è data dagli elementi che esse hanno in comune e che obbligano alla ripetizione ciclica delle stesse esperienze, come nei comportamenti delle specie animali trasmessi come eredità biologica; mentre invece gli elementi di diversità tra noi e loro sono il risultato dei cambiamenti irreversibili che ogni epoca porta con sé, cioè dipendono dalla eredità storica che noi abbiamo trasmesso a loro, la vera eredità di cui siamo responsabili, anche se talora inconsapevoli. Per questo non abbiamo niente da insegnare: su ciò che più somiglia alla nostra esperienza non possiamo influire; in ciò che porta la nostra impronta non sappiamo riconoscerci."

Palomar, Italo Calvino


lunedì 15 settembre 2014

Il senso di devozione per l'illusione

Se lo Stato è assente, il popolo se ne crea un altro tutto per sé, su misura, dove delinquere può diventare normale e la norma di quella normalità vede il più furbo o il più forte prevalere sugli altri. Se lo Stato non riesce ad infondere un sentimento collettivo, una reciproca comunanza in cui, cascasse il mondo, tutti si possano sentire riconosciuti e valorizzati, allora ogni individuo si ritrova spaesato, e privo di questa importante garanzia il suo contributo alla società si declinerebbe senza dubbio in un'ottica di sopravvivenza spregiudicata, in una traiettoria di vita che è chiaramente individuale; votata all'isolazionismo più che alla condivisione; destinata ad un futuro privo di quell'illusione salvifica di cui è fatta l'intera vita: come l'illusione della piccola ed intermittente luce di stelle, che dal firmamento quasi del tutto ignoto giunge fino a noi, in differita.
Si tratta di un'illusione poiché magari quelle stelle non ci sono più, e a noi quella luce arriva semplicemente in un ritardo di milioni di anni. Ma è chiara la salvezza che deriva dal fatto di non percepire la loro luce tutta quanta assieme. In quel caso, oltre a non saper più distinguere nulla, si perderebbe il tatto per le cose veramente importanti, e senza dubbio la mancanza di un cielo così lattiginoso e spolverato di luminescenze non alimenterebbe più il mistero esistenziale; quello stesso mistero che ci permetterebbe, in un'inconsulta stretta di mano, di andare avanti nel nostro cammino. Quindi l'illusione è la possibilità del diverso; tale diversità è cambiamento e costruzione: elementi fondamentali per il procedere umano.      
Certo, ogni agire sociale è prima di tutto individualistico, personale e bisognoso delle necessità immediate. Ma queste ultime prendono forma e vivono solo in un senso sociale, che è organizzato e tacito, e permette la sorprendente coordinazione di diversità ed eterogeneità individuali mozzafiato; un bacino inesauribile se ci si ferma un attimo a pensare. Ecco: è esattamente il tipo di coordinazione sociale vigente che si è andata ad inceppare, che non funziona più, e che non rende, ai popoli, un tipo di giustizia che si avvicina ad una che può essere chiamata umana.
Troppo della ricchezza e delle ultime risorse rimaste viene accumulato in poche mani, sadiche e spietate. E troppo poco, viceversa, rimane sulle braccia di chi, stanco per aver lavorato onestamente una vita, si ritrova a dover combattere ancora, e ancora, solo per strappare un sorriso alle persone care. Non va bene così. Le opportunità devono essere equamente distribuite. Le possibilità di redenzione personale devono trovare un comune accordo in una collettività che esalta le qualità del singolo, perché uniche e preziose per le assetate e bisognose comunità.
Chi detiene e pratica e preserva quelle qualità deve poterle spenderle localmente, affinché ci sia una ripercussione sana e positiva in senso globale. Pensare globalmente e agire localmente è una strada positiva, ma solo se i contesti in cui la si intraprende riconoscano le risorse dei soggetti, mettendole a sistema, valorizzandole e permettendone uno sviluppo cosciente. Evitando quindi una loro mortificazione, che arriva subito in senso "assistenziale" qualora quelle stesse risorse risultano impoverite e in deficit. Il puro assistenzialismo non serve a nulla, non costruisce proprio nulla: sperpera solamente quei pochi aiuti rimasti. Quest'ultimi, al contrario, dovranno essere spesi per uno sviluppo personale e cosciente delle risorse personali, e ciò significa riattivare quelle stesse risorse latenti, ed espanderle, e immetterle nel circuito della comunità sfilacciata di legami sociali.  
Non esistono solo le risorse economiche: bisogna estirpare dalla testa questo cancro onnipresente. Non è che da questo tipo di risorse si ricavano tutte le altre importanti alla vita. Non è che aumentando a dismisura questo tipo di beni materiali si ottiene poi automaticamente un benessere diffuso, condiviso. È una visione sbagliata questa.
Le risorse umane, quelle spirituali per semplificare, creano col tempo le prime, ma ci vuole pazienza, lungimiranza, senso di devozione: occorre la canalizzazione di pratiche sane e decenti alla vita buona. Solo così, con il lavoro sociale nel sociale e per il sociale si può avere la ghiotta probabilità di moltiplicare la ricchezza, una ricchezza fatta di testa e braccia che è però prima di tutto umana.

martedì 2 settembre 2014

The Ciociaro's chronicles

Premessa

Questo è un racconto a puntate di alcune gesta, le gesta di un grande italiano medio – "medio" per un modo di dire che si rifà ad un immaginario collettivo arenatosi, ancora, nelle attuali – quanto inutili – classificazioni derivanti da una concezione di stratificazione sociale non più esistente; ma qui, per inciso, benché sia in atto una riconfigurazione globale della società tutta, si riprenderà, con estrema fedeltà, il termine (medio) in questione nella sua concezione desueta (ma, ripeto, ancora ampiamente dominante), poiché questa raccolta non ha nessunissima pretesa di deludere quell'immaginario consuetudinario in cui, ancora, il lettore si orienta più facilmente e senza esitazioni (anche se, è doveroso dirlo, diversi cambiamenti piuttosto evidenti della e nella struttura sociale hanno indotto certi scricchiolii non indifferenti che hanno, e stanno, generando smarrimento generale – chiusa parentesi). Proprio per questo motivo, sempre lui, il lettore, potrebbe dunque serbarsi in questa sede, – a fronte di uno scenario, diciamo così, più familiare – una possibilità convinta di trarne più agevolmente le sue personali coordinate di senso.
Detto questo, si procederà ad una descrizione preliminare e sommaria del nostro inimitabile personaggio – unico nel suo genere poiché è praticamente impossibile emularlo: toglietevelo dalla testa! – prima di addentrarci nelle peripezie più incredibili e forsennate del Nostro.
Quando dico "medio" è anche, più che altro, per un esercizio di semplicità. Difatti il nostro caro Ciociaro è considerato il re di coloro che possono essere etichettati nella categoria sociale media in quanto, pur accentuando le loro tipiche dinamiche relazionali, ed essendo a conoscenza delle più infime e congeniali loro strategie di comportamento e/o atteggiamento, egli trae tutto il vantaggio personale possibile prendendosi costantemente beffa di loro – solitamente alle loro spalle e con una donna-vetrina al suo fianco.
Stiamo parlando, per farla breve, di un animale sociale spietato che, nella sua illusoria accondiscendenza perenne verso gli altri, e nel suo perbenismo ultra-accentuato da rione, mostra senza alcuna esitazione una facciata statuaria (e sempre impeccabilmente pettinata) di chi dice di saperla sempre lunga, ottenendo inoltre e indiscriminatamente servigi a suo unico vantaggio porgendo, a chi gli è attorno (ma solo ogni tanto, giusto per far vedere), gli spiccioli rimasti della somma di notorietà da lui guadagnata. Così, ostentando e lasciando immaginare una ricchezza e/o nobiltà d'animo senza precedenti, detta i ritmi della moda passeggera che lui, principe fra tutti, permette solamente di annusare; perché fino a quando tutti gli altri saranno a malapena riusciti ad ottenere un granello di ciò che lui impersonifica qui ed ora, egli stesso sarà già lontano anni luce dal presente sogno agognato dagli altri, pronto come sempre è a renderlo immediatamente anacronistico (sempre quel sogno) ai suoi occhi, adocchiando sempre – con un intuito a dir poco sovrumano – nuove mode, e depredando improbabili sacche di mercato ovviamente fino ad ora sconosciute ai più.
Un ulteriore chiarimento, inoltre, è dedicato al termine "ciociaro". Salvo creare sconvolgimenti indentitari nei confronti di tutta la popolazione di origine o tutt'ora residente/domiciliante nel lembo di terra dell'appunto rispettabilissima Ciociaria, si vuole qui precisare che il termine in oggetto viene utilizzato solo ed unicamente come semplice appellativo di riferimento verso il nostro principale protagonista. Quindi, chi con quel termine si sente per ovvie ragioni in qualche modo toccato o chiamato in causa, deve sapere sin da subito che l'intento non è assolutamente quello di generalizzare.
Al contrario è, chiamiamola così, una simpatica connotazione affettiva che ha trovato spazio e sviluppo durante un'esperienza di vita condotta da alcuni personaggi piuttosto pittoreschi, in cui il Ciociaro, essendone stato a piene mani immerso, ha dimostrato le qualità esorbitanti della sua inarrivabile persona, spendendole e condividendole nel tragitto rocambolesco percorso  assieme a tutti gli altri. Dunque, questi personaggi compagni di avventure, avendo origini differenti, hanno individuato, in quel termine, il più naturale e spontaneo modo per riconoscere e identificare il Nostro. Tutto qui.

venerdì 29 agosto 2014

Levante Siculo

Non sembra di essere su di un' isola
anche se la popolazione autoctona si sente isolana
La loro parlata è impregnata di un localismo stretto orgoglioso e identitario
ma la globalizzazione certo tocca anche qui
Per le strade formicolanti è anarchia
ma i loro flussi seguono comunque dei ritmi consapevoli
Quasi ogni cosa viene dichiarata collusa
collusa con uno stato altro
ma questa condizione viene vissuta come normale quasi scontata
è un fatto di mille fatti ancora
uno stato ufficiale e inerme
un altro ufficioso e operante
Prelibatezze culinarie
genuine corpose e sterminate
c'è l'imbarazzo della scelta
il sole ciba il fertile terreno
che a sua volta alimenta i suoi frutti gustosi
La montagna vulcano imponente e svettante
un cuore impaziente
sfoga ricchezza incandescente
ma potrebbe anche eruttare paure deliranti
giacenze di derrate alimentari d'urgenza
container enormi e soleggiati
la prudenza non è mai troppa
La costa di levante è frastagliata
nasconde solo meraviglie
le piccole insenature riescono ad abbracciare il nulla e l'infinito assieme
Le luci la notte conservano il calore del giorno
le loro intermittenze a distanza pulsano di una vitalità quasi festosa
Santi e Marie preceduti da una W
questi loro nomi a neon custodiscono luoghi sacri
cattedrali e baldacchini esterni di preghiera col megafono
per ogni dove
E poi il respiro
quel respiro mozzato da quella striscia di terra venuta a mancare
salvezza forse condanna
unità isolazionismo
raccoglimento nella distanza
popolo caloroso e ospitale
anime ribelli
da sempre conquistati ma conquistatori di cuori musica e poesia
una fra le patrie della più audace letteratura
La diversità è ricchezza
il meticciato va preservato
la similitudite può creare mostri
E poi l'isola delle correnti
il punto più estremo a sud
un sud di crocevia d'acque differenti
che si mescolano
e lambiscono una nazione tutta che alla fine
sempre e comunque dalla fine
non può che partire da qui

domenica 8 giugno 2014

Oceano d'aria

Quando versi dell’acqua in un bicchiere accade che nel frastuono del liquido capovolto nascano isolate goccioline d’aria, goccioline nate dal nulla. Nella caduta, si ritrovano imprigionate in una cella invisibile, densa, senza pareti, e seguono smarrite un moto tutto loro, come se fossero state stordite e avvolte da morbidi mantelli. Poi, senza preavviso, una melodia di guanti in festa entra in azione e le sorregge, comincia a coccolarle, come se fossero tutte raggruppate su di un’amaca che sculetta spensierata, noncurante delle prime luci disvelanti del tramonto. In quel moto inaspettato di luci e molecole, in quel risucchio voraginoso di pochi e fermi istanti, prendono poi forma, una forma di convinzione, un coraggio tutto loro, e ritornano così pian piano in superficie, come se fossero sospese verso una direzione ben precisa, la direzione di un’altra luce attraente. Ed è allora, in quello scatto fotografico quasi perfetto, in quella sequenza quasi rallentata appositamente per loro che sprigionano delle proprietà guizzanti, muovendosi senza regole ondeggiando, sì ondeggiando, finalmente sicure di sé, serene di quello che stanno per compiere, come se fossero telecomandate verso un cielo meritato di libertà. In questo modo, raggiungono quella che riconoscono come una loro fonte, una distesa oceanica d’aria che le sovrasta e che le attende per risucchiarle infine nel mondo appagante.

Allo stesso modo noi siamo stati immersi e ora stiamo risalendo, pian piano. Non sappiamo di preciso qual è la nostra direzione, non sappiamo dove stiamo andando, ma il suo richiamo lo sentiamo vicino, e prima di questo momento tutto ciò non ci è mai sembrato così familiare. Come tante voci che ci sussurrano all’orecchio a migliaia di chilometri di distanza: sappiamo in fondo chi ci sta chiamando, chi sono quelle voci, anche se a malapena riusciamo a scorgerne i volti. Nel nostro intimo però sappiamo di essere interconnessi, gli uni agli altri, in quell’oceano d’aria che ci attende e che pazienta, sempre, per noi, per noi tutti. Come nella scrittura, in quel processo laborioso e di scatto, di continui aggiustamenti e rifiniture, di guizzi pindarici e di logiche misteriose, che continueranno ad assecondare sempre, nella loro essenza, i dettami ancestrali di menti a malapena connesse e in affanno di parole, ma che vogliono ugualmente comunicarsi di essere ancora vicine, perché questo è il segreto, semplicemente: l’essere sempre vicini, nonostante le discrasie, nonostante le incomprensioni sopraggiunte, malgrado gli scarti che ci distanziano e ci occluderanno nel frastuono. Verrà un giorno in cui ci raggrupperemo tutti assieme, alla stessa maniera di quelle goccioline, e sarà allora che conquisteremo con convinzione la nostra traiettoria con gli altri, nella fusione dei corpi, delle menti, in quella distesa emozionale piena d’aria che è fatta di libertà, di cui il mondo è il primo e indiscusso sovrano. 

mercoledì 4 giugno 2014

Rosso passione slavato

È una mattinata umida, soleggiata, in preda alla fornace dell’estate che avanza. L’inquinamento è ormai al limite, sta strippando, e tutto sembra racchiuso in sfere soporifere che non hanno una loro precisa dicitura, una consona direzione da seguire. Il traffico è lento, altalenante. C’è un andirivieni di macchine rumorose e silenziosissime: non si capisce bene dove guardare, dove stare attenti al flusso discontinuo. Il contesto raccolto dalle colline pare spopolato, e i pochi rimasti in giro hanno, per la maggiore, un bastone in mano per sorreggersi, nulla di più, e il loro andamento è lento, più lento della lentezza in dirittura di arrivo. La pensilina della fermata dell’autobus è rossa: è tutto rosso qua attorno, ma di rosso, in realtà, si vede ormai ben poco in giro. La passione che anima le persone è smorta, glielo leggi nei loro visi tramortiti. È un’antropologia segnata, maltrattata, che cerca ormai qualsiasi spiraglio nel formato digitale disperso chissà dove. L’analogico è disturbato, emette poche frequenze significative, ma solo ogni tanto. In coda al bancomat c’è della gente chinata su se stessa, fissa il vuoto pavimentato o, di converso, i loro palmi luminosi e impostati sull'icona del silenzioso. Un fornaio con berretto rosso e camice bianco preleva i suoi pochi contanti rimasti: è un uomo alto, di colore, ben impostato, ed elargisce ai vicini un sorriso bianco di altri tempi. Solo per un attimo si ha la sensazione di vivere una boccata d’ossigeno, ma quel gesto, quel sorriso, quel segno di riconoscimento sociale nell’attesa passa, e tra quelle persone si intrufola una sensazione quasi mai provata prima, esterrefatta.
Sotto la pensilina rossa l’autobus, altrettanto di colore rosso, stenta a stagliarsi sull’orlo di qualsiasi orizzonte: i fiumiciattoli ascensionali del caldo sopraggiunto distolgono la vista e immergono tutte le percezioni umane in un liquido pervasivo, onnipresente. Ad un certo punto, in un precisato lasso di tempo che si fa largo, un ragazzo osserva attentamente un volatile che è appena planato in terra indisturbato; lo osserva in maniera maniacale e non si capisce esattamente il perché. Probabilmente lo ha visto sonnecchiando in uno di quei tanti documentari che non si caca nessuno in tv, e che per l’appunto decidono, sapientemente, di fare breccia nei telespettatori a notte fonda, tra quelle anime sconquassate che per un’imprecisata ragione non riescono più, normalmente, ad acchiappare il loro fisiologico sonno. Il suo atto dell’osservare persevera cocciuto, intransigente, e il volatile si sente quasi osservato, qualora possa davvero sentire l’osservazione maniacale di un umano in cerca di risposte dal calibro di un non so ché. E poi è un attimo. Come se si trattasse di un pallone sistemato con cura sul dischetto di un fragoroso rigore quel ragazzo scalcia il volatile, una botta secca di collo pieno, e il povero volatile non si capacita, i suoi tempi di reazione sono alquanto timidi rispetto al secondo calcio che sopraggiunge di nuovo e di nuovo, senza pietà, con forza, e proietta le sue penne svolazzanti, assieme a quell’esile corpo contuso, sul selciato abbrustolito dell’asfalto, rotoloni, una chiazza schizzata di sangue animalesca. Il ragazzo corre in strada, insegue l'attentato e calpesta a più riprese il volatile come se non ci fosse un domani. Dopodiché, quando ormai il volatile non dà più segni di reazione alcuna, il ragazzo prende la sua traiettoria e se ne va, come nulla fosse. I pochi spettatori dell’accaduto indicano col dito ora il volatile in terra ora il ragazzo che cammina placidamente indisturbato, e indicano solamente senza dire una parola, senza pronunciare un monito, un alcunché, delle dita indirizzate verso nessuno a dire il vero: sembrano invero, anche queste, un insieme sfaccendato di un rimasuglio abbandonato, una reazione solo quasi spontanea, e che finisce lì.
L’autobus rosso continua a non passare, ma le macchine lente e solitarie e compattate nel loro isolazionismo sicuro d’avanguardia continuano indifferenti il loro tragitto, e qualcuna di queste, con le loro ruote altrettanto indifferenti e belle cicciotte colpiscono a più riprese i resti di quel volatile che ormai non ha più senso per il suo cielo, non ha più nulla da spartire con i suoi compagni che per loro fortuna sono ancora là, in alto, in volo, e che osservano, forse, da lontano e piangenti, lo scempio appena consumato e a spese di quel malcapitato compagno di cielo, che aveva solo avuto la delicatezza di tastare per un attimo la terra, per saggiare cosa si provava una volta ogni tanto, ma che ora, invece, continua a srotolarsi tra quelli che sono ormai i suoi resti di piume e carne e sangue per ogni dove, su quel maledetto selciato abbrustolito appena visitato, e che assolutamente no, assolutamente, non gli è mai appartenuto propriamente.
Sempre ad un altro imprecisato punto un signore comincia a prendersela con una radice di un albero: prima carezze affettive, la mano quasi scorticata ad ogni passaggio. E poi pugni, pedate, craniate a ripetizione, e anche qui, senza un apparente motivo logico iniziale che facesse presagire un comportamento del genere. Le macchine, alla vista di quella sequenza di atti e attimi scossi, rallentano di più, tutte piano piano, voltandosi appena. Ed è a questo - questa volta precisato - punto che accade un maxi tamponamento a imbuto, una fisarmonica che si accartoccia solo da una lato, che identifica, tutte in fila, le macchine che si spiaccicano su se stesse seguendo i fanalini posteriori delle altre. E quello che sembrava uno scenario pacato si anima ora di un fuoco più divampante, un fuoco a immagine sua più avvenente rispetto a quello appena pronunciato e liquido delle condizioni atmosferiche. E tutti scendono dalle loro postazioni personalizzate formato-macchina e cominciano a sbraitare l’uno con l’altro, e ognuno va incontro al suo personale facilmente individuabile tamponatore, seguendo la scia opposta della fisarmonica immaginaria che, questa volta, si accartoccia di umane presente al contrario, tutte cozzate l’una sull’altra, una montagnetta. E c’è un finimondo che imperversa e che si scuote e che prende subito in mano lo smartphone che può salvare sempre le circostanze, che può salvare anche la vita se è necessario, digitando numeri invisibili su una tastiera scorrevole che rincorre tanti numeri alla rinfusa, perché col caldo e il sole non si vede proprio nulla su quei stramaledetti aggeggi. E allora sirene, strombazzate, delirio nel delirio. I bastoni lenti dei passanti si fermano e l’altra mano (sempre di questi mal capitati passanti) sistema gli occhiali stanchi su quel putiferio di accaduto, ad un ritmo quasi sincronizzato. L’autobus non passa più, o meglio si è bloccato sull’orizzonte impaziente: il suo rosso della passione che ti condurrà a casa è ancora distante dal compiere la sua scia colorata, e indicata, sommariamente, sui cartelloni plastificati delle pensiline piantate; quel suo solcante tragitto di sempre (il tragitto sempre di quell’autobus rosso, tuo solo dai finestroni rumorosi ad ogni zolla) è ancora tanto distante dal riempire e salutare le sue consuete tappe transitorie.
L’atmosfera animata ha raggiunto dunque e infine un punto di equilibrio, l’equilibrio della ragione. Ma la sana passione è rimasta per fortuna ancora in cielo, e svolazza indisturbata: completamente esente dalle logiche umane della terra. E allora un altro volatile plana con convinzione su quei resti ancora lì, e ancora una volta dimenticati, di quell'altro volatile senza nome, senza un perché. Si avvicina al suo ex-compagno di voli, di stagioni, e gli porge uno sguardo, quasi una carezza visiva, e, dandogli un ultimo e degno di questo nome saluto, raggiunge gli altri suoi compagni nelle distese di quel cielo spazzato e va, lasciandosi dietro, quasi a malincuore noncurante, un rosso passione slavato. 

domenica 25 maggio 2014

Per D___

Un piccione, un piccione stava entrando dalla finestra. Strano, a volte questa città ne sembra sprovvista. Quando dormono, la notte, si posizionano sulle aste di ferro che trafiggono in alto i portici, e sembrano non muoversi mai: statue, simulacri ripiegati su se stessi: un accumulo muto di sporcizia sembrano lassù. Ma questa mattina c’è il sole, cosparso, e il sole con la sua onnipotenza spazza via ogni cosa: le nuvole veleggiano in un oceano blu e l’atmosfera sembra tutta leggermente accarezzata da anime riposate. Sarebbe bello ogni tanto spegnere il cervello e non curarsi del frastuono interiore: l’atto di spegnerlo significherebbe solo attivarlo su altri canali meno disturbati, solo questo. E va bene così.
Le persone possono essere compresenti anche senza esserlo: è una misteriosa fascinazione che ci fa ancora sperare, una connessioni di menti che dialogano da lontano, per dirsi semplicemente ciao, eccomi qui. Ma oggi quelle persone stanno quasi tutte male, un male interiore e generalizzato, senza prospettiva, e non fanno altro che riversare disperatamente il loro male su altre persone: a volte, davvero, non possono fare altrimenti. E allora si distanziano per non farsene ancora, bruscamente, e questo non è altro che un segno di indiscussa, anche se incontrovertibilmente contrastante, debolezza. “L'ingiustizia è una maestra rigida ma impareggiabile.” Probabile, caro Dave, probabile; come ogni cosa che sempre con l’occhiolino divertito e strizzato mi hai suggerito.
In questo giorni accorri spesso tra i miei pensieri, lo sai? Forse perché ho solo bisogno di ridere, e tu, a me, mi hai fatto sempre ridere un sacco. Quando ti leggevo, col tempo, hai fatto nascere in me una risata nuova, inedita, una risata che era un misto di stupore, di catartiche invenzioni, ma anche di cruda e spietata consapevolezza di ciò che ci gira attorno sbeffeggiandoci. Mi hai insegnato l’umiltà, quell’umiltà che ho incorporato sin da bambino, ma che ora si riflette lucida nei miei tentativi di riscoprirla. Quanto mi hai insegnato, forse da lassù non puoi capirlo, ma io cerco di spiegartelo lo stesso. Quando parlo di te agli altri vivi in ogni mia parola, e questo non può che essere un autentico miracolo. Come quei miracoli che dispensavi sulle pagine quasi senza accorgertene, quasi senza volerlo, e che s’imprimevano nella mia mente con una tale forza da invadermi dolcemente l’essenza; esattamente come una delle tante melodie dei Sigur Ros: melodie tutte e sempre solo mie, così diverse ad ogni rivisitazione acustica, in base ai miei stati d’animo. Un potere comunicativo che hanno in pochi, un modo di sapersi connettere con un’altra mente che mi lascia sempre felice nel pensare a quel giorno, in cui, incuriosito come non mai, cercavo chi tu fossi, tra quei libri dai titoli così bizzarri che erano associati al tuo nome di saggista, professore, scrittore intimamente americano.
Le tue note, le tue mille e infinite note, sono mondi difficili e buffi da affrontare, da padroneggiare, per una mente inesperta come la mia, mannaggia a te. Sono oltremodo arzigogolati, e pregni di quella premura che sa tenderti però sempre la mano, ad ogni occasioni bislacca di interpretazione, per non abbandonarti mai. Grazie. Quanto volte ho sentito che parlavi solo a me; quante volte ho sentito di poter essere seduto su di una comoda poltrona per ascoltare le tue sterminate peripezie pirotecniche.  
Avevi ragione, hai avuto ragione, tante volte. Ora che i miei occhi possono osservare quello che avevi prognosticato, questa società è come tu l’avevi immaginata tanto tempo fa. Come diavolo facevi? Ma si può sapere chi è che ti suggeriva le risposte? I manuali di sociologia che studiavo all’università, in comparazione a ciò che mi dicevi e mi raccontavi, erano una burla inutile e ripetitiva.
Forse ora starai ridendo di me, però io queste cose dovevo dirtele prima o poi. La gente è triste, come quando dicevi di aver scritto quel romanzo infinito pensando esattamente a loro: “non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei è molto infelice”... “Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.”
E quando per la prima volta mi hai fatto conoscere Lenore tutto da quel momento è cambiato; da quel momento in poi tutte le cose non erano più come le avevo lasciate prima. Hai inventato una donna che non si poteva non amare, coccolare nelle sue contraddittorie manifestazioni, e poi l’hai fatta scomparire, nel risucchio di quel tuo burrascoso cilindro magico di romanzo, affinché vivesse per sempre dentro di me, e mi portasse ad immaginare un mondo di felicità che manco t’immagini. All’inizio ho pensato che volessi semplicemente prendermi per il culo, poi ho capito che mi stavi solo facendo uno dei tuoi tanti doni: sei terribile. “Tocca le cose con considerazione e quelle saranno tue; le possederai; si muoveranno o resteranno ferme o si muoveranno per te; si distenderanno e apriranno le gambe e ti cederanno le loro più intime giunture. Ti insegneranno tutti i loro trucchi.” Sai quante volte ci penso? L’ho sempre fatto, per quanto mi è parso possibile, e continuerò a farlo, anche se quelle cose possono e si animano bruscamente contro di me saprò di aver fatto sempre la cosa giusta.
Ti scriverò ancora, sappilo, perché un contatto diretto con te ormai ce l’ho da tempo: ha contraddistinto questi miei ultimi quattro anni di vita, ed è stata una delle sensazioni più piacevoli, divertite, intellettualmente impegnate che io abbia mai provato. Ma soprattutto, come scrisse quel traduttore “pazzo” che si innamorò a ragione di te, e cocciutamente per un anno intero fu intento nel tradurti per la prima volta al resto del mondo intero, per la prima volta in un’altra lingua diversa dalla tua, e cioè la mia, sfidando ogni scetticismo su quello che potevi trasmettere a tutti quanti perché non gli credevano, e lui battagliando di sudore riuscì nell’intento di regalarci per quanto possibile l'animo, la ricchezza dei tuoi pensieri, beh ecco, vorrei salutarti riprendendo le sue magnifiche parole, perché lui, quel traduttore italiano, anche lui ricordandoti ha toccato inesorabilmente le corde nel mio animo frustrato, rifocillandolo però, e riempiendolo di un’aria nuova; un’aria sicura di speranza in quel tuo atto tragico, in quel tuo strascico grido d’aiuto:

“Non starò a raccontarvi la vera e propria disperazione che quel 12 settembre del 2008 colpì me e molti altri dei suoi lettori e ci tenne per lunghi mesi in una morsa di dolore. Ognuno di noi ha un rapporto molto personale con la letteratura di David Foster Wallace. Come gli oracoli, sembra voler dire cose diverse a persone diverse. Ma oggi posso dire che non una delle sue parole ha cambiato significato, per me, dopo il suicidio. Mentre lo rileggo continuo a notare, anzi, quanto fosse frequente e potente il Comico, nella sua opera, e ci sono mattinate terse spazzate dal vento in cui sono sicuro di ritrovarmi a vivere dentro uno dei suoi giochi, d’essere un suo personaggio preso nella morsa d’una certezza ridicola e mordace, quella d’aver imparato a vivere da un suicida.”

"Per sempre lassù", e per sempre dentro di me. Ciao Dave, a presto (strizzatina mia, questa volta)       


venerdì 23 maggio 2014

Pane duro

Il pane duro è come il precariato: lungo a terminare.
Quando lo mangi senti un sapore stantio, di un qualcosa che è rimasto lì e di cui non si è potuto godere fino in fondo il profumo entusiastico dell’appena sfornato.
Quel momento iniziale, motivante e fragrante, viene spazzato via dapprincipio, con una spietata noncuranza di chi ti dice che, da subito, neanche il tempo di iniziare, hai un numero assegnato di scadenza inderogabile, proprio lì, stampato sulla tua non più tanto giovane fronte.
Proprio come il pane, che a distanza di pochi giorni si rende praticamente immangiabile, e il suo aspetto risulta venato da grumi di bianco secco; ogni tanto quei grumi li associ a quelle prime rughe che vedi farsi strada sul tuo volto allo specchio, quando speri che siano solo il risultato di gran risate al genuflettersi di occhi festosi, e poi, invece, scopri essere soprattutto il sottile risultato di un bacino premuroso di lacrime spossate, che scivolano e si incuneato presso di loro.  
Quando mastichi per tanto tempo il pane duro all’inizio non te ne accorgi, perché fondamentalmente hai fame; ma dopo un po’ cominciano a subentrarti inesorabili scosse alle mascelle che si propagano per tutto il cranio, ed è lì che ti rendi conto di quanto, a sentire interiormente quel fastidioso croccante stridio di crosta, puoi ritenerti ancora tutto sommato fortunato: riesci ancora ad ingerire qualcosa, a nutrirti in qualche modo, anche se il nutrimento non è dei migliori: ma tu butta giù, e vedrai che lo stomaco si riempie lo stesso.
Quando lo tieni in mano, sempre quel pane duro, senti che non deve essere buttato via, che non deve essere abbandonato al suo miserabile destino, e in quel frangente puoi associarlo al puro volontariato, o anche all’etichetta di disoccupato occupato in mille altre occupazioni: occupazioni non riconosciute dal capitalismo consumistico, dal capitalismo monetario; perché il lavoro, anche se dicono che non c’è, è diventato debole solo in questa accezione, e si è tramutato in tanto altro che già viene praticato, ma che fa fatica ad essere riconosciuto abbastanza per quello che realmente è, poiché non produce gli utili famelici per quel tipo specifico di consumo.
Ci sono tanti altri tipi di consumo, come i consumi valoriali, come le condivisioni di scambi avulsi da contratti formali, dove lo spirito dell’illusione che risiede nella sterminata individualità di ognuno prende corpo, e si manifesta nelle gesta dell’inventiva, nel luccichio intermittente e sensazionale dell’iniziativa inedita, nella sconfinata libertà umana.
Semplicemente il pane duro è un pane che non deve essere smaltito per poi semplicemente inquinare la nostra esistenza: va mangiato. Il concetto di lavoro che c’è dietro va modificato, e allora si accende il forno della fantasia che porta il nome dell’imprenditoria individuale e se ne fa una bruscetta, di quelle che ti ricordano tua nonna che quando eri piccolo te la preparava con parsimoniosa cura; di quelle leggermente dorate e con quel tocco di simpatico abbrustolito, che rende quel pane in un rinnovato stato di grazia; una grazia che può accogliere la giusta quantità di ciliegie di pomodoro decorate dal sale, e avvolte, infine, dall’abbraccio rincuorante di quell'olio leggero e profumato di fresco.
Bisognerebbe profumare la disoccupazione, e ravvivarla in quello che si cela al suo interno: chi ha detto che chi è disoccupato per i centri d’impiego – sparsi per ogni dove e davvero inutili – non sia per nulla e in qualche modo occupato? Chi ha detto che costui non si mobiliti altrimenti per immagazzinare cultura propria per poi espanderla, incanalandola nei circuiti virtuosi della collettività con cui entra in diretto contatto? Chi ha detto che chi verte in questa condizione semplicemente etichettata – che serve solo a rifocillare le false statistiche – non sia anche un infaticabile crogiuolo di smanettamento continuo che sta cercando con sudore e fatica esistenziale di riformattare per sé e per altri un genere di sapere diverso? Un sapere e delle pratiche non più arenate nelle logiche di quella generazione che dicono essere stata spazzata via e che non potrà più avere un misero barlume di ritorno?
Nessuno può dirlo, perché appena si sarà prodotta “la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali. Non esistono forze in grado di interromperne il corso – né umane né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica.”

Allora, se bisognerà mangiarne ancora di pane duro per disvelare quest’ulteriore mutazione si continuerà a farlo, decisamente, ma ci sarà chi, stanco di quel pano duro, lo abbandonerà spossato, nell’inquinamento della propria depressione esistenziale; e chi, invece, sarà sempre intento ad accendere tutti i forni impensabili dell’immaginazione, per poi finalmente sedersi tranquillo e rasserenato, felice di una stanchezza meritata, per potersi infine assaporare quell’anziana bruschetta rinvenuta che ha semplicemente il magnifico sapore di un Nuovo buono.

sabato 26 aprile 2014

La pensabilità della speranza

Sono a terra, sento che sono a terra. Sono lastricato, nient’altro.
È tutto buio attorno a me: la risacca del mare non c’è e l’asfalto mi stride in viso, severo. Tanto bella era la spensieratezza; peccato che se l’è portata via il vento, con le sue ragioni, e le sue giornate animate d’agosto, quando il fervido pullulare della sera andava risposandosi in quella candida stanchezza meritata a fine giornata e che non chiedeva più nulla, no, più nulla, se non il richiamo disinteressato di enormi e invisibili cicale nel loro battibecco infinito, un rimando ancestrale tremendamente confortante.
Un battito sordo, un tumulto appena passato, una confusione che lambisce le sfere della coscienza. E poi una luce, un’inspiegabile luce mi rischiara in viso e viene a cercarmi. Un soccorso repentino probabilmente, non saprei, ma chiaramente un-autentico-dono-salvifico.
Quando penso che sia tutto finito e non c’è davvero più nulla che si possa fare è proprio allora che si presenta la forma del riscatto, quello scatto umano che si riflette in una consapevolezza nuova, quella stessa che percepisci e che non sapevi minimamente di avere, prima. Sembra come se si sia formata a tua insaputa, pazientemente, nel rovo di una fucina lenta e saggia, che vuole darti consiglio, che prova a bisbigliarti ogni tanto, ma solo quando il suo pulsare è ancora timido e inesperto ai tuoi occhi, e sarà proprio per questo che, probabilmente, in quei primi immaturi frangenti, ne ignori completamente l’esistenza.
Tutto non è mai perduto, e se giaci al suolo e ancora respiri vuole dire che puoi rialzarti, prima o poi, con calma, puoi prenderti tutta la calma di questo mondo, il tempo c’è, c’è sempre stato...
Ho sempre pensato di avere un obiettivo nella vita, uno scopo prioritario: fare bene quello che sapevo fare meglio: impegnarmi, lavorare sodo, cercare curiosamente l’inspiegabile di uno spettacolo troppo forte per essere recepito tutto d’un fiato: la vita.
Ora, invece, mi ritrovo ad essere svuotato della mia essenza, di quell’unico senso che mi aveva sviluppato il mondo dinnanzi. E allora combattuto e chino reggo, al cospetto di una realtà all’apparenza vuota, la mia formazione, dettata dal ritmo di quel passato effervescente e carico di un esperienziale tutto mio, personale. E mi domando quanto ne sia valsa la pena, sì, quanto per la miseria, sì: questo costantemente mi chiedo.
Chi come me appartiene a queste generazione bruciata di diseredati dalle emozioni, dai desideri, dall’impulso vitale, questiona costantemente riguardo al suo futuro, un futuro gravido di incertezze: un chiodo fisso. Chi come me, dopo anni passati nel nomadismo più sfrenato di questa vita, si domanda se tutto il contenuto di senso di quegli attimi sacrificati alla propria gioia, alla propria tranquillità, alla propria spensieratezza, possa essere reso spendibile in un sistema sociale esterno che possa offrirgli, dopotutto, finalmente, un misero e sorprendente qualcosa: oggi questa domanda, a conti fatti e col senno di poi, può sembrare abbandonata, del tutto inevasa, di fronte ad una complessità fatta della stessa materia di quell’asfalto: severa. Una complessità a cui non siamo stati neppure lontanamente educati; sta qui il problema: la società è implosa – in quella sua nebulosa di astri maculati e così confusi – e noi, per l’amor del cielo, non siamo stati educati minimamente a cotanta complessità. Nei fatti non la conosciamo; manco riusciamo a immaginarcela (che è la cosa più importante).
Tuttavia, nulla è ancora così perduto. C’è ancora la gente, le gente come te, e io – si possa dire e pensare quello che si vuole – io credo sempre nella gente, brutta o bella che sia (brutta e bella per e in ogni accezione). E c’è ancora l’Europa, mamma Europa. Un esperimento mai concepito prima da luminari che ripudiavano in tutte le sue forme la guerra; nelle sue gestualità, nei suoi ritmi, nei sui malsani tatticismi strategici: la sua inumana politica andava a colpire proprio il contrario di ciò che dovrebbe sbandierare e rendere realizzabile la vera politica, quella seria, ovvero: il bene comune, il bene di tutti noi.
E quindi... Ampio respiro, fratellanza dei popoli, uguaglianza di diritti che surclassano i confini, affinché quest’ultimi non si traducano nella vera piaga del mondo globalizzato attuale: la disuguaglianza sociale senza esclusione di colpi; quella disuguaglianza che etichetta la gente innocente di colpe inesistenti: colpe create su misura per escludere. Questa piaga – la disuguaglianza sociale – purtroppo, è ancora definita e normata entro dei confini nazionali, all’interno di Stati-nazione che pretendono di bacchettare la vera essenza che ci unisce tutti: la consapevolezza e la forza di avere gli stessi diritti vitali su questo pianeta che stiamo martoriando, silente ma incazzoso nelle sue impetuose manifestazioni naturali che, violente, si sbarazzeranno del suo unico e vero cancro: il nostro dannoso e vigliacco lato oscuro che ormai ha superato davvero ogni limite.
E allora via i confini! Prendete una gomma bella grande e fate festa sdrucciolando in lungo e in largo tutte queste linee complicate e insignificanti: bisogna sconfinare! E mamma Europa ci sta indicando la via: poveri illusi chi non trae da Lei il vero senso dell’umanità che cerca di prendere corpo, di darsi un tono. Serve l’anima a tutto questo processo, affinché si sviluppi e perduri nel tempo. Ma l’anima dobbiamo mettercela noi, con l’impegno di tutti, collaborando, assieme, nelle e fra le nostre straordinarie diversità.
I nuovi saperi frutto dell’opera dell’intelligenza collettiva nascono in zone periferiche e mute. Sono destinati alla marginalità rispetto al pensiero dominante, ma se qualcuno li osserva, li racconta e li connette, la realtà può modificarsi. È vero che non ci sono maree di cittadini smaniose di liberarsi: la libertà (e la responsabilità che porta con sé) è ansiogena. Proprio questa condizione apre uno spiraglio. È il tema antico posto da Marx: se sono io stesso a co-produrre la mia alienazione, su questo spazio di libertà si può lavorare. C’è sempre una possibilità di (r)esistenza. Paul Freire diceva che bisogna creare il desiderio di libertà fra gli oppressi, restituire soggettività alle persone. Se si raggiunge una massa critica di nuovi comportamenti, questi potranno produrre cambiamento sociale al di là delle leggi e delle intenzioni dei governanti e dei finanzieri. Al di là non vuol dire contro [chiaro Grillini? Altrimenti riscrivo pazientemente di nuovo l’inequivocabile stralcio di citazione], ma semplicemente che la liberazione dell’intelligenza collettiva favorisce il re-innesco di circoli virtuosi disattivati a causa dello sfibramento dei legami sociali e del dominio della razionalità strumentale.” (Mazzoli, 2014).

E allora? Cosa stiamo aspettando? Il mio asfalto ora è lontano: è proprio sotto i miei piedi. Viene illuminato per giunta dal mio spiraglio di luce: trovatevi anche voi il vostro, o il vostro cercherà voi.
Ordunque: osservare, raccontare, connettere: la realtà può davvero modificarsi. Ciao.        

lunedì 21 aprile 2014

La dolce realtà invisibile

– Sì, è misterioso.
– A cosa ti riferisci? Che cosa stai dicendo?
– L’unico problema, forse, è il punto di vista.
– Sì, certo, il punto di vista, la prospettiva, la bizzarra diagonale, ma di cosa? Di cosa stai parlando?
– Sai, quando ti capita non te ne rendi nemmeno conto, effettivamente. Poi arriva d’improvviso e si intromette, piacevolmente... Vive di vita propria e tu l’assecondi; è così che devi fare, senti che è l’unico modo di poterlo fare, tutto qui.
– Ok sei partito.
– Sì, direi di si, e ne sono contento.
– E quale sarebbe questa, diciamo, tra virgolette, direzione della tua contentezza? Secondo sempre il tuo punto di vista, è chiaro.
– Ma quante domande che fai! Spero tanto per te che tu le riduca, ma per te stesso, non per altro... Ad ogni modo, penso che in queste situazioni le domande, agli inizi, nei primi timidi attimi disvelanti, non servano. Le risposte, quelle che cerchi intimamente, le raccogli spensieratamente, come se dovessi raccogliere tante preziose monete sul fondo di una sorgente cristallina.
– E allora cos’è che ti guida, cos’è che prima fra tutti ti scuote e ti dice che sì, il sentimento, l’emozione e tutto ciò che ne consegue va assecondato?
– I suoi occhi. Semplicemente la maestosità dei suoi occhi. Parlano, mi sorridono: mi dicono tutto ciò che ho bisogno di sentire, di vedere. Vedo riflesso nei loro incroci l’unione inaspettata della mia immagine... E quell’immagine di me è bella, mi piace tanto.
– Così ti fai i flash sull’immagine di te che vedi nelle sue iridi di occhi che si incrociano. Sei sicuro di stare bene?
– Mai stato meglio.
– E allora, a proposito  dell’unico problema che dicevi, il punto di vista, a cosa alludevi esattamente?
– Il punto di vista è necessaria, impattante diversità. La diversità è un concetto, una pratica, molto complessa, ostica, per certi versi; ma al tempo stesso tremendamente semplice, non so come dire. È una materia cangiante; si adegua in base al vissuto esperienziale, in base alle relazione che si instaura tra le persone e che si sviluppa, in un modo come in un altro: non le saprai mai le sue infinità e possibili modalità, dovrai solo scoprirlo strada facendo. Mi viene in mente, a questo proposito, sempre la metafora della luce per spiegare questa cosa qui. Sai, la luce ci permette di vedere, di osservare. Ma luce è invisibile di per sé, non la vedi. Ecco che allora la relazione è fatta esattamente della stessa invisibile materia. Sta tutto lì, nella relazione. In questo suo scenario – in questa sua dimensione che, in questo caso, avvolge due persone – nasce qualcosa di unico, di speciale, un qualcosa che appartiene solo a quelle due persone, e che per quante volte ti ostinerai nel tentativo di riprodurlo non riuscirai mai completamente a farlo: i tentativi sono a dir poco inutili, anche se ti ci metti d’impegno sul serio. E quindi il problema è il punto di vista: se i punti di vista non combaciano la realtà non si crea, o meglio, se ne creeranno due diverse che in qualche punto cominceranno ad incrinarsi, a non corrispondere come veramente vorrebbero... È lì che nascono i primi problemi. Dato che questo è inevitabile, bisogna scorgerli, prontamente, comunicarseli se è necessario, e prendere spunto da loro e cementare quelle due realtà in quella che si vorrebbe idealmente costruire, insieme: questo è quello che si dovrebbe fare. Quando c’è sentimento, quando c’è incondizionato amore, tutto è reso più semplice: la realtà per il duo si attiva, è quella, e comincia ad esistere, a crescere, a prendere corpo. Se quella realtà non si attiva in due, allora non ci sarà mai una realtà, perché ricorda: la realtà esiste sì, ma è difficile da toccare, da osservare: ci saranno sempre i tuoi filtri soggettivi che in qualche modo si intrometteranno tra te e lei per offuscarti la vista. E allora, se quella persona decide di compiere un percorso con te e hai questa smisurata fortuna, e tutto questo amplesso arricchito e merlettato di semplicità ti permette di vedere allora tu guarda, e se puoi guardare allora osserva: lì le tue domande non avranno più modo di sorgere, di sussistere: le risposte prendono loro le manine e le porteranno a passeggio.
– Vedo che hai tutto chiaro.
– Non è sempre così, ma a volte è bene che ci siano questi momenti, che tu te li sia cercati o meno: serve sempre una boccata di ossigeno pulito, per tutti i sensi.
– Io ora ho solo bisogno di una birra, invece.Vieni con me?
– Solo se è c’è lei però.
– Sì, lei c’è sempre.
– Ok, allora andiamo.

sabato 5 aprile 2014

Come quando di notte

Non vedi dove sono? È tutto chiaro e limpido, come una mattina cosparsa d’estate. Il mare è già lì, e si è preparato durante tutta la notte, per attenderci. Ma io non lo raggiungerò, non oggi. Me ne starò qui, invece, all’ombra: è una sensazione di riposo che mi si addice di più, non biasimarmi: è l’organo più esteso del mio organismo che me lo richiede.
È sofisticato quando intravedo dalla finestra appannata della cucina il figlio del pakistano nell’alimentari sotto casa. Mi ricorda tanto me, quando ero più piccolino. Lo vedo lì, seduto e impaziente, che aspetta il prossimo cliente, e che prepara il suo rinnovato sorriso per la prossima offerta che verrà, richiesta. Questa gente è umile, coraggiosa, sconquassata dalla vita, eppure rimane lì, col sorriso sempre stampato in viso, e attende. Attende. Ogni tanto dà un occhio all’ora, a quell’orologio millenario velato appena da una ragnatela filata a metà, da un ragno altrettanto millenario, e che vive di solitudine vera. Di tanto in tanto il loro sguardo segue la gente che passa per strada. In questo modo la cura e la meticolosità dei loro attimi si dilata, e diventa infinito. Segue le traiettorie della mente che si tramutano in probabilità improbabili, e diventa senso.
Sì, il mare, meta di sconosciuti: la grande piscina collettiva che si insudicia in agosto, e che si incupisce per il grande afflusso di gente inferocita di finto relax che si riversa in spiagge colme e ripiegate. Ma qui non c’è il mare, e gli sconosciuti hanno altre infinite mete: i semafori lampeggiano i loro ritmi. Non so cosa penserai di me, ma il concetto di diversità non credo mi appartenga. Per lo meno quello che viene costantemente millantato da tutti coloro che ti capita di incontrare a giro, gente impomatata e lustra di sé che si presenta con il biglietto da visita stampato in viso, e che rivendica costantemente la sua di diversità, e che pretende di splendere al cospetto degli altri. Ma che cos’è la diversità? Abbiamo davvero avuto modo di assaggiarne l’essenza? Io ancora no, forse tu sì, ma io ancora no. Come si fa a vivere nell’era dell’individualismo se non c’è stato il minimo e benché sorprendente reciproco confronto? Come si fa, privi di quella salubre chiacchierata in quel pub ricolmo e inneggiante, e che si materializza al chiarore di una luce gialla appassita e avvolta dai fiati dell’alcol? Io dico, come si fa.
È bello quando ti ritrovi in un contesto in cui non ti puoi esprimere in quello che credi essere il meglio per te, e dove ti senti quasi a disagio a sentirti bambino nell’impossibilità comunicativa; è davvero bello nella sua impossibilità. Impari a rivalutare i dettagli, a scoprirne di nuovi. Piccoli particolari che si richiamano ai gesti, allo scossone dei visi, agli occhi smarriti e trepidanti di risposte: è bello sentirsi tutti smarriti nella comune ignoranza. Capitava in un contesto di lingua straniero, quando tutti, intenti ad imparare un’altra sconosciuta lingua, si dimenavano in diversificati atteggiamenti corporei pur di farsi comprendere, perché le parole nuove da imparare erano appena sfuggite alla mente, che si ritrovava lì, nuovamente rossa e imbarazzata.
Come quando di notte ti sveglia il richiamo del sesso. Non il tuo, quello che per naturale necessità spesso ti si agita dentro, ma quello esteriore, quello che ha il carattere dell’invadenza inopportuna, e che trapassa noncurante le mura del tuo appartamento per dirti che, nell’ambiente appena accanto al tuo, vi è una copulazione in corso, animata. Quei mugugni, quei sospiri vitali si dipanano, e si fanno significato: attraversano le mura. E allora pensi a quella volta in cui avresti voluto vederla risvegliarsi, dopo una notte passata con te, il tuo volto appena destato dal caldo cuscino e che la cerca, tra i suoi capelli meravigliosamente disordinati, i suoi atteggiamenti accoccolati per l’altrove. E allora avresti voluto pian piano accoglierla nel suo nuovo giorno con te, e riscoprire la magnificenza del suo sguardo, la bellezza di quei suoi occhi unici al mondo, e dirle buongiorno, con la tua voce timida e ricoperta ancora dal sonno, e contemplarla, per fissarne l’eternità irripetibile.
Le parole non servono, in certi momenti davvero non servono: sono solo il surrogato di quello che vorremmo essere per noi stessi. E quindi una lacrima scende giù, e anche se fa una brutta figura tra i tuoi occhi così cisposi che riportano il ricordo dei sogni, quella lacrima è bella: testimonia la tua autentica e sempre rincuorante veridicità. Ma lei non c’è, per lo meno non ora, non più. Pensi di addormentarti, ma più ci pensi e più non lo fai. E colleghi tutti i dettagli traendone un quadro: il clown, che termina le sue tre giornate di ricordi melanconici cantando per strada, chiedendo qualche soldo sul ciglio di una stazione, con un cappello di fianco rovesciato, contenente una sigaretta gettata fintamente dall’alto, giusto così, per richiamarne caritatevolmente della altre; gli occhi verdi, sempre presenti, di un passato che si rifà sorprendentemente vivo e che bussa alle porte delle tue risvegliate sensibilità: è bello ritrovarsi lungo il cammino, soprattutto quando sai che qualcosa di te hai saputo lasciare, grazie; un tempo severo, un tempo rannicchiato dietro il banco ortofrutticolo intento a sfogliare il tuo primo libro della vita: codici di un mondo che sta per nascere; quel mare che sempre attende, ma solo quando avrai abbastanza zavorra da rilasciarne a lui tutto il suo peso: sì, lui può farlo, lui è il più grande di tutti: saprà lui il modo più giusto per smaltire tutto il tuo vissuto di scarto e che ti porti dentro. Sì, verrò, ti dico che ora verrò, sento il tuo richiamo: ora sono pronto.                  

sabato 29 marzo 2014

Una storia qualunque

Ci fu un tempo in cui si amarono alla follia, ma tutto poi svanì e il tempo si prese il resto. Si erano conosciuti a casa di amici, amici di amici, e c’era un festino in corso con un tale casino che le persone imbottigliate in quell’appartamento sembravano delle sagome in movimento col bicchiere in mano, colori suoni e musica di sottofondo, nient’altro. Un festino celebrato senza un perché, un invito ricevuto per passaparola. Erano così le occasioni di ritrovo in quella città fantasma, una città di provincia che assomigliava tanto ad un villaggio vacanze piombato in inverno, nient’altro. Da raggelare i cuori. Solo le case rappresentavano il solo e unico ristoro, e l’afflusso di gente che proveniva da ogni dove cercava di alitare benevolmente il loro ritmo. La caratteristica di quella città era che tutti quelli che si incontravano per strada in qualche modo si erano già visti, avevano avuto modo di prendere familiarità con i soliti volti, sempre e quotidianamente, da qualche parte. Il solo sforzo consisteva nel ricordare dove era avvenuto il contatto, l’incontro, lo sguardo appena sfuggito alla percezione distorta dell’alcol felicemente in circolo, o alla concentrazione della sfogliata di un libro di studio impegnato in biblioteca. Così per tutti quei ragazzi che si ritrovavano per ragioni di studio a vivere momentaneamente in quella città si trattava solamente di ricordare i volti e poi, se a qualcuno interessava qualcun altro, attivare le proprie conoscenze più prossime per arrivare alla conoscenza interessata: era un autentico gioco da ragazzi.
Birra scadente, giochi bizzarri col bicchiere traboccante in mano, discorsi effimeri, finti interessamenti reciproci: tutto proseguiva nella solita normalità segnata. Ad un certo punto però lui la adocchiò e tutto si fermò: il flusso di parole incubate in quell’appartamento si fece largo, e andarono a stamparsi gocciolanti sulle pareti di un angusto corridoio che indicavano l’unica direzione da seguire: lei. Strano, piuttosto notevole come situazione, pensò. Il suo volto gli era nuovo. Fece riflessioni sulla sua provenienza, sul come fosse giunta proprio lì, e del perché lui, prima di allora, non si fosse mai accorto della sua presenza. Strano e bello: per lui significò una boccata d’ossigeno rigenerante. Una cosa nuova. Si avvicinò, si presentò, e lei lo accolse con un sorriso, con uno scintillio d’occhi che pareva essere d’intesa. Un’intesa che aveva percorso tanti tragitti per concretizzarsi fino a lì e che ora si svelava nella sua massima e visibile rappresentazione: le labbra si contorcevano insospettatamente, gli occhi si incrociavano e si nascondevano nella dolce intermittenza, e il resto tutto intorno andava svanendo: indicava solo un contorno insignificante. Alle prime parole impacciate seguirono i momenti di condivisione, di vissuti, e il tutto culminò subito in un bacio aiutato dall’ebbrezza del momento: calda e rincuorante come l’alba del mattino, annunciata dal pescatore in barca lento sull’olio del mare.
A quella festa seguirono altri incontri, tutti teneri, tutti oltremodo saltellanti, e la pioggia invisibile, che bagnava spesso le strade che momentaneamente li dividevano, aveva il naturale compito di tonificare le passioni. Fu forse un colpo di fulmine, come vuole l’immaginario collettivo, ma di fulmini se ne vedevano ben pochi da quelle parti. Era sempre tutto grigio lì fuori, e la nebbia rendeva faticoso distinguere al mattino le ringhiere di balconi persi nel bianco nulla. Fu una trepidazione amorosa la loro, un amore sbocciato dal nulla, come accade spesso in quei casi in cui le questioni smielate e concitate si rendono alla fin fine effimere, nulla di più. Il problema stava nel disaccordo percettivo che entrambi davano alla questione. Lui non si capacitava del suo anzitempo abbandono dal gioco, del suo allontanarsi senza una spiegazione plausibile, perché non ci sono spiegazioni, questo si sentiva ripetere spesso. E quindi incominciò la trafila dei ricordi del recente passato che lo ossessionavano, che lo vedevano preda del suo amore travolgente per lei, tutto intento a ricoprirla di attenzione di ogni sorta, di un’attenzione incanalata in una sola e unica direzione, priva del rispetto per se stesso.
Lei, poetessa alle prime armi, in quel passato appena passato, aveva dato sfoggio delle sue parole in versi per lui, con accostamenti che toccavano la delicatezza, la cieca propensione, la dedizione incondizionata, lo stesso sentimento che, nei gesti, raggiungeva vette di inaudita bellezza, e che poi trovavano il loro giusto posto: il suo candido e profumato abbraccio.
Alle ossessioni, al frastuono interiore, al malessere per un qualcosa di svanito chissà dove lui lentamente cambiò, il suo volto si fece cupo, tenebroso questa volta di un miasma di fulmini interiori, altamente contrariato e offeso, perché non riusciva più a cogliere in lei quello stesso sguardo che lo aveva accolto nel suo mondo: era diventata ad un tratto un’altra persona, e tutto questo senza un perché; il perché non esisteva. Era difficile per lui comprendere che tutto quello che c’era stato era stato veramente sentito, donato ad ogni incontro con la stessa autenticità che ora gli rifuggiva, che non faceva che nascondersi o che semplicemente non esisteva più, come diceva lei. Aveva cambiato volto. L’autenticità c’era ma parlava un’altra lingua, che lui da lei non aveva mai udito. Parlava di dispiacere, di incomprensione dell’accaduto, di un sentimento che c’era stato, sì, ma che ora lei non riconosceva più come suo. La semplice constatazione di lei si imbatteva nelle continue complessità tramortite di lui, o, diversamente, la complessità del cangiante atteggiamento di lei si imbatteva, senza appello, sull’impaurita semplicità di lui, che voleva darle di nuovo solo un bacio, sentire lo stesso suo profumo accoglierlo, tutto come era successo poco tempo prima, un tempo che era come ormai blindato. Non fu così: si allontanarono. I primi periodi lo s-legame si fece assordante e poi, con la medicina del tempo, il suo eco si attenuò, via via, per prendere le strade diverse della coscienza. Lui si laureò ben presto e partì: il periodo immediatamente prima aveva condotto una vita solitaria, lontano da tutto e da tutti, e trovò conforto nelle sue letture, in quelli che poi sarebbe diventanti i suoi maestri di vita. Gli insegnarono che a tutto, quasi a tutto, c’è sempre una soluzione e che non aveva senso scoraggiarsi per qualcosa di bello che era successo: era successo e basta, bisognava solo avere il coraggio di andare avanti. Così scoprì altri luoghi, conobbe la gente del mondo e tutta la sua ammaliante e travolgente diversità. Ciononostante, il ricordo di lei ogni tanto sopraggiungeva sbiadito, e l’istantanea che li raffigurava insieme, sorridenti e innamorati, cominciò ad assumere per lui altri colorati significati, sfumature smussate da sorrisi interiori appena accentuati.
E intanto gli anni passarono e, per circostanze del tutto eccezionali, si incontrarono nuovamente, per strada, sempre in quella stessa nebbiosa e fantasma città. Le loro fisionomie si riconobbero leggermente mutate e il tono di voce aveva assunto una qualità strutturata, più consapevole, più dedita ad un incontro costruttivo, ad una situazione nuova. Avevano occhi diversi l’uno per l’altra. Tuttavia, durante i loro timidi dialoghi, uno scintillio nascosto si caricava ogni tanto di luminescenza, e quegli occhi tentavano a stento di trattenere delle emozioni che facevano capolino tra l’attrazione sempre presente e ancora, sì, ancora viva. Il nuovo incontro si sviluppò senza troppi slanci verso il passato e il tutto si risolse con una piacevole chiacchierata intrattenuta tra libri di un bar piuttosto accomodante. A distanza di giorni lei partorì una nuova poesia, stesse parole incantante, stessi versi ondeggianti, come un sughero abbandonato nella marea delle sensazioni per lui. La poesia venne letta, una sola volta. Lui ne assaporò tutta la di nuovo autentica essenza, perché è di questo che si trattava, nuovamente. Ma non fece nulla, non rispose: solo un altro sorriso gli venne, questa volta in volto. Conservò allora il bel ricordo e ripose quelle splendide parole in un diario che era stato amoroso sì, ma che nel presente, nel divenire della vita che avanzava, si trattava solamente di un diario appena, solo appena sfogliato. Nulla di più.