mercoledì 27 novembre 2013

Si sta bene sui tetti

Accadeva spesso che si dormiva in tre sopra uno stesso letto, in alto, sopra un soppalco che assomigliava più ad una comoda piccionaia che ad altro, ed eravamo felici. Anche un po’ sbronzi a dire il vero, ma questo era solo un inutile dettaglio. Capitava che si faceva tardi, e che la metropolitana era ormai chiusa da un pezzo e noi continuavamo a viverci la nostra euforia collettiva, insieme, noncuranti di quest’altro inutile e sempre incombente dettaglio: l’orario che segnava l’ultimo scocco di tempo utile per poter prendere l’ultimo treno che ci avrebbe condotto sotto il nostro tetto di appartamento in affitto. Ma non importava; la nostra casa era là, dove già eravamo, e dunque il resto passava in secondo piano, senza pensarci su. I dettagli esterni non ci interessavano più di tanto: erano i nostri dettagli, quelli che creavamo insieme, che ci importavano di più. Così come quelle riunioni in case così distanti l’una dall’altra, ma così vicine nello spirito del momento, un momento magico, capitato per delle circostante perfette che decisero di riunirci tutti lì, e di organizzare una grande festa umana. Sì, Umana. Quale espressione più abusata, bistrattata, ricca di significati ma mai veramente vissuta. In quei mesi invece, tutto sembrava possibile, e tutti, tutti insieme e nessuno escluso, la vivemmo sul serio quella sensazione: l’umana voglia di scoprirci, di confrontarci, di incazzarci, di sollevarci e di supportarci l’un l’altro, sgomitando nel sudaticcio brodo esistenziale. Fu un’esperienza unica, di quelle che possono capitarti poche volte nella vita e che sicuramente ti lasceranno il segno per molto e molto tempo, e che, tuttavia, fanno presto a concludersi. Insieme eravamo in grado di creare degli aloni di significato persistenti, di quelli che non riesci a cancellare neppure se ti ci metti d’impegno con gomito di panno. E quegli aloni erano formati dai cerchi concentrici delle diversità di ognuno, poiché solo dal riconoscimento delle differenze che si può scoprire il prisma delle ricchezze che prendono forma, e vanno espandendosi, in una qualità proteiforme che risulta inaspettata e rimane longeva, poiché semplicemente vera. Lo stare insieme era un rituale di riconoscimento reciproco, un volgere lo sguardo all’altro ascoltandolo in tutta la sua complementarietà che metteva a disposizione del gruppo: eravamo come dei tasselli di un grande puzzle, un puzzle che ogni giorno di più cresceva e prendeva forma, e si arricchiva di varianti, di variabili preziose, di indicatori di noi stessi: di forme tutte nostre che si incastravano nella simmetria consapevole e matura. Il riconoscimento di noi stessi, infatti, passa necessariamente attraverso il riconoscimento altrui, e non c’è verità più indiscutibile di questa. E allora uno si arrampicava sui tetti e invitava gli altri a contemplare esterrefatto il cielo stellato, quel cielo che sorprendentemente prendeva aria e si liberava dalla sporcizia accumulata durante tutto il giorno. E quelle luci distanti di stelle lampeggiavano ad intermittenza, scandendo un battito di polso che era sincronizzato sui nostri sentimenti di amicizia, che si consolidava e che recitava a memoria il dettato di un copione universale. E tutti sbirciavamo quelle pulsazioni, sorridendo, confabulando, e spalleggiandoci a vicenda. E allora i nostri discorsi prendevano le loro traiettorie biforcute e, come labirinti di gioia tra arbusti alti e bassi, ci permettevano di esplorare le nostre più intime essenze. Ricordo tali momenti con una nostalgia pura, la stessa nostalgia che caratterizzò tutti quanti nel momento in cui prendemmo coscienza che tutto ciò stava volgendo irrimediabilmente al termine. Cercai a mio modo di fissare quei momenti, di renderli eterni, uno ad uno, su dei foglietti volanti presi alla rinfusa da una scrivania scompigliata, e scrissi. Scrissi tanti pensieri teneri e di congedo per quelle persone che ancora dormivano su, su quella dolce piccionaia, mentre io afferravo le mie cose con delicatezza per non disturbare il loro meritato sonno, e andavo, per prendere la strada del mio nuovo giorno, lontano da loro con gli occhi ma mai così lontano da quello stesso nostro spirito, dalla comunione di quei momenti che sempre resteranno scolpiti da qualche parte, sì, forse proprio lì, su quel puzzle raffigurante buffi e autentici personaggi che trovarono, in quei mesi trascorsi assieme, semplicemente il coraggio di aprirsi ad una contingenza potenzialmente felice, senza alcun timore, poiché solo lì sarebbero stati in grado di rendere esperienziale la loro interdipendente libertà espressiva, per sempre e nuovamente; allo stesso modo in cui si fa ripartire una melodia che ci rimane impressa e da cui, non c’è scampo, non riusciremo mai e poi mia propriamente a distaccarcene, anche se per un motivo lontano da noi ci prendessimo egoisticamente la briga di volerlo fare.

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