lunedì 30 settembre 2013

Chi la vuole l’ha riavuta

Il postmoderno è un’epoca abbastanza strana, amorfa. Tutto ciò che si osserva, si vive e si documenta mentalmente ha il sapore di una compressione spazio-temporale rivoluzionaria, che disegna gli assetti, muove le logiche e conduce qualsiasi cosa all’obsolescenza programmata. Così, nel vortice societario degli eventi attuali, l’opulenza sgargiante si affianca alla povertà più degradante, e in tutto ciò vige una compiacenza rassegnata, una reazione inattiva che accentua le disparità. Questi radicalismi emergono e convivono, non sotto uno stesso tetto ma sempre a debita distanza. Una distanza ricercata, voluta e artificialmente inventata. I loro confini solitamente sono invalicabili, inamovibili, ma la finzione imperante che è alla base dei circuiti relazionali odierni opera una traslazione verso una spettacolarizzazione accessibile, fruibile da tutti. Sì, quasi proprio da tutti. E questo comporta una formattazione delle menti, menti che si orientano all’unisono, membra di pensieri che si rifanno a stampe di modelli pre-confenzionati, in cui viene intravista, pienamente realizzata, la propria conformazione biografica individuale. Benché vi sia stato un passo significativo verso le diverse concezioni e pratiche della partecipazione – e cioè un vero e proprio coinvolgimento generalizzato che vede collezioni di individui dire sempre la propria in qualsiasi contesto – raramente tale fervore pensante e attivo si traduce in una comunicazione significativa tra i due estremi, che restano lontani e sempre separati dalle diverse sfumature che si alimentano nel loro mezzo. E quindi il popolino famelico continua a nutrirsi di illusioni, perché quest’ultime sono la vera anticamera della speranza che, tramite il suo piacevole veleno, permette la concretizzazione – in versione digitale – di vite altre a parecchi km di distanza. Allora, dato che le distanze sono enormi e spesso impraticabili, e molto spesso ci si vede infrangere quei nostri sogni come cocci frantumati caduti dal cielo, si tende a vivere l’odierno nel locale, nel nostro contesto più prossimo, e si cercano tutti gli espedienti necessari per far rivivere le più radicate identità nella continua lotta con le invasioni globali. Pensa globalmente e agisci localmente. Questo è uno dei tanti slogan anni ’70 che è stato riesumato nell’ambito della ri-semantizzazione forzata del vintage. Perché forzata? perché come mi disse una volta un mio compagno di eterne passeggiate, nuovi significati applicati a vecchi modelli decrepiti fanno fatica a conquistarsi una propria legittimità, una loro ragion d’essere, e quindi è sostanzialmente difficile conferire significati compiuti ad un’ipotetica svolta societaria, soprattutto quando quest’ultima non è altro che un’effimera moda schizofrenica e fallita. E quindi tra tutti questi discorsi intrecciati, legati da un filo comune nascosto ma incastrato in tutte le sue diverse dimensioni, ci si presenta al solito bar per la solita sospensione-dalla-quotidianità, per i soliti discorsi sul tempo e sui tempi che corrono e sfuggono, e tutto quanto si riduce ad una richiesta perenne di un’eterna bevuta, che fa parlare, e che permette la momentanea comunicazione nel turpiloquio infernale di altre voci: una richiesta sacrosanta che non è mai stata effettivamente inevasa. Perché chi veramente la vuole sempre l’ha cercata e infine riavuta la vita, che sia stata una chiacchierata creativa e seducente, o una bevuta sospensoria di magia, o ancora un incontro ricercato alle pendici di un tramonto e perduto nei meandri di foreste cerebrali; come se fosse tutto ciò, tutto questo, l’unica vera situazione mai capitata da tutta una vita.

Sangu meu #2

(… segue da parte #1)

E dunque mi chiederai giustamente cosa avvenne. Ebbene, avvenne che in qualche modo tutto prese il segno di una scena veramente pirotecnica, davvero balorda da tutti i punti di vista che proprio non te lo aspetti, sul serio, perché lui che, come ho già detto, era sempre stato abituato ad esternare tutto quanto, ogni suo singolo sentimento programmatore ed interiore, rimase, oltre che attonito e impacciato e fermo e impalato lì come un lampione spento, completamente imbalsamato in quel suo muto silenzio che, tramite la sua assordante potenza (del muto silenzio), riuscì addirittura ad infrangere di un pianto sordo i suoi occhi vitrei, increduli, e mentre lui se ne stava lì forse balbettando mentalmente qualcosa tra sé e sé, o forse pensando davvero al nulla che avrebbe caratterizzato l’eternità da quella visione in avanti, lei fu presa invece da un senso di panico assoluto, travolgente e raccapricciante se pensi all’intensità dell’imbarazzo sessuale concentrato in quella stanza, che riuscì (il panico di lei) in un solo singolo istante a cancellare completamente ogni singolo momento armonioso e di dedizione assoluta che lei aveva riservato solo ed esclusivamente a lui in tutti questi anni. Com’è facile supporre, lei era completamente nuda nella sua bellezza, ma il fatto sorprendente è che si vergognava febbrilmente di quella sua nudità peccaminosa, sia con lui che con l’amante, come se entrambi vestissero i panni di due estranei piombati all’improvviso nella sua camera, e avessero voluto oltraggiare la sua inattaccabile intimità alle prime luci del mattino. E non puoi immaginare cosa fece! Invece di sistemarsi per benino sul letto e di tirare a sé le lenzuola come segno di protezione davanti all’evidenza della catastrofe, e invece di proporre al compagno da una vita un’inutile scusante, o se vogliamo anche una specie di motivazione che non stava né in cielo né in terra – visto il palese epilogo drammatico della vicenda clandestina – decise, invece, di catapultarsi con un balzo felino nel suo armadio rigonfio di indumenti (l’armadio sì: era semiaperto) e si blindò al suo interno in cerca di qualche vestito da indossare e ci rimase, lì dentro, al buio e immersa nel profumo dei suoi vestiti, per parecchi minuti buoni. E l’amante, lecitamente mi chiederai, che cosa ha fatto? Come si è comportato a seguito del suo elevato gradiente d’imbarazzo sopraggiunto senza preavviso? Posso solo dirti che il ruolo dell’amante è passato piuttosto inosservato, sì, decisamente, e sai perché? Perché come in tutte queste storie in cui l’importanza di molti anni passati insieme viene travolta e cestinata da un apparente indizio che passa inosservato, ma che nella sua fugacità nasconde un cesto bello pieno di problematiche da sbucciare, anche nella versione ufficiale di questa storia l’amante ha rappresentato quel battito di farfalla apparentemente innocuo che ha stravolto, in verità, l’intero piano esistenziale di due persone che da tempo condividevano quella stessa esistenza, e, come una farfalla ben colorita[1], ha preso il largo svolazzando, cercando al contempo (ragionevolmente sempre l’amante, non la farfalla, quindi fuor di metafora) di raccogliere con sé tutti gli indumenti necessari[2] per coprirsi degnamente, almeno per il breve percorso che lo avrebbe condotto alla sua macchina parcheggiata proprio lì, sotto il loro appartamento, appena lucidata in tutto il suo splendore, e che si procurava già da tempo (la macchina splendente) una nomea degna di questo nome tra le curiosità fameliche di vicini piuttosto indiscreti. E dunque il nostro amante birichino e abbronzato lasciò quella scena con un sorrisino di circostanza e se la diede a gambe filate, letteralmente, come un gelido soffio che spegne le candeline di un nuovo drammatico inizio, e, sgattaiolando con i suoi indumenti tra le gambe, uscì dall’appartamento raggiungendo la sua macchina splendente in tutta fretta, parcheggiata sempre sotto l’appartamento, in bella mostra, e quindi precipitandosi alla guida accese immediatamente il motore e sfrecciò come non mai, e infine, dopo la goffa fuga rocambolesca, scomparve in un miasma invisibile di rumori a piroetta. Dopotutto, come dargli torto: perché doveva alimentare ancor di più quel concentrato di imbarazzo che, a momenti, mancava poco, si sarebbe trasformato sicuramente – almeno in una situazione umanamente normale – in un cataclisma malsano di parolacce, bestemmie, insulti, colpe attribuite da ambo le parti e chi ne ha più ne metta? Ma tornando alla camera da letto scopriremo che la faccenda non è andata esattamente così... Mi chiedi perché? Mi sembra anche giusto. (continua...)

[1] L’amante in oggetto figurava nei racconti ufficiali come un bell’imbusto piuttosto prestante; benché apparentemente innocuo nella sua abbronzatura stagionata – vista la località di mare dove e il mese post-vacanze in cui è accaduto il fattaccio – in quel concentrato di situazione del tipo cosa-si-fa-in-questi-casi? (sempre l’amante) non causò di sicuro più danni di quelli che già aveva causato andando a letto soventemente con la nostra lei. Certo, visto il soggetto in questione, a prima impatto, non poteva assolutamente essere paragonato ad una leggiadra e graziosa farfalla, per carità; ma i modi in cui se l’è svignata, diciamo così, in silenzio e lasciando uno strascico di vestiti dietro di sé non-indifferente, ha lasciato presagire una similitudine, seppur forzata, tra le sue gestualità, le sue movenze che impercettibilmente fendevano un’aria piuttosto pesante, e l’atto dello svolazzare indifferente di una comunissima farfalla – benché sgargiante e colorata – che deposita, ovunque si poggi, la famosissima polvere delle sue ali, né più né meno.
[2] Molto probabilmente anche polverosi (gli indumenti) – visto che erano stati abbandonati, per tutta la notte, su un pavimento che non si spolverava da tempo (e questo, dunque, ci fa forse pensare che i nostri piccioncini clandestini se la stavano spassando da più e più giorni, mentre il nostro lui era in giro per il mondo a sgobbare di fatica nella giungla di affari da tachicardia; quindi, molto probabilmente, è lecito pensare che la nostra lei è stata impegnata in tutt’altre faccende passionali piuttosto che dedicarsi armoniosamente all’immancabile decoro domestico che, in questo caso, molto plausibilmente è stato mancato in pieno).

giovedì 26 settembre 2013

Ingegneria sociale, cara Prof.

Chissà quante volte vi è successo di stare lì, mezzo sbadigliando e mezzo finto/a-attento/a, a sorbirvi una litania di questo tipo: “Le facoltà umanistiche non servono a nulla! E che fai dopo, me lo spieghi? Il letterato? Il filosofo? Come pensi di mangiare, eh? Con due chiacchiere da prestigiatore che, forse, si spera, almeno quello, riuscirai a mettere insieme dopo la laurea?... Caro alunno, in una prospettiva di lavoro futura, è consigliabile scegliere sempre le materie scientifiche, e non ti sbagli: quelle sì che sono ricercate sul mercato del lavoro, ti danno sicuramente uno sbocco, e lo dicono, pensa un po’, anche le molte proiezioni statistiche che si spendono a iosa sul tema”…

Ora, non so se “consigli” di questo tipo vengano ancora inculcati nelle scuole a giovani menti inesperte e impaurite, ingabbiate nei labirinti della scelta per un futuro che, anche se ci fosse, sarà sicuramente buio, funambolico e burrascoso. Ma se fosse davvero ancora così verrebbe da riderci un po’ sopra credo, dato che, anche se uno studente varcasse la soglia dell’università e scegliesse l’una o l’altra via, le cose non cambierebbero poi così molto: il lavoro comunque non c’è da nessuna parte, si è letteralmente disperso, prosciugato sin dall’indotto. Al di là dei soliti discorsi molto tristi e rompipalle sulla crisi, e sul lavoro che non c’è, e sulle difficoltà che si trovano per avere anche una minima risposta dopo aver presentato una carta straccia di CV che ha la presuntuosa pretesa di riassumere e di riassumerti per quello che sei diventato e per tutto ciò che hai collezionato sino a lì, beh, passiamo ad altro. Eh sì, perché è meglio guardare altrove e bere tanta birra o svariati cuba libre (come vorrebbero mie care conoscenze) e fottersene altamente, giusto? Dato che ormai si è palesemente rotta quel tipo di solidarietà che vede come protagonista l’incontro-dialogo tra le generazioni. Il cosiddetto “patto generazionale”; sì, quello lì. E dunque, a questo punto: Responsabilità. Responsabilità. Responsabilità. Quante volte al giorno sentiamo o leggiamo questa parola? Dio santo, non se ne può più! Ora si ricordano? Che ci hanno rubato praticamente ogni barlume di futuro e che si sono presi letteralmente tutto di quel poco, caduco, che era rimasto? Vergogna. Dopo una sbronza colossale si sono ritrovati nel post-festa con bottiglie pavimentate e rotte e ovunque e, con un gran mal di testa, continuano a brontolare: Responsabilità. Poveri, davvero. Quello che volevo dire però è che, dopotutto, loro hanno fatto il loro e hanno attinto ogni tipo di risorsa dai rubinetti nazionali, e su questo non ci piove. Il problema però non è solo in casa nostra, il problema è anche europeo e anche e soprattutto globale, assieme: purtroppo dei casini che hanno combinato loro, non solo devono risponderne ai loro figli, ma anche ai figli degli investitori esteri che, diciamolo, sono stati un tantino più sobri dei nostri vecchi – sì, si sono sballati anche loro, ma in maniera più consapevole, ecco, come dire: in modo decisamente più responsabile!! Ed ecco che si sono risvegliati, sempre ciondolanti e puzzosi di festini alcolici, accompagnati per le strade della città da guardie del corpo impeccabili dentro macchine lucenti e blu. Sì, proprio così: blu-notte-non-sognarti-di-cacarmi-neppure-di-striscio. E si sono accorti, non si sa come, che devono rispondere ai proverbiali dettami europei, che vedono come protagonista indiscusso il delicatissimo bilanciamento tra sviluppo economico e coesione sociale; sviluppo e coesione sociale costituiscono le parole d’ordine delle politiche europee impegnate a trovare un punto di equilibrio tra le due prospettive, a combinare la competizione con l’equità e l’economia con la società. Operazione non semplice da realizzarsi in presenza di un diffuso orientamento politico-economico (vedi le materie scientifiche sono più fighe) che identifica lo sviluppo con la crescita del Prodotto Interno Lordo e subordina la produzione di educazione e socialità – che è creazione di organizzazione sociale – alle ragioni prioritarie dello sviluppo economico (Vedi "Materie umanistiche? Cosa?").  Ed ecco che arriviamo all’inizio. Se un ingegnere deve investire la propria istruzione e il suo lavoro sugli improrogabili criteri dell’efficienza e dell’efficacia, e dunque su un mercato del lavoro che pompa e spinge e adora unicamente lo sviluppo economico delle imprese, un tipo che si occupa di “materie umanistiche” si ritrova, per forza di cose, a fare da assistente sociale a questi tipi ultra-stressati; perché questi tipi umanisti, guarda caso, hanno studiato per questo tipo di cosa quà. Ma allora la domanda è: si vive per lavorare? O si lavora per vivere? This is the problem. Mi sa che, oggigiorno, l’americanizzazione ci ha investiti tutti, senza distinzioni, e siamo diventati burattini-consumatori del primo stile vita che è stato appena pronunciato:vivere-solo-per-lavorare(-e-consumare-e-consumare-e-consumare). Quindi cara professoressa rompicoglioni, sa cosa le dico? Bilanciamento. Bilanciamento. Bilanciamento. Lei non ascolta l’Europa? Io sì: balance. E le consiglio una sua maggiore pianificazione mentale verso un approccio educativo che abbia a cuore la mente impaurita (per quelli che si preoccupano) dei giovani che ha sotto la sua ala, affinché (il suo approccio educativo) sia rivolto più al lavorare per vivere meglio e non viceversa: vivere per lavorare sempre peggio, o, meglio ancora, vivere per non lavorare affatto. Dia una motivazione “degna di nota”, su?

mercoledì 25 settembre 2013

Sangu meu #1

Fu colta in flagrante. L’orologio multifunzione sul comodino laccato di fresco segnava le 6.52 di un tiepido mattino di settembre, quando accadde. Lei era a letto, con l’amante di sempre, con l’amante che, ormai, non sapeva più se essere solo amante o qualcosa di più. Un click clack improvviso di chiavi dietro la porta si intrufolò nell’atmosfera furtiva e frettolosa che caratterizzava quella loro storia nascosta, clandestina, fatta dei soliti palpitanti minuti fuggitivi afferrati per un orecchio e scaraventati a letto con passione, apparentemente lontani (i minuti fuggitivi) dai riflettori pubblici delle loro anime consensuali. Il tintinnio delle chiavi non era altro che il suono dell’ingresso inaspettato del compagno di lei da una vita, che rientrava da un lungo viaggio di lavoro prima del previsto, senza preavviso, forse per una sorpresa che, per una volta, lui si era azzardato di fare, giusto così, per saggiarne l’effetto che fa, dato che era sempre stato un tipo abbastanza programmatico e non riusciva assolutamente, e per nessuna ragione, a tenersi qualcosa per sé, neanche un piccolo segreto, nulla di nulla, macché scherzi? Perché aveva troppo bisogno di esternare tutto quanto, e proprio non ce la faceva a trattenere tutto quel fervore programmatico dentro di sé, e allora lo esternava al primo interlocutore che gli capitava a tiro (tormentandolo il più delle volte), e quando tutto ciò non era proprio possibile – poiché immerso nella sua infrangibile solitudine – si limitava prepotentemente a scarabocchiarlo (il fervore programmatico) su un post-it volante e appiccicoso su un lato, quel lato in bella vista che gli ricordava perennemente che c’era qualcosa da fare, quel lato sicuro di sé che riusciva, nonostante la velocità vorticosa del suo mondo, a dare senso al flusso indistinto degli eventi, sempre. Nel frangente però di questa immotivata e sbalorditiva sorpresa, quasi palpitante per una nuova esperienza non solo sua ma pensata appositamente per lei, si diresse direttamente verso la camera da letto, senza pensarci, perché sapeva che a quell’ora l’avrebbe trovata sicuramente nel suo bozzolo di lenzuola dolcemente addormentata e, ai suoi pacati rumori, lei lo avrebbe come sempre accolto aprendo i suoi occhi innamorati, solo per lui, quegli occhi teneri che si aprono e si chiudono ad intermittenza di soffio, perché attendono semplicemente che le loro invitanti pause di chiusura siano intervallate dai freschi baci di lui: stampe di labbra familiari e voluttuose di cui non poteva più, lei, assolutamente farne a meno. Almeno questo era quello che pensava lui, nella sua convinta percezione che aveva maturato nel corso degli anni passati assieme a lei, prima di quel suo fatidico tragitto in quel lungo corridoio che lo stava conducendo all’ultima porta sulla sinistra, alla sua ultima visione immacolata della loro consueta camera da letto, che si trovava subito dopo i quadri appesi alla parete che contenevano alcune felici fotografie che li ritraevano insieme, dappertutto, raggianti buffi e sorridenti nei loro viaggi di piacere, persi e innamorati per il vasto mondo. Svoltò quindi sulla sinistra, la porta era semiaperta; dei movimenti loquaci si dimenavano sul letto formando lente e scoscese colline di lenzuola, e non si trattava certo di folate di vento improvvise sopraggiunte da una finestra anche questa semiaperta, no, assolutamente, perché la finestra era ben chiusa, anche se faceva trapelare dalle persiane i primi raggi di un’alba piuttosto infelice e rocambolesca, per altri versi piuttosto immobile (sempre l’alba), come per lo scatto di un’immagine che per sempre si sarebbe stampata nella memoria di lui, irrimediabilmente, un’immagine che, prima di quel momento, sarebbe stata impensabile concepirla, almeno per lui, ma non per lei a questo punto, visto che la storia clandestina stava prendendo una piega abbastanza durevole e sdrucciolevole e oltraggiosa, e non so minimamente come lei facesse a nascondergli tutto quanto, davvero, dietro quell’apparente armoniosità di tutti i giorni, orchestrati con un tale senso di devozione per lui da catturare in ogni singolo istante passato insieme un’eternità amorosa che era più che strameritata, e di questo puoi starne certo/a. (continua parte #2...)

domenica 22 settembre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 2)

Ero riuscito a trovare una sistemazione di fortuna. Una signora ultra-gentile mi diede il benvenuto nel suo condominio di periferia, in una camera singola, su, tra quelle uni-personali all’ultimo piano che, un tempo – mi informarono come una curiosità da sapere simpaticamente – erano destinate al personale di servizio. Un bagno che assomigliava più ad un ripostiglio senza finestra era collocato all’esterno di quella camera, proprio a due passi da lì e la sera, sistematicamente, mi ritrovavo a vivere ciondolante tra quei due spazi: assaporavo la mia loquace solitudine come mai era successo prima. In quel frangente momentaneo della mia vita cercavo disperatamente casa, a Bruxelles, e mi trovavo, come già detto, in un quartiere piuttosto ai margini della città, dove si poteva ammirare una struttura maestosa costruita dagli americani ai tempi della guerra fredda: un atomo di ferro gigantesco che, col passare degli anni, divenne il simbolo turistico indiscusso di tutta la città. Passavano i giorni, e il mio peso-forma mi abbandonava lentamente: tutte le riserve gastronomiche pugliesi che avevo accumulato durante l’estate mi dicevano Ciao e inesorabilmente, senza accorgermene, riducevo ogni giorno i frammenti rimasti di quel personale cordone ombelicale reciso ormai da tempo. Quelle mattine le ricordo nitidamente, come se fosse ieri, e lo scorrere del cursore sul PC dettava i ritmi affannosi di quelle giornate piene di indirizzi spalmati per la città; di numeri di telefono dagli interlocutori sempre a sorpresa (soprattutto dal punto di vista linguistico); e di immagini di appartamenti diversi tra loro ma che poi finivano per assomigliarsi tutti nel loro ultimo intento, dato che la mia cogente aspirazione del momento le racchiudeva tutte sotto lo stesso e unico ombrello: una qualsiasi collocazione in una nuova città, un posto qualsiasi, per una nuova e diversa e trepidante avventura. Le mattinate passavano veloci, tra visite in veri e propri tuguri o, diversamente, in carine casette in stile confetto di quelle che trovi isolate nei loro recinti verdi di prati, come nei sobborghi americani. Il cielo di settembre, stranamente, era molto alto e terso, e il sole padroneggiava sovrano. Le tipiche nuvole grigie piane e basse di quella città non facevano ancora capolino alle sensazioni costantemente bagnate che avrebbero caratterizzato i mesi a venire, per la maggior parte piovosi ma accessoriati di una specie tramonti che, a volte, davvero, ti sorprendevano togliendoti il fiato. Dopo le diverse mattinate passate a vivisezionare la città in un lungo e in largo, sottoterra in una lugubre metropolitana o in superficie tra stradine e stradoni tutti ancora da scoprire, passò un’intera settimana e, ancora, non avevo trovato una mia collocazione nel mondo. Così la sera, dopo cena, mi rifugiavo in quella camera su in alto, lontano da tutto e da tutti e amavo contemplare le luci della città da quell’esile finestra, e ascoltarne il tiepido fragore di suono che emettevano timidamente: luci intermittenti di caselle di vita in via di riposo, pronte a sfrecciare nuovamente il giorno dopo per riprendere il loro ritmo consueto. Pensavo alle mie possibili combinazioni future, chi sarei diventato in quel posto tanto nuovo quanto ancora lontano dalla mia carica esperienziale di vita. In qualche modo però anch’io trovai il mio ritmo. Dopo alcuni giorni passati sempre camminando i miei occhi ricevevano di riflesso un lustro completamente nuovo, di quel genere che possono donarti solamente i nuovi luoghi visitati e le disparate curiosità che custodiscono segretamente. E così, tra quelle curiosità, vedevo sbandieranti ombrelloni da pubblicità contraddistinti da nomi di birra improbabili e, sotto la loro ala protettiva, più volte trovai conforto e riparo: delle vere e proprie dolci pause riflessive che mi portarono a conoscere gente di tutti tipi e a scoprire i più sconosciuti bar degli angoli più inculati della città. Era un tardo pomeriggio, orario aperitivo, e capitai in un bar molto puzzoso di formaggio con stecchini incorporati, i quali richiamavano, suadenti, i diversi calici di birra armati al loro fianco. Beccai un signore, sulla sessantina, seduto solo ad un tavolo, mentre gli altri signori/e sparsi/e per il locale ballavano ubriachi e lenti al suono di melodie americane. Il tipo, non so per quale motivo, si accorse che ero italiano (strano, dato che il mio aspetto non è proprio un indice impeccabile di riconoscimento dell’italianità) e, con un italiano sgangherato di miniera, mi invitò a sedere con lui. Fu una bella chiacchierata. Mi raccontava la mia situazione del momento con gli occhi del suo passato e cercava di darmi più suggerimenti che poteva, delle vere e proprie lezioni di vita gratis dettate dall’alcol, tutte incentrate su quella città che mi stava pian piano accogliendo. Tra le scanalature dorate di bicchieri che lentamente venivano vuotati ogni tanto volgeva lo sguardo alla vetrina del locale che dava sulla strada battuta di gente, e, tra le tante cose che mi disse in maniera incondizionata, me ne rimase impressa una in particolare, per sempre; mi osservò e mi disse: "Di una sola cosa sono sicuro di questa vita; che il sole, fino a quando splenderà, qualunque cosa accada, sorge e sorgerà sempre per tutti, senza distinzioni."    

sabato 21 settembre 2013

No Sense

Distratto come ero dalle ripercussioni informative, tentavo a stento di concentrarmi assiduamente su immagini precoci, punitive, quasi selvagge, che descrivevano con ansia scenari soliti di una realtà che sfugge perché ormai liquida. Distrarsi o concentrarsi non fa alcuna differenza. Queste due modalità comportamentali di approccio alla realtà sembrano dispiegarsi su di un continuum lineare, anonimo, privo di due poli contrapposti. Per lo più sembrano identificarsi come immagini reciproche che si scambiano visioni parentali che sembrano aver perso ogni identità e ragione. La distrazione da un lato sogna, si incanta, descrive senza affanno, si culla su pause all’apparenza vuote, fissa un punto, lo smarrisce e lo ritrova senza un perché dietro un angolo più nitido di prima. La concentrazione, invece, prende per mano la distrazione e la subentra, con alture innevate e solide, pronte a sciogliersi al cospetto di un timido raggio solare ormai spento. Nel tentativo di focalizzarsi severamente su concetti per lo più impegnati, si logora in quello stesso processo che la conduce ad una presunta concretizzazione di un pensiero compiuto e mica tanto poi credibile. Non c’è nulla da fare: il confine tra le due è piuttosto labile, quasi invisibile, una commistione di incastri invisibili e perfettamente lubrificati che si ramificano in biforcazioni duplicanti, confondendosi in una complessità brusca e alle volte assordante, ma solo per i più pignoli. Una realtà liquida, per l’appunto, che si dipana letteralmente senza controllo, che permette, solo a tratti, la presenza di concentrazioni perfettamente ideali e di distrazioni inevitabilmente disinteressate. La compresenza di entrambe le categorie, d’altronde, permette un equilibrio fisiologico di un atteggiamento dalla parvenza normale che elude le univoche direzioni, spesso patologiche, di una cecità cinica che oltraggia gli stessi limiti della propria visibilità interna. Condensando il tutto in un’ampolla di vetro si potrebbe osservare lo scenario in maniera disinteressata, dando fiato a giudizi superflui e scontati su un aspetto facilmente riconoscibile e del tutto normale: la presenza di un bilanciamento lineare e circolare di concentrazione e distrazione che, susseguendosi in continui rimandi vicendevoli, danno atto al dispiegamento della comune esistenza. Fin qui tutto normale: comuni esistenze che prendono vigore da situazione altalenanti. Il problema di fondo è che le due categorie sopra viste assumono dei caratteri e dei toni diversi, legati a stati d’animo variegati o a contesti inevitabilmente divergenti che permettono, alle volte, una fenomenologia dell’umano difficile da afferrare e da comprendere. Questo comporta difficili analisi diagnostiche su qualsiasi comportamento, che potrà apparire presente e dunque scontato in un intento precisato e voluto, ma anche presente-assente, perché cavalca dinamiche divergenti e innovative rispetto ad una intenzionalità di tipo preordinato.

mercoledì 18 settembre 2013

Storytelling Pirata

Ci stanno rubando l’immaginario. È un vero e proprio saccheggio che non conosce quartiere. Il blocco che la nostra immaginazione sta subendo è talmente sofisticato e pensato e applicato fin nei minimi dettagli che non riusciamo a renderci minimamente conto di cosa sta avvenendo e, perciò, per noi, resta sempre tutto uguale. E invece no. Quando accendiamo la tv, per esempio, inizia la trafila appassionata e “coinvolgente” delle storie, e scopriamo, molto spesso disinteressati (ma la nostra mente immagazzina lo stesso), come lo sgrassatore universale “Cif”permette a Cenerentola di arrivare prima al ballo; di come Banderas ci racconta i suoi metodi così famigliari e genuini da pasticciere dei bei tempi andati immerso in un “mondo buono”; di come, tutto ad un tratto, nell’ultimo spot dell’Enel Energia siamo divenuti, così, dal nulla, tutti quanti guerrieri di ogni e per ogni cosa, e ci viene anche chiesto, per giunta, di raccontare la nostra di storia, e tutto ciò con una voce che miscela premura e il piede di guerra al contempo... E fateci caso d’ora in avanti, l’elenco potrebbe benissimo continuare.
Stiamo vivendo quella che è stata definita la “narrative turn”, la svolta narrativa. Il libro di un intellettuale francese con i contro-cazzi, un certo Christian Salmon (un tipo che ha fondato nel 1993, con la collaborazione di più di trecento intellettuali provenienti da tutto il mondo, il Parlamento internazionale degli scrittori) questo personaggio, dicevo, ci mette in guardia con una lucidità davvero disarmante in questo suo libro gradevole e dall’immediata lettura: “Storytelling – La fabbrica delle storie”. Che cos’è lo Storytelling? Non è sicuramente una pratica nuova, no, di sicuro, dato che stiamo parlando dell’arte di raccontare storie, che è nata quasi in contemporanea con la comparsa dell’uomo sulla terra e ha costituito un importante strumento di condivisione dei valori sociali. Bene. Di quest’arte se ne stanno impadronendo in molti ai “piani alti”, e tutto è incominciato all’incirca dalla metà degli anni novanta, quando la visibilità del brand dei diversi prodotti venduti sul mercato ha cominciato a vacillare e a non attecchire più come una volta sulle “sensibilità” del consumatore confuso. Diversamente, “lo scopo del marketing narrativo non è più semplicemente convincere il consumatore a comprare il prodotto, ma anche immergerlo in un universo narrativo, coinvolgerlo in una storia credibile. Non si tratta più di sedurre o di convincere, ma di produrre un effetto di credenza. Non di stimolare la domanda, ma di offrire un racconto di vita che propone dei modelli di comportamento integrati, i quali comprendono certi atti di acquisto, attraverso veri e propri ingranaggi narrativi”… “Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto dell’esperienza accumulata. Lo storytelling percorre il cammino inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca gli scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e di stories. Non racconta l’esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione. Lontano da questi «percorsi di riconoscimento», lo storytelling costruisce ingranaggi narrativi seguendo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a determinati standard”… Salmon ci racconta tutto in questi termini, e non finisce qui... Pensate questo epocale stravolgimento e applicatelo ai settori più oscuri dove viene applicato il potere di controllo sugli individui: l’ambiente di lavoro, la politica, il “cinema della guerra”, e così via... Dunque se quando siete a lavoro entra il vostro capo in ufficio e non comincia a parlarvi di statistiche, dati, cifre ma diversamente attacca a raccontarvi una storiella per “stimolarvi”, per “incoraggiarvi” o per “adeguarvi al perpetuo e vitale cambiamento necessario all’azienda”, non meravigliatevi: è tutto “normale”. Per non parlare poi della storie raccontate nelle campagne elettorali cosiddette “permanenti”, che tanto affascinano la gente che ne parlano in maniera spropositata ovunque si trovino, diventando in questo modo dei storyteller a tutti gli effetti, dei cantastorie… Insomma vi è una proliferazione inquietante di storie per ogni cosa, avverte Salmon, tanto da affascinarci e sedurci ma, alla lunga, renderci davvero rinsecchiti di storie propriamente nostre... Addirittura viene utilizzato nel linguaggio di strada ora che ci penso, quando in ambienti “particolari” si dice che quella partita “è proprio una bella storia zio, vai tranquillo...” Insomma, incominciate a fare anche voi questo giochino e vi renderete conto, come me, che è piuttosto difficile uscirne: le storie artificiali sono ovunque, e, tramite esse vogliono controllarci indiscriminatamente... “Per quale ragione si chiede ai lavoratori di un’impresa di rompere il silenzio [e quindi gli si chiede, diversamente, di raccontare la propria storia], dopo averglielo imposto per tanto tempo? Come spiegare loro che quello che fino ad allora era considerato una prova di obbedienza e di disciplina è diventato un freno al cambiamento e all’innovazione? Si tratta forse della promessa di una nuova democrazia sociale?” Macché... Io, da parte mia, apro un vero libro, dove c’è una vera storia in comunione con un’altra mente, convinto di quel suo genuino modo di comunicare solamente, solo con me, e non per controllarmi, ma per condividere, spargere l’immenso sapere... Voi fate quello che credete sia giusto per voi: vedetevi un vero film, osservate un quadro mozzafiato, qualsiasi altra sincera e appassionata storia, qualsiasi... 

sabato 14 settembre 2013

Conosco i miei polli

“La realtà non ci influenza per quello che effettivamente è ma per quello che noi riteniamo essa sia. Per questo motivo non è altro che una costruzione puramente soggettiva che poi ci obbliga a fare i conti con il modo in cui l’abbiamo costruita e ce la siamo imposta. Quindi in ultimo (la realtà che pensiamo sia oggettivamente immacolata e quindi uguale per tutti) costituisce sempre l’esito di un processo di attivazione mediante il quale l’individuo assegna senso e significato agli eventi che lo circondano e dà loro un ordine costruendo specifiche mappe cognitive.
Detto questo, esistono molti attori birbantelli in questa giungla chiamata vita che possono avere un interesse spasmodico a far prevalere determinate categorie di attivazione, e quindi possono agire in modo da influenzare consapevolmente la costruzione delle mappe cognitive altrui. La realtà che si impone è sempre e comunque arbitraria, ma da una sua particolare costruzione questi cattivoni di attori possono trarre vantaggi che altrimenti non otterrebbero.
Quando l’intrusione da parte di un soggetto A nelle mappe cognitive di un soggetto B è intenzionale, deliberata e consapevole, e dà luogo a comportamenti di B attesi da A, siamo in presenza di una manifestazione di potere definito come “potere d’influenza”. Questo tipo di potere è tutt’altro che infrequente: se dobbiamo affrontare un colloquio di lavoro ci predisponiamo a “far bella figura”; se stiamo per uscire con una bella donna desideriamo “far colpo”: tutti piccoli esempi dei quotidiani tentativi di manipolazione con cui cerchiamo di influenzare il prossimo a nostro vantaggio. Voi potrete spiegare in lungo e in largo a una tipica massaia che, stando alle analisi di laboratorio, i detersivi sono tutti uguali: lei vi dirà che può anche essere vero ma che, per la sua personale esperienza, si sente di affermare che quella marca che usa da tempo lava proprio più bianco. Non a caso la pubblicità è definita “potere occulto”, in quanto è maestra nel manipolare le mappe cognitive e i processi di creazione di senso per dimostrare spesso l’indimostrabile, ossia il primato di una marca sull’altro.
Se è relativamente facile “entrare” nelle mappe cognitive altrui e interrompere momentaneamente l’ordine e il senso consolidato – creando per esempio sorpresa, scandalo quando i nostri comportamenti più banali o causali infrangono sistemi fortemente stabilizzati di aspettative non sapendo, però, in che modo subito dopo verrà ristabilito un “ordine cognitivo” di causa/effetto in chi si è “scandalizzato” – assai più complicato è pilotare proprio questo processo di creazione di un nuovo ordine nella direzione voluta. Dunque l’espressione “Conosco i miei polli” è l’espressione gergale che meglio rappresenta la situazione, e quando un qualsiasi dirigente, per esempio, assume impegni in nome e per conto dei suoi uomini presume di “conoscere i suoi polli”, ossia di sapere come reagiranno e di essere in grado di indirizzarne il comportamento. La manipolazione cognitiva, dunque, consiste proprio in questo: è un vero e proprio bluff. Quest’ultimo rappresenta la quintessenza del comportamento strategico perché l’interazione non avviene su risorse certe e note ma solo su risorse presunte, e la vittoria arride a chi ha la capacità di manipolare nella direzione voluta i comportamenti degli altri imponendo come reale un rapporto di forza del tutto fittizio."

(Le riflessioni di questo post sono state attinte, a piene mani, da “Il fenomeno organizzativo, Carocci 2005”; cit. quasi completa con solo qualche umile ritocco personale qua e là).

Per C__

Quando la vedo si ferma ogni cosa. È come se tutto dovesse prendere forma attorno a lei. Sbalorditivo. Più immagino di calarmi in quegli attimi e più li percepisco davanti a me, e più sento di non volerne più uscire. Stregato. Mi sento come se fossi stato stregato. Il resto delle contingenze si rinvigoriscono, attimo dopo attimo, come una sequenza ad alta velocità di piante che col sole sbocciano sovrane. E l’ammiro, sì, come se non esistesse nulla a parte lei sulla faccia del pianeta. Lei. Una donna schizoide, umanamente e sinceramente postmoderna. Una tipa che parla per ossimori, così maledettamente sorprendenti che hanno la prontezza di destabilizzare i tuoi più tenaci riflessi di incredulità e di scetticismo per quanto sono spiazzanti. “Sospensione provvisoria dell’incredulità”, la chiamano. Carezza, abbraccio, bacio. Svelato l’arcano è pronta delicatamente a condurti in un mondo dove l’effetto sorpresa è di casa, ed è in grado di intrigare, accattivare, sedurre. Un tergicristallo. Mi occorre immediatamente un tergicristallo: il parabrezza delle mie sensibilità è inondato da una cascata emozionale. Ecco, fermo... Ora intravedo. Scorgo le sue Converse modello nero appese ad un chiodo. Oh quelle Converse: le immagino saltellanti, trafficanti, combattive, cariche di impeti compulsivi che sgomitano faconde facendosi strada tra i prati della comunità partecipata, convincendo tutti e tutte delle loro idee. Uau. È questo che mi piace di lei: la sua inconfondibile audacia. In pubblico è un mare in tempesta, ma un mare di quelli buoni, perché sorprendentemente e dopo la burrasca portano solo beni. In privato invece... Sì, quel privato: quello che riesce a creare l’intimità che non ti aspetti... Beh, lì è tutt’altra cosa. Un timido virtuosismo abbassa le sue barriere, lentamente, di modo che io possa apprezzare meticolosamente i suoi lati nascosti, esattamente quelli che poco prima, per suo volere, non ero riuscito minimamente a cogliere. Sì, fa proprio così. È come un pavone multicolore, giallo e a pallini blu, e lentamente, in base alle mie diverse percezioni, discopre a ventaglio gli strati caleidoscopici della sua bellezza peculiare. E quando lo fa non c’è secondo che tenga, no, assolutamente, perché queste briciole di tempo vanno ad immettersi nell’eternità tramite un suo dipinto fuori di testa, che è calamitante, e che sulla tela affresca la nostra duellante raffigurazione insieme, complice. Desidero tanto vederla dipingere, un giorno. Sguardo attendo, che viviseziona la tela prima del suo cataclisma impattante con essa, e poi va. Ondulazioni sferiche incorniciano i suoi pensieri, e colora; con pennellate delicate segue circolarmente le istruzioni non illustrate di un flusso interiore. Joyce. James Joyce. Il flusso di coscienza andò ad inventarsi quel fuori di testa irlandese. Fece esplodere sulla carta ciò che la sua mente dettava in continuazione, senza freni, senza apparenti connessioni logiche; solo associazioni dispersive che si incrociavano casualmente, per poi separarsi perdutamente ancora, e ancora, senza alcuna pausa reale, oggettiva. La nascita di un mondo dunque, quello squisitamente soggettivo. Ed è esattamente ciò che lei intrappola con eleganza, creando così dei suoi mondi associativi... Come mi piacerebbe sedermi su una sdraio a dondolo, accovacciarmi contemplante e scoprire ondeggiando... Indietro e avanti, avanti e ancora indietro... Proprio così, muovendomi in maniera talmente impercettibile da ammirare meticolosamente la sua opera meravigliosamente malsana, autentica. Colore dopo colore, pennellata su pennellata, tela su tela... Starei delle ore a studiare i suoi movimenti, le sue agili architetture stilistiche che si dispiegano con naturalezza espressiva... Starei delle ore così, ad osservarla.

venerdì 13 settembre 2013

Un sentito grazie

A colui che mi spiegò le vera verità sul marketing bruto e brutale, applicato subdolamente nei negozi di vestiario per donne dove, tra un capo e l'altro, svolazzano sensatamente – e scelte appositamente – fragranze olfattive intente, senza sosta, a stimolare le più recondite erezioni passionali di uomini ormai rincitrulliti e scalpitanti verso i letti dell'immaginazione, posti in posizioni sfoganti di ogni sorta; a colui che mi insegnò l'importanza dell'intelligente mediocrità, del parlare tanto per, per poter per l'appunto sguazzare tra donne possibilmente formose e formulari di minchiate commisurate ad hoc, per svelare, senza dubbio, la misteriosa generosità che ammicca traboccante, tramite intermittenti respiri, dalle loro suadenti balconate; a colui che mi illuminò sulle tecniche (solo sulle tecniche, le teorie sono ammesse ma non concesse) di intrattenimento del grande pubblico, giustificandosi a più riprese per un'abbronzatura non all'altezza del popolino, nel mentre sprigionava la sua comicità innata per un'imitazione pari pari, scandita da gestualità ed espressività identiche e vocali; ed infine: a colui che ha la capacità di essere in anticipo di un giorno rispetto a tutti gli altri, a colui che si incarna nel preventivo massimo delle circostanze tranviarie (dove non sono concepiti ritardi), che ha la sfrontatezza di sedersi in anticipo in posti riservati ad altri, poiché solo Lui è sempre avanti di un giorno nel leggere accuratamente tutte le situazioni che possono cascare nella complessità di questo mondo... A questa persona, integerrima e risoluta, rendo infinite grazie... 

(Amico ciociaro, e chi ti molla più...)

mercoledì 11 settembre 2013

We used to wait

Eravamo soliti aspettare. Tempo passato, finito, chiuso per sempre. Sì perché oggi quando ci ricapita di vivere una situazione del genere? Aspettare? Che cosa significa? La velocità degli eventi è talmente sdrucciolevole e fugace e supersonica che non ci rendiamo neppure conto di averli vissuti quegli eventi, gli stessi che pensavamo di aspettare da tempo e invece ci sono spariti da sotto al naso senza che ce ne rendessimo conto. In generale, vivere davvero qualcosa implica, credo, sia esserci in quel qualcosa in tempo reale, nel suo fattuale divenire, sia esserci stati in un tempo precedente, giusto? Cioè il fatidico momento dell’attesa. Ed è proprio quest’ultimo, amato e osannato per i suoi attimi concitati di religiosa cerimonia, che prefigura l’amplesso della scena che verrà, dico bene? Sì proprio quello, c’hai beccato in pieno: lo stesso che si occupa delle più piccole sfumature affinché tutto sia fatto nel giusto modo, quello stesso che si preoccupa di far sì che tutto sia pronto... E poi? Tutto svanisce... Quindi che cosa se ne può dedurre? Possono essere tracciate due possibili piste di interpretazione. La prima 1) Può essere che gli avvenimenti davvero, non ce lo stiamo inventando, corrono troppo veloci, e noi (poveri noi) siamo diventati troppi lenti e piuttosto pigroni per stare dietro al loro galoppo forsennato. La seconda 2) Può non essere accaduta la prima ipotesi, dunque fuori di noi tutto è rimasto normale – gli avvenimenti non corrono e noi non abbiamo reagito a questo cambiamento esterno assumendo le sembianze di poltrone rammollite e comodone. La variante che però interviene in maniera discriminante ha sede dentro di noi, in un cambiamento di percezione che pensiamo ci faccia bene, ma in realtà va nella direzione opposta: vogliamo tutto e subito perché dobbiamo assolutamente appagare i nostri istinti, e questo pensiamo ci faccia del bene (chi non vorrebbe ora, sì proprio ora, una bella spaghettata di cozze al sugo verde?); in realtà però, quando abbiamo terminato quel piatto così sovrano che agghinda da solo la tavola per quanto è lussurioso, poi ci rimane solo la pancia piena (e direte voi: “lascia fare!”) senza però, e c’è il però, aver pregustato il preparativo che c’è dietro alla tanto desiderata degustazione: vai a trovare le cozze, di quelle buone mi raccomando; prendi lo spaghetto alla chitarra, quello ruvido al tatto e che sarà per sempre al dente, non ti sbagliare; segui la sequenza della preparazione accurata ricordandoti di utilizzare sempre l’acqua delle cozze in cottura, è importante; e così via... Quello che voglio dire è che, sì è vero hai la pancia piena e ti stravacchi sul divano dopo esserti leccato i baffi, e le tue papille gustative, in quei santi momenti, hanno goduto come delle gatte in calore... In tutto questo però lo vedete il percorso latente che c’è stato prima? Dov’è finita la magia della convivialità della e nella preparazione, della pazienza di intessere sane relazioni che ci portano al prodotto finale? (Vedi il tipo in riva al mare col cappello da marinaio che ci vende le cozze; la tipa prosperosa e simpatica che ci vende la pasta fresca magari fatta in casa proprio da lei; la giocosità che si manifesta con chi prepara con te il “santo momento” e che, durante il dispiegamento dell’arte culinaria, può svelarti i trucchetti del mestiere; e così via...).

Quello che voglio dire, e questa volta chiudo davvero, è che, mi sa tanto, abbiamo perso inesorabilmente la preziosa cultura dell’attesa, quel cerimoniale preparatorio che ci fa assaporare di più e meglio i veri gusti della vita. E, per inciso, la prima ipotesi formulata, quella sulla troppa velocità degli eventi, non è che non c’entri proprio nulla, c’entra eccome, figurati! Solo che è un discorso troppo lungo sulla società dei consumi e sulla sua obsolescenza programmata che sarebbe troppo noioso addentrarci or ora nello scoprire il vero responsabile di tutto ciò. Lo facciamo un’altra volta, promesso! Perché il vero responsabile esiste veramente, ed è anche un bisbetico burlone opportunista (mannaggia a lui!).

Il bacio dei ciclopi

"Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta fra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna. Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nei loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le miei mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua."

Julio Cortàzar

martedì 10 settembre 2013

Thomas Pynchon

È ritenuto uno dei padri della letteratura post-moderna. Maestro indiscusso del virtuosismo canoro trasposto in parole. Thomas Pynchon. "Vive appartato e non compare mai in pubblico"---> questa è la sua biografia. Sappiamo poco o nulla di lui, solo che è noto per la sua scrittura complessa e labirintica e che non si è mai rivelato al proprio pubblico se non attraverso le sue opere. Forse si tratta di una specifica strategia editoriale che alimenta ancora più il mistero: esiste davvero? Qual è il suo volto? In alcune puntante dei Simpson, a mo' di parodia, sono state fatte specifiche allusioni a questo colosso narrante: un personaggio in incognito viene rappresentato "mascherato" con una sacchetto di carta in testa, e quando scambia qualche battuta (nella versione americana), si vocifera, prende a prestito la vera voce dello scrittore. Tralasciando la fiction e i diversi tentativi fantasiosi di definire una figura che è e resta aleatoria, penso non ci siano troppi dubbi a riguardo: questo scrittore americano esiste davvero. Eh sì, perché è uno personaggio che, tramite i suoi contributi romanzati, ha praticamente influenzato il nostro immaginario collettivo culturale e globalizzato a partire più o meno dagli anni 60’. Per fare qualche esempio... È presente nei primi testi degli album dei Radiohead, e sappiamo tutti cosa ne è uscito fuori; influenza apertamente il famoso fumetto “V per vendetta”, poi diventato il celebre e visionario film. (Il suo primo romanzo, scritto nel 63’, si chiama per l’appunto “V”). Molti scrittori americani e non, contemporanei o dopo di lui, attingono sfacciatamente dalla sua opera. Un altro esempio: “Trainspotting” di Irvine Welsh, poi riproposto in quella pellicola cinematografica che è divenuta una delle più amate e ricordate della nostra generazione. Ricordate la celebre scena del film girata in uno dei peggiori cessi di Scozia? Quando Il Nostro si immerge nel water e si fa un bel giretto sguazzante in quell’acqua fetida? Bene. Quella scena è stata scritta per la prima volta da Pynchon nel suo “L’arcobaleno della gravità”, considerato uno dei suoi massimi capolavori. Il protagonista del romanzo si intrufola in un cesso di un bar perché è alla ricerca di una fisarmonica perduta e nel frattempo, incontrando diversi escrementi sparsi qua e là, formula una vera e propria casistica di merda risalendo ai legittimi proprietari. Questa mattone di romanzo, che mescola con arte smisurata realtà e fantasia, dà prova di quanto questo autore conosca la storia, e non una storia qualunque... La storia degli ultimi, dei dimenticati, fondando quella che è stata definita “la poetica del preterito”. In questo romanzo, gli anni della guerra fredda sono raccontati con una tale dovizia di particolari (sempre mescolati ovviamente alla “fantascienza” del romanzo) che il lettore non distratto può sempre ricostruire le cose come sono andate semplicemente documentandosi. Questo libro, inoltre, si presenta con una narrazione propriamente post-moderna: sbalzi temporali paurosi ripercorrenti le memorie gioiose e travagliate dei personaggi si manifestano in contesti de-spazializzati di un mondo in preda ad una guerra invisibile che logora gli animi. “Tutto ruota, comunque, attorno alla Zona, la Germania devastata e occupata, dove praticamente non c'è legge né ordine, e dove avvengono i più strani traffici e s'incontrano i più folli personaggi.” Ma la caratteristica più evidente della scrittura di Pynchon è la sua comicità: sembra di leggere dei fumetti bizzarri non illustrati. E poi tanto altro: esoterismo, psicologia, scienza nucleare, ingegneria missilistica, erotismo, feticismo e così via... Un romanzo enciclopedico dunque, come per tradizione vogliono essere incasellati i romanzi postmoderni. Un romanzo che, ad ogni modo e comunque vada dopo la lettura (in bocca al lupo!), lascia sicuramente qualcosa al lettore: un’esperienza letteraria unica, nulla da dire.

P.S. Se proprio sono riuscito a stuzzicarvi una recondita curiosità incominciate a leggere “L’incanto del lotto 49”. Quest’ultimo libro è, caso stranissimo, uno dei pochi romanzi brevi che il nostro autore abbia mai scritto, perché il resto dei suoi romanzi sono letteralmente pluviali: bisogna armarsi di molta pazienza per terminarli a dovere, ma, posso dirvelo, ne vale davvero la pena... Breve ma intenso “L’incanto” è una bel concentrato di letteratura post-moderna che incasina la mente, e su questo non c’è ombra di dubbio.



Spunti per "Auguri di Compleanno"

Se avete un amico ciociaro e compie 30 anni e siete in tanti e non sapete minimamente cosa scrivergli e non volete essere fin troppo banali con un misero "Auguri" o "Buon compleanno", ecco selezionate per voi alcune linee guida o spunti di scrittura che, sicuramente, lo manderanno in estasi per il tanto zelo solo a lui dedicato.

“Cosa dire nel vigore di questo tuo giorno tanto importante: buon compleanno, è il tuo 30esimo e ne vai tremendamente fiero; come si evince da... Fotografie che ti mostrano in tutto il tuo splendore (cioè nel senso di quel bianco pallore che si sprigiona accecante dal tuo corpo, come esca formidabile acchiappa-polipi), sparse (le fotografie) anche per i vicoli più bui del web (nel senso che, ormai, anche chi non ti conosce ti conosce ormai già da tempo: è un assioma aforistico, da pepita d'oro; non diversamente, e cioè che la tua fama viene condivisa "anche" dai reietti o ubriaconi o scapestrati, no, è fuori discussione, no, non sia mai!)... Dicevo quelle splendide istantanee che ti ritraggono con un corpo da urlo e ragazze ovunque (solo intorno a te) e quindi al tuo seguito, che vorrebbero (quelle ragazze), nella loro sofferta espressione malcelata da un sorriso di circostanza, strapparsi i capelli a più non posso per la disperazione, perché, lo sappiamo tutti, tutti noi riuniti in un focus group creato ad hoc lo sappiamo, e ne condividiamo la pregnante importanza: sei sempre stato, e lo sarai sempre, per tutti noi comuni mortali, irraggiungibilmente e altezzosamente troppo affascinante e bellissimo; per di più con quella barbetta rasa e appena accentuata, perché signori miei: solo questa è profumata classe!... E poi ne vai fiero, e come ti compiaci per questo: per cosa? Per tutti i tuoi così importanti contatti da copertina che, non so se lo sai, (le copertine con appresso quei tuoi presunti contatti) andranno a rivestire, tra un paio di giorni,(ma che dico? tra pochissime ore) le tazze di cessi sbrodolanti di vomito e piscio dei più inculati autogrill, lo squallore insomma, ma a te non t'importa: è stare sul pezzo la tua da sempre e perseguita priorità, regina fra tutte... E per questa tua ostinazione che ti adoriamo, nonostante i tempi che corrono, con tutta questa gente che non capisce un emerito caxxo di vestiario e di altissima moda e di buone maniere sociali per gingillarsi, solo, al cospetto di quel materiale simbolico di cui ne vive ormai il mondo e di cui solo tu, fra di noi poveretti sprovveduti, ne hai compreso i meccanismi semiotici più oscuri e vitali... Per tutto questo che racchiudi in un unico e lungimirante tuo acuto sguardo (oltre che sempre, ovviamente, troppo adescante), perché queste parole trapelano solo ammirazione e tutto il bene: ancora un buon compleanno da tutti noi, in coro, mentre seguiamo la pallina bianca sullo schermo del karaoke e, con sentito squarcia-gola, ti cantiamo tutti insieme, all'unisono, "Happy birthday to you"... Che la tua condivisione da Coca-cola dispensi invece chinotti a più non posso a tutto il creato ("chinotti" non l'altra bevanda ma il diminutivo di "succhiotti" – nella nota fattispecie: "aloni nerastri che si formano sulla pelle il giorno dopo a seguito di contatti reiterati e furtivi, del giorno o della serata immediatamente prima, di bocche fameliche di sesso che si avvinghiano a prelibati colli o ad altro tipo di giunture morbide del corpo"). Amen, buona festa!”

lunedì 9 settembre 2013

Anime delocalizzate

Pare sia vero. Siamo costretti ad essere liberi (che Sartre sia lodato e maledetto allo stesso tempo). Giorno dopo giorno ora dopo ora attimo dopo attimo dobbiamo reinventarci, costruire i nostri piccoli mondi e, contemporaneamente, mantenere un lucida consapevolezza verso il mondo che ci circonda. E come si fa? Abbiamo forse una cassetta di attrezzi appropriata per adempiere a tutto ciò? Siamo stati coscientemente educati alla complessità in una società votata all’entropia e, dunque, ad un’implosione che è lì lì se non già bella e avvenuta? Siamo in grado, in definitiva, di costruire una seppur minima nostra identità ed essere flessibili ai bombardamenti informativi del nostro tempo?... Un’eccessiva informazione, sembra, è uno dei migliori stimoli a dimenticare... A lavoro ci chiedono perennemente adattabilità e spirito d’iniziativa, flessibilità nelle contingenze e autonomia creativa “sull’orlo di un meraviglioso cambiamento”... Dobbiamo necessariamente venire a patti, dicono, con la prospettiva di un’istantanea obsolescenza, l’obsolescenza che riguarda tutto ciò che viene creato. Si tratta di schizofrenia? Pare di sì. E allora siamo davvero dei replicanti come Roy di Blade Runner? “La fiamma che splende con il doppio della forza dura la metà del tempo”, il prototipo dell’uomo postmoderno, impeccabile e forte e resistente agli stress, ma che dura poco... Quel film, dopotutto, non aveva poi tutti i torti nel preconizzare gli ipotetici scenari futuri, gli scenari che, per l’appunto, volevano essere propriamente postmoderni... Una pellicola che ritrae un mondo che cade a pezzi, tumefatto da una pioggia insistente e torrenziale, un mondo completamente de-industrializzato e de-localizzato; uno sciame di lingue incomprensibili (forse un globish o un “chinatown everywhere”), che fa da sfondo alle anime perse e tenebrose dei personaggi, che cercano a stento di dare senso alle loro identità, riconoscendosi, solo, in alcune immagini sbiadite di famiglia che ricordano un passato che ora non conta assolutamente più nulla. E allora ci ritroviamo davanti ad un pc, ad esplorare e vivere mille ed innumerevoli vite lontano da noi, identificarci in esse e con esse, cercare un bagliore di appiglio per capire dove dobbiamo andare e cosa vogliamo fare... “I’m totally very americanized”, afferma Naomi, una giovane indiana che si schiarisce la pelle e decolora i capelli per assomigliare a Marilyn Monroe. Naomi, una dei tanti giovani indiani che barattano la proprio identità con un’altra, quella americana. E perché dovrebbero farlo? Perché lavorando nei promiscui e angusti luoghi dei call center devono per forza di cose incorporare una cultura che non è la loro, per vendere prodotti e merci e mettere a proprio agio commerciale i loro clienti contattati all’altro capo del mondo. Questi giovani non attraversano le frontiere dello spazio per assaporare quella nuova e lontana cultura, no, assolutamente; sono loro stessi che vengono attraversati dalle frontiere del fuso orario senza lasciare il proprio paese. “Che cosa significa trasportarsi in un paese remoto che non si è mai visto? Cosa comporta vivere così lontano dal proprio corpo?”… E allora sapete cosa vi dico? Bisogna sempre, e dico sempre, disegnare in noi stessi, in quel poco che ancora ci rimane, un mito romantico talmente potente, talmente da paesaggio interiore lussureggiante, che possa per la miseria redimerci dall’universo informe della contingenza.

Bruxelles Amarcord (capitolo 1)

Bruxelles, Bruxelles… Che diavolo di città è Bruxelles?

Inizierò con un affresco generale,

poi passerò alle cose un po’ più serie (vedi Birra belga).

Rovistando tra i miei ricordi “spazializzati” direi, tanto per iniziare, che la prima cosa che salta subito all’occhio, quando approdi in questa “capitale delle capitali” e per un attimo ti distrai e alzi lo sguardo, è la raffigurazione del cielo, un cielo dipinto da strisce bianche e fumanti di aerei che sfrecciano in tutte le direzioni; ne risulta un drappeggio reticolare, una testimonianza evidente di ciò che rappresenta questa città da un punto di vista nevralgico: un crocevia ininterrotto di passaggi e di scambi culturali che si avvicendano e si animano scambievolmente. Di converso, la trasposizione in terra di ciò che accade in cielo trova il suo culmine in una città-multidimensionale, a tratti in preda a disparati localismi e a tratti influenzata globalmente; fortemente istituzionalizzata da un lato per poi proporre la sua contraddittoria diversità appena svoltato l’angolo. Infatti, linguaggi e gesti multiformi si susseguono origliando e passeggiando per i boulevard e, una volta entrati nel metrò, si fa fatica a distinguere le particolari nazionalità delle persone che la popolano: alle lingue ufficiali della città – Il francese e il neerlandese – pare che si assecondino altre mille lingue, in cui l’eventuale “comunione dei beni” o il necessario punto di contatto sfocia, solitamente, in un inglese “salvifico”. Le comunità ufficiali dello Stato Belga – ovvero quella Vallone e quella Fiamminga – vivono a Bruxelles a stretto contatto, condividendo spesso malvolentieri sia pezzetti di città sia le divergenze culturali di cui sono portatrici. Pare ovvio ormai constatare come, assieme ad esse, siano presenti numerose altre comunità: il mondo in miniatura può aver trovato una sua collocazione anche qui. Tra le altre, non indifferente, risulta essere la presenza italiana, radicata qui per ragioni storiche a tutti note. Per questo, come per altri motivi, la città assomiglia a un teatro, a una serie di palcoscenici in cui gli individui possono elaborare la loro magia personale assumendo molteplici ruoli; un vero e proprio alveare, con reti di interazione sociale così diverse e orientate verso obiettivi così diversi che la sua enciclopedia diventa un folle album pieno di ritagli colorati che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Dunque mondi diversi separati in casa da linee invisibili che puoi attraversare e trasformare a tuo piacimento: “bene o male, la città vi invita a rifarla, a consolidarla in una forma in cui voi possiate vivere. Anche voi. Decidete chi siete, e la città assumerà nuovamente una forma fissa intorno a voi. Decidete che cos’è, e la vostra stessa identità sarà rilevata, come una mappa definita da una triangolazione. Noi le modelliamo a nostra immagine; esse, a loro volta, ci foggiano con la resistenza che offrono quando cerchiamo di imporre loro la nostra forma personale. In questo senso, mi sembra che vivere in una città sia un’arte, e abbiamo bisogno del vocabolario dell’arte, dello stile, per descrivere la particolare relazione che esiste fra l’uomo e la materia nell’incessante gioco creativo della vita urbana.” (Raban, J., Soft city, Londra 1974).

domenica 8 settembre 2013

Dirockato Monopoli

La politica giovanile ri-generante

L’effervescenza di questo progetto che pensa in grande – con tutti gli auspici e la carica emotiva dei suoi protagonisti – è una chiara manifestazione di una Società Civile (in questo caso una “nicchia preziosa” contraddistinta da un’inedita creatività musicale) che si adopera in-proprio, per preservare e, al contempo, motivare e promuovere un proprio status identitario, sociale. Questo status si riconosce nella sua peculiarità ri-generante, per dare un’impronta innovativa tale da incentivare un nuovo modo di fare società e di stare nella società che, in questo caso, convoglia le energie e gli entusiasmi musicali di una realtà cittadina che si distingue (anche) per i sui talenti innati. L’innovazione sociale che ne emerge tenta, a suo modo, di differire dalle logiche predatorie e coloniali del mercato, e dai corridoi, sempre più inaccessibili, di quelle “strette” burocratiche e pedanti caratteristiche del potere Statale – declinato in questo caso nell’Amministrazione Comunale – che ormai, è evidente, scarseggia di legittimità propria. Un raffronto a tale binomio Stato-mercato è un’esigenza strutturale, di una società che sta cambiando e che vuole rendersi protagonista nelle sue dinamiche “sane”; che vuole generare nuove relazioni capaci di evadere – per proporsi come alternativa – dalle relazioni pre-confezionate e disabilitanti “calate dall’alto”, provenienti da un lato da un’amministrazione troppo “anziana” e, dall’altro, da relazioni che riguardano unicamente quei circuiti individualizzanti (e ultra competitivi abbestia), che si rifanno alle logiche disumanizzanti del mercato, un mercato che ha decretato la nascita di un misero e sempre scontento ”homo consumens”. Fare società in questo modo, fare musica e creare sinergie-protagoniste in tal maniera, è indice di una autonomia che produce i propri contesti di significato, i propri frames di intervento, e di azione, ma, allo stesso tempo, alimenta quell’assunzione di responsabilità che si concretizza in una presa di coscienza comune-e-giovanile. L’auspicio più grande è che questa esperienza, nel suo divenire, possa permettere un raccordo generazionale, ma soprattutto un protagonismo non-indifferente ma attivo di una realtà giovanile che possa vedere lontano, che non sia considerata apatica e fannullona (vedi giovani concepiti come “problematica sociale”), ma alla quale possano essere concesse – non una tantum ma sempre più – quelle condizioni appropriate che fungano da terreno fertile per motivazioni giuste, che rendano la “socialità musicale” un evento non solo episodico ma anche – e soprattutto – un elemento vitale che possa inscriversi compiutamente nelle biografie individuali di ognuno di noi, giovani dirockati.

La prossimità del virtuale

Viviamo in un mondo di veloci e ostinati cambiamenti, ma questo ormai è sotto gli occhi di tutti. La modernità ci ha lasciato in eredità pezzi di puzzle da rimettere insieme: non sappiamo con certezza se questi tasselli funzionino ancora, ma i tentativi che si fanno per ricomporli si sfaldano con un’immediatezza senza precedenti: oggi la vita sociale cerca un nuovo confronto e trova un’inedita urgenza nella ridefinizione di nuovi paradigmi. Questo discorso sui “massimi sistemi” si rende più evidente nel campo della politica: un terreno di confronti, di speranze, di dibattiti accesi, di idee forse non riciclate, che, in ultimo, dovrebbe far convergere – si auspica – i diversi interessi verso un comune obiettivo di benessere collettivo.
Dopo i moti studenteschi del 68’, dove il bisogno di cambiamento è sceso in piazza e ha fatto sentire la propria voce, è iniziata la fase della cosiddetta “disaffiliazione” dalla politica. I giovani di quella generazione scoraggiata entrarono in una fase di isolamento consapevole, in cui il privato era più appagante della piazza pubblica e dove il senso della propria esistenza veniva pian piano definito dalla partecipazione (sempre più maniacale) al mercato dei consumi. Da qui ha avuto inizio l’era che molti studiosi hanno definito dell’”individualizzazione”: la vita sociale, partecipata e condivisa, si riduce all’osso nella schiera dei soli intimi; la vita pubblica di piazza e l’esperienza di partito perdono sempre più importanza; la sfiducia nel prossimo, dettata dall’ostilità e dal narcisismo, si riversa anche e soprattutto sulle Istituzioni e sulla politica in particolare, che agli occhi di tutti diventano sempre più avverse e inavvicinabili.
Lo sviluppo delle nuove tecnologie, con il loro ormai facile accesso, ha ridisegnato con gli anni questo scenario, e fa sperare in un nuovo confronto fatto di idee e opinioni, che coprono la totalità della nostra esperienza del vivere. Non che l’individualizzazione abbia comportato solo mali: c’è chi vedeva in questo fenomeno la fine del sociale, e, per fortuna, non aveva tutte le ragioni per dirlo. No, perché oggi il sociale si avverte e come! Anche se in forma diversa, prossima e virtuale. L’appropriarsi di soli oggetti disponibili sul mercato dei consumi non poteva, alla lunga, colmare quel senso di vuoto che si allargava inesorabilmente dentro le esperienze di ognuno: se la società vive e gira sulla giostra del globo un motivo pur ci sarà! E allora la tipicità di ognuno, che ha avuto modo di riflettere su se stesso e di formarsi a proprio piacimento attraverso la rete (chi consapevolmente, chi no, ovviamente!), si organizza e partecipa (sempre in maniera personalizzata!) a network, condividendo idee, contestandone delle altre, trovando quelle ragioni che poi si esplicitano nell’“incontro studiato ad hoc” nella vita reale di tutti i giorni. In molti casi l’esperienza si costruisce virtualmente, e l’incontro “per caso” tra persone segue contestualmente questa costruzione. Paradossalmente, le nuove tecnologie consentono a chi se ne sta in disparte di tenersi in contatto, e a chi si tiene in contatto di restarsene in disparte. Ad ogni modo, è una nuova socialità che comunica, che si rende partecipe, che fa sentire nuovamente la propria voce, anche se scritta e forse, in maniera inaspettata, più invadente. Questo perché: “la prossimità virtuale riduce la pressione che la vicinanza non virtuale ha l’abitudine di esercitare. Detta anche il modello per qualunque altra forma di prossimità. Oggi qualunque forma di prossimità è destinata a misurare i propri pregi e difetti in base agli standard della prossimità virtuale” (Zygmunt Bauman, 2003).
I nuovi modi del comunicare disegnano, dunque, una nuova agorà virtuale, che si prende il suo spazio e si lascia raccontare. I social network non sono altro che spezzoni di società che si organizza, che desta gli animi e permette a quest’ultimi di immettere i propri contenuti nell’orbita del sentire comune. Forse la politica, e tutto ciò che da essa deriva, lo ha capito e cerca di cimentarsi anch’essa: il luogo della discussione per eccellenza dovrebbe sfruttare il varco della prossimità virtuale e rendersi più vicina alle problematiche della gente. La pressione è ridotta e, per questo, le idee sono più libere e si moltiplicano su più fronti. Se le altre forme di prossimità – quelle non virtuali – attingono da ciò per sopravvivere allora ciò può rappresentare un surrogato di “socialità decente”. A patto che si tenga conto della “politica dal basso”, quella seria e partecipata, quella che tiene conto delle professionalità e delle esperienze significative, quella condivisa e quella che mira a obiettivi realistici e applicabili: un nuovo modo di intendere il benessere collettivo, che si rifà a paradigmi sostenibili, che rimetta insieme pezzi di puzzle che ci sono stati lasciati in eredità, che concepisca nuovi modi di vivere e comunicare, pur sempre nelle nostre diversità e nelle nostre comunanze.

venerdì 6 settembre 2013

La spazializzazione dei ricordi

Già, chi l’avrebbe mai detto. Eppure ho sempre pensato che i ricordi, quelli più intimi e indissolubili, si serbassero dietro l’etichetta del tempo. Lo sapete bene, quel tempo vicino o remoto di cui custodiamo ogni minima sfaccettatura e ne andiamo fieri, gelosi, o viceversa malinconici e restii, in base ai casi. Ma succede poi che quello stesso tempo, con la sua stessa materia invisibile a noi ignota, si dissolve lentamente e perdutamente, in quel suo lento e perdurante ticchettio che misura gli istanti, che arrivano saltellando sino a noi, e ci bussano alla porta appellandosi “presente”, seppur anche questo non duri poi così molto. Ed è proprio questa inesorabile dissoluzione che ci deve far pensare, eh sì, perché da quando la vita ha assunto una sua materialità diacronica quel tempo birichino va a braccetto con lo spazio, e questo si configura come un suo indiscusso partner; e allora c’è chi dà maggiore peso all’uno o all’altro, variabilmente, in base ai casi storici congeniali. C’è da dire, per inciso, che la letteratura ricorrente in materia riconosce con il postmoderno (di cui, in seguito, spiegherò meglio la semantica) la supremazia delle categorie dello spazio sul tempo, e tutto ciò si ripercuote su un’inaudita compressione spazio-temporale che si manifesta nei nostri luoghi di vita, che debbono necessariamente reinventarsi in termini di identità se vogliono sopravvivere nella giungla della competizione globale. Ma questi sono altri temi piuttosto intricati che verranno ripresi nelle prossime puntate, non temete. Quello che ora invece mi preme sottolineare è come i nostri ricordi, in questi nostri tempi così travagliati, abbiano una loro maggiore e vivida legittimità con gli spazi che viviamo e percorriamo. Tante volte, e vi sarà sicuramente capitato, un suolo calpestato, o un’ambientazione visitata e vissuta che ci è rimasta “impressa”, ha inglobato per forza di cose le nostre esperienze, facendole sue, catturandole nella memoria, incastonandole nella loro immutabile eternità, e non ci vuole poi molto nel verificare come, una volta ritornati in quegli stessi spazi, questi ci risultano così “famigliari”. È come se ci sobbalzassero alla mente alcune armoniosità di noi stessi, che credevamo perdute in quelle ostinate e confuse date, in quei tempi così liquidi, perché, forse, chissà, così tremendamente succubi dei meandri di quel ciclo etichettato fin troppo convenzionale per i nostri gusti. E allora il tempo viene risucchiato come cenere dalle folate di vento che soffia ad intermittenza, e a noi non ci restano che i nostri spazi, quelli fighi, così ampi, così prospettici, così da praterie sempre verdi distensive.

Sangu meu (postilla)

Tanto per iniziare si dovrà specificare il significato recondito della lussuriosa espressione "Sangu meu", poi si vedrà...

Espressione idiomatica siciliana che, letteralmente, può essere tradotta come “Sangue mio” e che, per quanto mi è sembrato di capire, viene espressa con una sonorità abbastanza accentuata e pittoresca e foneticamente distorcente che il suono pronunciato verrebbe più o meno così: “Sango meeeoo”; salvo, ovviamente, percepibili differenze da provincia a provincia nella stessa terra Sicula che, nella fattispecie, non ho avuto la fortuna di approfondire. Ancora per quanto mi è sembrato di capire, questa significativa espressione viene utilizzata prevalentemente da soggetti di sesso maschile allorquando, alla visione di una “bedda fimmina” (bella femmina) in qualsiasi contesto essa si manifesti, vogliano, come dire, esprimere tutto il loro appagamento visivo e magari anche sensoriale – dovuto magari ad un profumo promanato dalla stessa fimmina – in maniera metafisica, ovvero trascendendo in maniera mistico-sessuale il contesto in cui è avvenuta la visione stessa. C’è da dire, per giunta, che nei soggetti più scoppiati e bramosi o semplicemente più sensibili, tale manifestazione di spassionato apprezzamento viene solitamente accompagnata da modalità semiotiche piuttosto familiari, tipo nell’insieme “spalancare la bocca, ruotare gli occhi verso l’alto e sbattere le ciglia muovendo la mano chiusa a pugno”; tali modalità semiotiche, nel loro insieme, donano un maggior vigore e una virilità più denotativa all’espressione in sé; mentre i rimandi connotativi del linguaggio nel suo complesso – verbale e del corpo – li lasciamo volentieri all’estro fantasioso del lettore.