domenica 3 novembre 2013

La faretra dei sentimenti

Un impeto, un fragore, un tuono di festa: ecco la quintessenza della felicità. Il viaggio per raggiungere tutto questo è però solitamente percosso da sentieri bui, minacciosi, tendenti all’incubo degli incubi peggiori, ed io non faccio altro che inoltrarmi, mi ci catapulto ecco, li percorro e li attraverso, tutto tremante, tenendo per mano la chiara e intima consapevolezza del vederci sempre lontano, qualsiasi cosa accada, qualsiasi traversia possa minacciosa aspettarmi, conservando sempre con me, su quel selciato personale di cammino, quel pizzico di sentore speranzoso che mi proietterà sempre più lontano, e più lontano ancora, sempre si spera, dove qualsiasi e pregiata gemma di vita può essere toccata solo dalla più arguta e allo stesso tempo incantata sempre presente immaginazione. E dunque fagotto in spalla e si parte, con la scintilla per ogni dove. La finestra delle possibilità si fa sempre più angolare e dai suoi angoli, con caleidoscopica precisione, si dipana per estensione: li afferri e mo’ di mollette e gli allunghi a tuo piacimento attraversando la loro elasticità, allargando questa volta il tuo di angolo visuale. E dunque che fai: ti arresti. Ti sembra di vederci tutto chiaro e allora avanzi nuovamente. I soggetti del tuo desiderio sono tutti là, ansiosi della tua scelta e febbricitanti di una possibilità che solo da te verrà dettata con l’indice alzato; e allora non ti resta che scrutarli, con fare piuttosto ammaliato in procinto della tua emozionante indicazione... Quando un mio amico mi suggerì il titolo meravigliosamente inconsueto di questo post le circostanze erano imbevute di liquida tumescenza alcolica, e la fioca luce dei viottoli dove eravamo inseriti illuminava le nostre esistenze finalmente ritrovate, non permettendomi, tuttavia, di afferrare bene, di primo acchito, cosa lui, sempre quel mio amico, stesse di preciso pensando; ma colsi distrattamente, in quel suo sguardo dall’euforia spensierata del coniare smanioso ex novo, un rimando simbolico ad altri mondi, mondi tutti suoi soggettivi venuti piuttosto da lontano, e che si rifacevano (sempre quei mondi) ad una cazzutissima espressione che sguazzava nelle sue cervella da peluche sudaticcio col drink in mano incorporato. E allora decisi di re-interpretare quella sua felice espressione come un’entrata in scena memorabile e mi proposi che, da quel momento in poi, avrei dovuto rincorrere quell’obbligo che vedeva suggellare quel nostro incontro-momento, tra quei viottoli di luce giallo fioca, la tipica luce che si rintana in quella dimensione sfumata che appartiene propriamente alla cartella-catalogazione post-aperitivo. La faretra. Che diavolo gli sarà sobbalzato in testa a quel peluche sudaticcio e barbuto in quel nano di secondo spuntato: la faretra. Un astuccio pregiato che contiene lungimiranti frecce di precisione, come quelle che risalgono al tardo medioevo, di cui è rimasta visibile traccia in tante delle sue superstiti, come quella che ha ben pensato di rimanersene conficcata nella sua ombra secolare distinguendosi lassù, in alto, alla luce di un porticato in legno della Bologna dei giorni nostri (solo per inciso: esiste davvero quella freccia, e l’ha fatto intendere chiaramente che non ha nessuna intenzione di smuoversi da lì). Magari quel nesso cerebrale di quel mio amico barbuto e sudaticcio (con un pullover rosso e una valigetta vintage per l’occasione) si rifaceva a dettami ancestrali incuneatisi proprio in quel bizzarro momento in quei suoi peculiari interstizi cognitivi, chissà. Fatto sta che mi ha spinto a dovere a rovistarci in quella faretra delle meraviglie e a rimuginarci parecchio su, circa una possibile connessione con un qualcosa che solo lontanamente poteva assomigliare ad un sentimento. E allora sono arrivato alla conclusione che si tratta di un’espressione grandiosa, pensa un po’ “La faretra dei sentimenti”, quale tessuto immaginifico più azzeccato. A volte il termine “faretra” lo ritrovavo in saggi ultra-specializzati di sociologia-non-inculata-letteralmente-da-nessuno, utilizzata da ricercatori sottopagati e costretti e ricurvi tutti stipati in aule studio davvero piccolissime; e questa gente tramortita dalla vita accademica (che sempre avevano oltretutto desiderato) si ritrovava ad utilizzare quel termine, per darsi, come dire, un minimo di stacco poetico e melodioso da tutta quella caterva di ricerca che erano solititi compiere per baroni stempiati e bastardi, solo pronti a mettere la loro firma sui loro tanto ricercati e appuntati scritti (gli scritti dei ricercatori). Questa momentanea e slanciata poeticità a fronte dello snervo l’ho sempre vista come un tentativo bizzarro e malriuscito di evasione, anche perché quel termine in quei testi sociologici era accostato solitamente alle parole “soluzioni” e “possibilità”, tutti tecnicismi che, comunque, venivano asserviti ad un’unica e sola causa comune: far fare bella figura al – per incrementare la quantità delle pubblicazioni accademiche del – dispotico barone bastardo citato in precedenza (e non si tratta di baroni rampanti; quelli sono fatti di tutt’altra stoffa, almeno per come li intendo io – vedi l’opera troppo incredibilmente fantasiosa, e forse il libro più tremendamente bello, di Italo Calvino “Il barone rampante”). E dunque, diversamente, l’associazione della faretra ai sentimenti mi ha dato come un respiro nuovo, una particella di ossigeno mai respirata prima, una ragione nuova per credere che all’interno di quell’astuccio pregiato possiamo veramente fare incetta delle nostre emozioni e trovarcele in mano dove-meno-te-lo-aspetti: perché le vere emozioni sono quelle che sul serio colpiscono il nostro interlocuotore-soggetto e lo fanno piacevolmente sconquassare di quella veridicità spiazzante che sarà sempre giustificata, perché umanamente e inter-soggetivamente vera.

Ora, non so se sono riuscito realmente a cavarci un ragno dal buco, ma meta-realmente penso di sì. Ecco perché vorrei dedicare queste mie parole a quel peluche del mio amico che, spero, or ora, in questo preciso e assoluto momento, sia tutto intento a leggere fino a qui, proprio fino al ciao Bubu.

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