lunedì 11 novembre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 4)

Questo è un ricordo un po’ sfumato, di quelli che ne trai l’essenza e basta, quel tanto che ti occorre però per renderlo irrimediabilmente speciale. Ero a Bruxelles, come si evince dal titolo melanconico che, ormai per consuetudine, riserbo a questa sessione di post piuttosto a tema, ed ero, dicevo, assieme ad una banda italiana. “Banda” non è il termine più appropriato; diciamo più che altro una “scorribanda”, una scorreria ecco, come una folata improvvisa di una combriccola italiana apparentemente sprovveduta e accidentata e che, in uno specifico posto designato da una cartina tutta stropicciata della città, metteva in atto un saccheggio diligente e improvvisato, tutto con la massima resa e il minimo sforzo. Il posto specifico in questione era una specie di grande rimessa, di quelle che di aspetto non puoi che associare al deposito dei grandi magazzini, ma appositamente addobbata a marketing per ricevere un evento viticolo che avrebbe sfoggiato le prelibatezze perlate di fiumi e fiumi di quella varietà sfaccettata che può anche svelare (e chi l’avrebbe mai detto) il buon vecchio vino portoghese. Ora, non chiedetemi i nomi e le qualifiche annali dei diversi e importantissimi vini che erano a completa disposizione lì per tutti gli avventori, perché proprio non me li ricordo. Ho solo una luce mnemonica che mi proietta nelle altre luci di una tipica danza, quella danza che tra un banchetto e l’altro, tra un signore che tutto ingiacchettato centellinava dolcemente vini rossi pregiati in bicchieri altrettanto altisonanti, e ancora un altro, altri signorotti tutti esperti e appassionati, con le guance paffute e infuocate dalla passione del vino nelle vene sempre in circolo, quella danza dicevo che ti trasportava dove ti portava solamente la sapiente curiosità. Almeno questo era quello che pensavano loro, i signorotti tutti ben vestiti, e invece no: quale curiosità? Poteva anche essere, una specie di curioso approccio verso l’”alterità-fatta-a-vino”, ma... Diciamola tutta come stavano davvero le cose: ci eravamo solamente e senza mezzi termini imbucati in una danza completamente gratuita, agghindata di degustazione di vini portoghesi dalla consumazione praticamente illimitata e non convenzionale (ragionevolmente fino ad esaurimento scorte). E quindi questi simpatici signorotti gran bevitori, ma anche grandi illustratori di essenze, ti guardavano con quell’occhio esperto, cercando conferma in te del medesimo e identico luccichio di passione, quella stessa comunione di interessi che si rifaceva all’arte tanto decantata e gustativa e, con quel loro fare davvero accomodante tipico di quell’intimità piuttosto garbata, ti dicevano scorrevolmente e senza un minimo di pausa “Senta un po’, che ve ne pare?”, cercando l’effetto del probabile lustro illuminante che avrebbe provocato in te quella stessa ebbrezza odorata che provocava in loro, la stessa e studiata sciacquata di bocca e, infine, l’ingerimento compiaciuto nei meandri di tutto quel tuo corpo che non era che ormai inebriato. Ah quali momenti indimenticabili, davvero. Come avrete precocemente già afferrato da un pezzo diventammo anche noi dei veri esperti e appassionati e intenditori di vino, e davvero, chi ne ha più ne metta, perché sì, abbiamo fatto proprio così, ce ne inventammo di belle belle: tutte le qualifiche e attività più inculate di viticoltura biologica con i contro-cazzi ce l’avevamo e le operavamo noi; di punto in bianco eravamo diventanti gli autentici esperti del settore che non avevano alcun bisogno del sentito dire per approcciarsi ad un tal ben di Dio a completa (e gratuita) disposizione. E allora via davvero alle danze; da un banchetto all’altro, da un signore ad un signorotto simpaticone all’altro che ti versava da bere aggratis, in fiumi di vino che venivano e andavano, sì, proprio giù, a toccare le nostre anime commensali. Eh sì, perché non si trattava solo di vino in quel bizzarro magazzino, ce n’erano di prodotti e di tutti i tipi. Più che altro erano un mezzo indiscutibile per colmare il vuoto di pancia che sarebbe risultato brontolone piuttosto a breve se non pensavi subito a compensarlo a dovere. E dunque formaggi di tutti i tipi e salumi piccanti serviti ad hoc: tutte pietanze commisurate per l’esaltazione gustativa di quel maledetto liquido rosso che andava sempre di più giù, ad ogni sorsata di bicchiere. E poi c’era anche una delle attrazioni innovative a darti quella grinta giovanile in più, una specie di liquore portoghese molto dolce, un certo Licor Beirao, che andava mixato col lime o con la fragola, a tua scelta “Come lo desidera?” e tutto a tua completa e sempre disponibile concessione (ragionevolmente fino ad esaurimento scorte). Ma il re della serata era, ovviamente immaginabile, il Signor Porto, e che Porto: tanto era signore che si era moltiplicato in sette varianti della sua specie, e tutte accuratamente da provare, poiché ogni vitigno aveva la sua storia, la sua terra, e il suo modo così peculiare di fabbricazione armoniosa. E quindi danzavamo e sparavamo minkiate a go go, fingendoci intenditori dell’uno o dell’altro vino, e ne volevamo assaggiare di tutti i tipi, e ancora, mai davvero sazi, perché proprio non ci tornava, e volevamo ancora definire meglio le sorti di quelle splendide sensazioni che avrebbero inglobato tutti noi, per mente e per corpo. È inutile dire che fu una di quelle serata in cui l’occhiatina divertita in gruppo la faceva da padrone, e dove l’incredulità del tanto bere gratis si fondeva ad una negoziazione di sentimenti che ci rendeva uniti, tutti insieme, perché solo tutti insieme eravamo per la prima volta riusciti a vivere un’avventura propriamente nostra, dal sapore inconfondibilmente collettivo. Poi però, tutti brilli e leggeri, comprammo qualsiasi cosa, tutte quelle bottiglie di vino (e di Porto) che ci avevano di più colpito al palato, e l’intento finale di quei signorotti arguti era alla fin fine bello e compiuto; ma andava bene così, perché è dal diletto e dal divertirsi che nascono le cose migliori, e queste gentili persone, con le loro altrettante gentili offerte, non avevano fatto altro che farci assaporare il sole di quella loro e mai troppo inculata terra. E non è detto che tutta la condivisione che abbiamo di questo mondo debba sempre necessariamente consumarsi in un marketing bruto e brutale, no, assolutamente, perché può e deve esserci per forza sempre qualcos’altro, che vada al di là del fottere qualcuno per racimolare e fare il proprio dannato ed egoistico interesse; quel qualcos’altro che sempre ci unirà, oltre la disparità delle singole vedute opportunistiche; quel qualcosa di immateriale che scalfisce sempre la somma delle parti e sovrana, come il Porto, e ci accomuna, tutti, sempre, come in un’avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un’esuberanza libera e interdipendente. Sempre.

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