martedì 31 dicembre 2013

L'intima falsità del riconoscimento sociale

Un dialogo qualunque tra due conoscenti qualunque in un posto di traffico qualunque all’occorrenza di una festività qualunque in una città che rivede volti di persone partite qualunque (due uomini o due donne; oppure un uomo e una donna: non fa alcuna differenza).


- Ohilà, da quanto tempo! Quando sei arrivato/a? Come stai?
(Affermazione di finta gradita sorpresa, ovviamente. E poi... Domande in successione piuttosto insignificanti accompagnate da due baci guanciali ritmati, prima a destra e poi a sinistra (e poi di nuovo a destra, se ci troviamo al nord) – non il contrario, non sia mai: non ci troviamo mica in Francia dove tu, italiano, abituato ad una sorta di automatismo nella scelta della TUA di direzione, potresti incappare benissimo – dato che ci sarebbe sicuramente una specie di fraintendimento sociale nel saluto – in un non-voluto – e anche abbastanza imbarazzante – bacio a stampo; salvo, ovviamente, i casi in cui le persone che si incontrano in quel frangente si possono anche piacere il giusto e quindi, quel bacio a stampo e/o a striscio, alla fine, non è poi così imbarazzante, anzi...)

- Sono arrivato/a qualche giorno fa; ora non me lo ricordo, a dire il vero... Comunque tutto bene grazie, e tu?
(Risposta decisamente improvvisata, elusiva se proprio vogliamo dirla tutta. E poi... Altra domanda davvero solo di circostanza che, generalizzando troppo, non potrà mai ricevere una risposta esatta e particolareggiata: riceverà, diversamente, sempre una stessa risposta uguale e contraria: uguale perché a quella succederà, per forza di cose, una risposta identica; contraria perché proviene dall’altro/a interlocutore/trice che si “oppone” al primo/a in termini di posizionamento, solo per questo. Quindi possiamo affermare che la prima parte dell’incontro si inserisce, necessariamente, in un campo dialogico particolarmente indefinito: il senso di tutto questo viene individuato, solamente, in quello che viene chiamato solitamente “riconoscimento di tipo sociale”; nulla di più, nulla di meno.)

- Tutto bene, grazie... Non c’è male! Anche se, sai, è un periodo un po’ così...
(In questo caso si presenta il classico dei paradossi che viene sempre, e dico sempre, legittimato dalla maggior parte delle persone che quasi inconsapevolmente lo avanzano e lo ricevono, ovvero: non si sa perché, nella maggior parte dei casi, non c’è male in generale, e quindi stiamo parlando di una sensazione tutto sommato positiva che proviamo nei confronti dell’indefinito – perché, in questo caso, abbiamo stabilito che il parlare troppo in generale porta, alla lunga, alla vaghezza del dialogo che si sta affrontando; però quando poi si incomincia a pilotare il dialogo sul personalizzato e sul particolareggiato (cosa che avviene quasi naturalmente procedendo nel vivo del dialogo) anche qui, non si sa perché, viene detta sistematicamente la cosa esattamente opposta “Sai, è un periodo un po’ così”, che di per sé vuol dire tutto e nulla: però, dal tono mesto e cupo in cui il tipo/a lo espone, fa intendere all’altro/a interlocutore/trice che, insomma, non se la sta spassando proprio bene – o forse, e forse a dire il vero è molto probabile, è solo uno dei quei tanti casi di auto-vittimizzazione forzata per ogni cosa che, come in ogni tipo di società opulenta, ci parla della costante e pregnante e insita insoddisfazione dell’ Umano preso nella sua generalità di Essere, che riscontra sempre e ostinatamente l’infelicità nella propria condizione di vita.)

- Capisco, capisco. Questo periodo non è facile per nessuno. Io, da parte mia, tiro avanti...
(“Capisco, capisco”, altra classica espressione di circostanza, che cerca di tenere le distanze dall’altro/a interlocutore/trice per non inoltrarsi troppo in un terreno che potrebbe essere benissimo minato: infatti se questo tipo/a avesse risposto diversamente, facendo intendere quindi che voleva, diciamo così, interessarsi un tantino di più al presunto “malessere” dell’altro/a, sarebbe stato per lui/lei letteralmente la fine: vale a dire uno “sfogo pluviale” dell’altro/a che non si sarebbe più contenuto e che non avrebbe conosciuto argini per preservare la sensibilità di chi stava lì intento/a ad ascoltarlo/a (seppur malvolentieri). Oppure, potrebbe benissimo accadere che, ad una risposta di interessamento sempre al famigerato “malessere”, l’altro/a (che ha avanzato questa sua situazione di malessere) si troverebbe enormemente spaziato/a e, proprio per questo motivo, inventerebbe qualsiasi tipo di risposta che, in un certo qual modo, cercherebbe di metterci-una-pezza e di giustificare il suo dichiarato “periodo un po’ così”. E poi... “Tiro avanti”, altra tipica espressione metaforica che metaforica proprio non è perché, in un certo senso, non si capisce cosa si stia “tirando”, dato che il periodo “non è facile per nessuno” e, dunque, non sapendo qual è la zona più florida dove cercare o in cui barcamenarsi, non si sa letteralmente che pesci pigliare e, quindi, in ultimo, cosa di preciso tirare alla lenza.) 

- Bene, bene: sono contento dai! Cosa farai di bello in queste feste?
(“Bene, bene” non si sa per cosa... E poi “Sono contento” di ché? Probabilmente di aver incrociato il suo interlocutore/trice per caso per strada – ma di questo, è facilmente intuibile, si potrebbero nutrire parecchi dubbi. L’ultima domanda non è altro che un modo come un altro per velocizzare il congedo e rendere meno indolore tutto l’incontro.)

- Nulla di ché, solita roba... A Natale in famiglia e poi a capodanno ora vediamo... Tu? Che farai?
(Una risposta a dir poco azzeccata che intuisce la volontà di congedo dell’altro/a interlocutore/trice e che va decisamente sul sicuro rifugiandosi nel banale luogo comune trito e ritrito che non delude MAI, e cioè: "Natale in famiglia e di Capodanno non si sa mai nulla fino al momento prima".)

- Si, penso lo stesso anch’io. A capodanno, invece, volevamo andare da qualche parte, giusto così per fare qualcosa di diverso... Ma sai poi, sempre per questo periodo un po’ così che è capitato, abbiamo deciso alla fine di non fare nulla di ché e di festeggiare in compagnia dei soliti amici.
(In realtà non aveva pensato proprio a nulla di tutto ciò, e cioè di voler fare un capodanno fuori e compagnia bella... Lo dice solo perché fa più fico! E poi c’è sempre “Il periodo un po’ così” che è una sorta di panacea al contrario contro tutte le cose positive che possono capitare. E quindi quando queste cose positive proprio non si ha voglia di metterle in pratica si ricorre a questo famigerato periodo un po' così – perché è vero che il positivo viene nella maggior parte dei casi per una botta di culo; ma è anche vero che le positività della vita arrivano quando uno si mette d’impegno nel volerle attualizzare, chi prima chi dopo.)

- Bene, allora.. Tante cose eh? Saluti a casa. Mi auguro di vederti presto, prima o poi.
(Il “Prima o poi” finale parla da sé: tutto ciò che lo precede non è altro che una finzione socialmente architettata che, per avere un lascito di coscienza pulita per chi lo espone, culmina in quel “prima o poi” che può significare anche benissimo molto più un “poi” che un “prima”...)

- Anche a me, davvero, ha fatto molto piacere rivederti... A presto allora, ciao! E saluti alla tua famiglia!
(Qui, invece, la funzione svolta prima dal “ prima o poi” viene ulteriormente semplificata con “davvero”, concludendo in questo modo il fugace e “tanto colmo di piacere” incontro tra i/le due. Il tutto viene suggellato da un contatto finale (strette di mano; oppure baci guanciali: dipende dalle circostanze e dai casi di genere) che parla proprio apertamente, anche se tacitamente, del vero piacere desiderato sin dal primo momento in cui i/le due si sono casualmente incontrati/e; e cioè: “Che bello, finalmente: questo è il segnale che mi dice che la “convenzione sociale” che governa per forza di cose l’incontro casuale da tra due conoscenti è terminata: posso finalmente essere me stesso, individuale...” Non proprio così, però si penserebbe una cosa del genere. Diffidate, quindi, da chi solitamente e con tanto vanto vi dice: “Io dico sempre quello che penso”... Se non si tratta di un soggetto che soffre di alterazioni delle proprie facoltà psichiche e/o mentali, oppure di un soggetto diversamente abile nel concepire e nel costruire la propria realtà sociale, allora questa affermazione che riempie solo la bocca di chi la dice non è del tutto vera.)
  

venerdì 27 dicembre 2013

Nuvole di cornice sui residui di tutto

È il mattino seguente di una serata un po’ particolare, una serata in cui è successo davvero di tutto o forse – e questo non si potrà mai sapere – e cioè che proprio alle strette è successo solo nel mainstream di quei personaggi presenti e tutti collegati coralmente ad un’altra realtà (una realtà ovviamente sconosciuta); in un posto che, da giorni, aveva preso proprio le sembianze di un’ autentica casa-porto-di-mare. La serata in questione, dicevo, incoronava il compleanno di uno di loro, ma solamente di sfuggita. Tuttavia, i ricordi dei nostri a dir poco pittoreschi protagonisti, si miscelano abbracciandosi solo in sfumature: esilaranti e preziose, risate e cin cin. E dunque quel mattino si mostra in tutta la sua lucentezza sferzante, e la la luce del sole è davvero fastidiosa e spigolosa e fredda come l’acciaio più sonoro che può davvero battere spigolosamente da tutte le angolazioni: il mondo fuori si muove a rilento, proprio a scatti salivari, e ha un sapore dolciastro-misto-amarognolo, con un tocco di acidulo in fondo giusto per gradire: da mappazza post – sbronza, detta in breve. E dunque con un mal di testa solcante le meningi, accompagnate da altre traiettorie di dolore craniale che si propagano e che fanno festa per i lobi cerebrali, un osservatore esterno (ma anche lui, molto probabilmente, presente e reduce della festa), descrive ad un altro protagonista di quella serata le sue alcolizzate impressioni in quel famigerato mattino, alludendo ad una composizione di parole che più o meno, a detta dei presenti, potrebbe aver fatto così:

"Ma quella bottiglia, là, sul bordo piscina, tutta tumida e gonfia e piegata su se stessa ad ogni stretta di sorsata di mano.... È lì per il nostro tanto atteso intervallo? Mi chiedo. E lo Zio giace accanto a lei (a quella bottiglia nera piena zeppa di rum e cola) completamente disteso, con i suoi occhiali da sole giganteschi e della luna, e il nostro Peluche (uno fra i nostri personaggi troppo spugnoso per essere vero) sopra di lui la sua testa brontola rilassata sulla pancia depilata sempre dello Zio, che a momenti vede, sempre attraverso quei suoi occhiali della luna, la figura satellitare di Rosse Riot, che orbita intorno a quei reietti dell'alcol raggiungendoli (quella troupe di scoppiati sbavanti di sonno) con la sua traiettoria partecipante, e afferra, sempre Riot, quella bottiglia nera con la grazia di quei suoi movimenti e l'avvenenza di quei suoi straripanti indumenti succinti (i vestisti sono una gabbia, meglio che si ripieghino su se stessi, sempre)... E c’è anche il Ciociaro sette bellezze, dall’alto, che guarda tutti dall'altra gabbia, cioè quella della rampa di scale del palazzo che si erge a ridosso, e chiama tutti a raccolta, come un tarzan incravattato, e chiama tutti a squarciagola quei clochard maledetti, "ma tu 'nvedi oh con che pezzenti devo avere a che fà!", e lo urla come se non ci fosse un domani: si sa: Il Ciociaro è la nostra finestra sul mondo... E poi c'è anche Miss-sempre-pantalone-dai-fatti-sotto, anche lei, seppur tutta ubriaca e sbronza e borbottante pure lei è sempre una macchina che macina, e legge incessantemente il suo giornale quotidiano (rendiamo grazie) sulla pancia questa volta del nostro Peluche nazionale (che è sempre il nostro orsacchiotto peluche di prima), con le gambe, sempre la Miss-dai-fatti-sotto, che disegnano ripetute X che sembrano dire a ritmo cadenzato "Per me è NO!”, e lo sfoglia quel suo quotidiano giornale, riparandosi, tramite le sue urgenti e cogenti sfogliate, dalle alitate sulfuree e pestilenziali e da topi morti che provengono da quei due soggetti stesi per terra con le braccia a Cristo (ricordiamo la situazione: lo Zio con gli occhiali che sta sotto il peluche dei peluche che sta a sua volta con la sua pancia all'aria a mo' di reggi-leggio sotto a Miss-sempre-pantalone-la-gonna-te-la-puoi-anche-sognare)... E poi arriva anche un uomo vissuto in sud America che, con smaccate origini baresi, filtra la sua presenza agli altri con uno dei suoi  "E allora?” Quest'uomo vissuto è proprio il nostro Social Fucker, con i suoi, anche lui, occhiali da sole ma con i lacci penzoloni incorporati, fresco come una rosa (sempre fresco e pimpante come una Rosa nel deserto) che si materializza dopo aver concluso un intervista cazzuttissima con un tipo che si trova in Perù, e che, nel fresco impeto del mattino, cerca di intervistare anche tutto quell'esercito di rietti e scapestrati in terra, con le braccia a cristo raffiguranti abbandonate geometrie umane sul fondo piscina ...E tu?? Beh, tu invece sei sopra seduto sulla panchina che sovrasta tutti quanti compreso il bordo piscina, e hai quel compito suggellante di incorniciare tutto questo quadro incantevole ("E questo sei", ti ripete gracchiante lo Zio steso attraverso i suoi occhiali, "quello che incornicia!") con delle simpatiche nuvolette di fumo che vengono prodotte a stantuffo da quella tua bocca azionata dall'occhio aquilino che ti ritrovi, e osservi “perlustrativo”, sempre attentamente scandagliando (da questo punto di vista sei una specie di TAC infallibile), sappiamo tutti cosa dall’alto della panchina che sovrasta quel bordo piscina attraversato da papere di allevamento: vivisezioni ocularmente quelle movenze all'apparenza liquide, ma non proprio liquide: sono solide e belle morbide al punto giusto (“Una scamorza col latte che esce?” Ti chiede il nostro Peluche che ha già fame), ma queste movenze hanno anche il ritmo dei fluidi avvolgenti: un po' di quà e un po' di là, un movimento a sorriso sbeffeggiante (nel senso di: "Prova a prendermi”) che porta con sé le sembianze della frutta bella matura ... E Il Ciociaro, ahimé, quelle movenze sinuose, se le perde tutte: lui, lo sappiamo da tempo oramai, la cacciagione la vuole solo di classe ("Che coglione" aliti al vento, frustandoti sonoramente con la grossa mano destra la tua elastica coscia sempre destra)... Ciao."

martedì 24 dicembre 2013

Lettera a Babbo Natale

Questa lettera è stata scritta da un ragazzo figlio del suo tempo: disoccupato e in costante ricerca di un lavoro che non riesce proprio a trovare, si ritrova nel periodo Natalizio ad avere le sue speranze, i suoi sogni, completamente infranti: sente di aver gettato un po’ la spugna ecco. Così, senza una motivazione logica, decide di fare una cosa che non faceva da tantissimo tempo. L’ultima volta, infatti, che ha fatto questa cosa manco se la ricorda più: scrivere cioè una lettera a Babbo Natale. Pur consapevole di essersi deciso a scriverla un po’ in ritardo (non si sa se la lettera arriverà in tempo, visto l’impazzito traffico natalizio), confida che, in un modo o nell’altro, Babbo Natale riuscirà ad aprire la sua busta e a tastare la carta e a leggera questa sua lettera, perché ha cercato di scrivere tutto quello che in queste feste sentiva di dire; tutto quello che, per una cosa o per l’altra, non è riuscito a dire a nessun altro in tutto questo tempo di frustrazione, di rassegnazione prematura.
Per circostanze fortuite, noi abbiamo la possibilità di leggere questa sua lettera... Perché? Perché, fondamentalmente, c’è stata una violazione della sua privacy, e un postino parecchio ubriaco ha deciso di scartare la sua busta perché – così ha riferito – gli piaceva un sacco al tatto quando se l’è ritrovata tra le dite, e voleva scoprirne il contenuto. (Questi ubriachi!)
Altre motivazioni non ci sono pervenute, ma questo poco importa: importa solo che la lettera sia stata definitivamente spedita e che, in questo momento, stia viaggiando per arrivare al suo effettivo destinatario: il Babbo dalla barba più bianca che c’è.
Ad ogni modo, dato che siamo troppo curiosi come quel postino e saremo ben presto brilli anche noi, leggiamo insieme cosa scriveva il Nostro; forse potrebbe interessarci:


Caro Babbo Natale,

non ricordo sinceramente l’ultima volta in cui ti ho scritto una lettera, ma sarà stato parecchio tempo fa. Probabilmente pensavo sul serio che tu esistessi, e che scendessi da quella specie di camino (che camino esattamente non era) dove Papà era solito arrostire i polipetti appena pescati; e mi preoccupavo tantissimo per te, non sai quanto, perché la canna fumaria era veramente nera, e quando sbirciavo in su constatavo, assurdamente, di quanto il suo buco in cima fosse davvero piccolo; uno spiraglio di luce. Allora mi chiedevo come diavolo facevi, tutte le volte, a calarti giù da quella sporca angusta strettoia (anche se l’odore dei polipetti arrostiti doveva essere stata una cosa mondiale, non è vero??). Quando ritrovavo però i miei regali sotto l’albero pensavo sempre che eri stato un grande, e per questo mi meravigliavo ogni volta della tua dimestichezza con questo genere di cose; mi sorprendevo del tuo trasporto, della tua magia: riuscivi, non si sapeva come, a portare a tutti i bambini i loro regali, qualsiasi fosse stato l’ostacolo che te lo avesse impedito.
Col tempo però scoprii che tutta questa magia non era altro che un’elaborata e sofisticata menzogna; che tu in realtà non esistevi per davvero, e che eri solo una figura inventata lì per lì per instillare nei bambini sogni e speranze. Incarnavi, in quei nostri sogni, la consapevolezza di un Babbo buono che dispensava doni a tutti, anche se noi bambini avevamo fatto un po’ i cattivi durante quell’anno. Eri, insomma, quella figura così umana che riusciva a ristabilire, con la sua risata da orco buono, la pace e la felicità in un mondo di ansie e di frenesie: che riusciva, in un certo senso, a ripristinare l’equilibrio ovunque andasse, ovunque fosse trasportato dalle sue renne (anche qui non si sapeva come) che volavano; esattamente come quando, lentamente e in un dolce balletto, cadono i fiocchi di neve ricoprendo tutto: non importa cosa ricoprono ma lo ricoprono e basta, e tutto sembra più bello come un sincero sorriso dalla finestra.
Ormai sono diventato grande e non penso di credere più a queste cose: non penso, insomma, che tu esista per davvero. Nonostante questa mia incredulità però, e la mia ormai tramontata propensione verso questo genere di credenze, ho deciso di scriverti una lettera lo stesso, sperando che in qualche modo (non so davvero ancora come) tu riesca a leggere cosa avevo da dirti per questo Natale.
Forse in questi tempi di crisi ho perso davvero il mio personale trasporto per ogni cosa, mi sento come se fossi in scacco e tutto fosse vano, nonostante i miei tenaci tentativi di creare qualcosa; di dare qualcosa a me stesso e a gli altri. Non so come siamo capitati a vivere questa orrenda situazione, ma so di per certo che quello che provo io lo provano tanto altri ragazzi come me: lo sento da loro, lo percepisco quando vedo i loro stanchi volti, nei loro sorrisi spenti. Gli stessi ragazzi che in passato sono stati bambini, esattamente come me, e credevano ciecamente e incondizionatamente in te, nella magia della speranza che dispensavi ad ogni Natale.
Ora, questi ragazzi si ritrovano ad essere dei bambini cresciuti: non solo sono disillusi da quel genere di magia che tu non facevi altro che trasportare con la tua polvere di stelle, ma si ritrovano anche ad essere completamente rassegnati e impotenti di fronte ad un futuro che ci prefiguriamo sempre di più come oscuro, sempre peggio, senza alcuna via d’uscita. Forse starò esagerando, forse non è tutto negativo come lo sto descrivendo io, ma è quello che sento, e penso che troverei tanti ragazzi della mia età pronti a sottoscriverlo così come lo dico, parola per parola.
Non so perché io ti stia scrivendo, forse perché davvero ho perso tutte le speranze e volevo ancora una volta illudermi. O forse perché, anche non credendoci più, credo nel luccichio festoso di quei bambini che ci credono ancora, ancora per poco, quel poco che basta e che avanza e che fa viaggiare incredibilmente le nostri menti, da bambini.
La crisi d’identità della nostra epoca è parecchio profonda; probabilmente da lassù, dal Polo Nord, te ne potrai chiaramente rendere conto, avendo una sguardo più prospettico e più comprensivo sulle cose; può benissimo essere. Quello che però voglio dirti, al di là di quello che tu possa realmente fare, e di presentarti nei pensieri di quei ragazzi che vivono brutalmente questa situazione, e di dispensare uno di quei tuoi famosi e barbosi sorrisi; e magari anche un abbraccio di speranza, se ti va, perché oggi, più che mai in questo natale, ne abbiamo veramente bisogno.
Forse sto parlando a nome di tutti impropriamente. Forse ancora una volta starò esagerando. Ma non penso che i ragazzi di oggi si sentano utili a far qualcosa. Non penso che siano veramente motivati nel fare quello che potrebbero fare in maniera eccellente, e magari non hanno ancora capito cosa possono fare di concreto, semplicemente perché nessuno li riconosce come umane potenzialità; perché nessuno, fondamentalmente, li riconosce, punto. Noi giovani dovremmo essere la risorsa del futuro, il motore del domani che verrà, e invece veniamo trattati continuamente come lo scarto, come un qualcosa che più passa il tempo e più si rendere invisibile; invisibile più che agli altri prima di tutto a se stessa. E allora ripieghiamo sul falso divertimento, sulle droghe, leggere e pesanti, per dimenticare. Per non pensare. Per staccare la spina da questa realtà: bruta, fredda e brutale... Senza emozione. Un realtà dominata dalle disuguaglianze più marcate. Dai ricchi che diventano sempre più ricchi e dai poveri che diventano sempre più poveri. Da una realtà egoisticamente concepita, che si fa beffa di tutto e di tutti e che acquista ogni dannata cosa al mercato dei consumi, perché solo lì e solo così gira oggi il mondo. Il liberismo economico ha sradicato il sociale che ci rendeva uniti, e tutti noi ora non abbiamo più un’identità solida con cui interfacciarci, con cui scambiare una parola di conforto. Certo, forse siamo dotati di più identità, quelle identità plurali che ci permettono di vivere in una società globalizzata dalle mille possibilità. Ma queste identità pluri-genere non hanno un filo conduttore che le riconduce alla nostra personalità: il mio carattere, la mia persona che crea nel mondo non avrà mai una dignità se non gli sarà concessa l’opportunità di averla; di poter creare qualcosa per il futuro dei miei di figli. E quindi tutti questi ragazzi spossati si ritrovano a casa, senza fare nulla, senza avere un lavoro da fare e un lavoro che ti consente di andare, via di casa: quel lavoro che possa in qualche modo redimerli dalla nullafacenza della loro misera condizione. Forse tu mi dirai: “Beh, dovrai impegnarti un pochino di più se vuoi ottenere qualcosa. Lo so che attualmente è più difficile di qualche tempo fa, ma se non muovi i primi passi non arriverai mai a nulla: nessuna possibilità piove dal cielo se non incominci davvero a fare qualcosa, tu, prima di tutto, in prima persona”...
In un certo senso, questa tua probabile affermazione in mia risposta potrebbe avere un senso, ma non quando noi giovani, risorsa preziosa per il futuro, siamo completamente lasciati a noi stessi; non quando il mondo ce l’hanno consegnato guastato e poi ci dicono “Vedetevela voi, noi non possiamo farci più nulla, e questo è...”.
La verità è che troppe politiche sbagliate sono state fatte nell’ultimo trentennio. Politiche di “sganciamento” e di riduzione dello Stato, nella convinzione che questo fosse il male in terra e che usurpasse le nostre individuali libertà. Si pensò che era meglio lasciare la società senza una direzione da seguire, senza una pianificata programmazione dall’alto, perché solo così si potevano realmente realizzare le singole libertà di ognuno: lo Stato-Nazione, la concezione di bene comune era troppo limitante in questo senso: bisognava cambiare.
In America, un gruppo di studiosi di Chicago pensò bene di riesumare delle idee “contro lo Stato”, idee e concezioni che erano state concepite, in origine, da degli intellettuali austriaci. Quest’ultimi pensarono che era meglio limitare i poteri dello Stato, perché avevano troppo vissuto male il periodo tra le due guerre mondiali, e non volevano assolutamente rivivere un ulteriore periodo in cui lo Stato si trasforma in uno Stato dispotico, in un dittatore che si arroga il diritto di “dirigere” e di dettare le sorti della vita di ognuno.
Così scrissero le loro idee di Società e, in un primo momento, non se li cacò nessuno. Poi questi giovanotti americani ritrovarono queste scritture e cominciarono a proporle alla nuova politica che avrebbe cambiato il mondo, che lo avrebbe reso più libero, più autonomo, più capace di creare ricchezza per tutti: e come non poteva sposarsi tutto questo con una cultura americana votata al progresso e che celebra il “Self-Made Man”, e cioè “L’uomo che si fa da sé”? E così abbiamo avuto la globalizzazione, che è stata, in un primo tempo, una sorta di americanizzazione e che, se da un lato ci ha permesso di confrontarci sempre più spesso con tanti altri popoli della terra (una figata!), dall’altro ci ha pian piano prosciugato delle nostre autentiche identità, quelle identità sedimentate nei nostri luoghi, quegli stessi luoghi che ospitano le nostre case.
E allora per poter sopravvivere a tutto questo dovevamo diventare egoisti, idolatrare il Dio denaro e fregarcene di tutti, tutti quanti, nessuno escluso, per andare avanti e pensare solo a noi stessi.
Ecco, io per questo natale non vorrei proprio nulla, davvero, perché se cominciassi a chiedere qualcosa poi vorrei troppo. Ma se ci penso un attimo però, su quel che voglio davvero, non penso che sia così difficile ottenerlo, da uno come te poi, che non hai mai fatto mancare nulla a nessuno.
Ecco, se proprio dovrei avanzare dei desideri vorrei...
Vorrei che le persone fossero un po’ più gentili, le une con le altre, perché è con la gentilezza che si misura il grado di civiltà in una società che si ritiene tale.
Vorrei che si cominci solo a sospettare (solo a sospettare, non a pensare seriamente) che il denaro, e tutto ciò che esso comporta, non è la vera felicità, e che porta solo alla miseria individuale, sempre e comunque: è una cosa che corrode e poi ti rende ancora più misero di prima.
Vorrei che i potenti della terra si rendessero conto di quanto siano soli e spregevoli nelle loro “gabbie” piene di lussi sfrenati, perché le loro fortune, e sono solo fortune (ereditate e guadagnate a discapito di altri), diventano davvero fortune se vanno condivise, con gli altri.
Vorrei che si facesse più beneficenza, quella vera, quella anonima, e non solo quella di facciata che si fa solo per avere un tornaconto di immagine.
Vorrei che alle forme si sostituissero di più i contenuti, e che l’apparenza ceda il passo al senso autentico che sempre c’è dietro, brutto o bello che sia.
Vorrei un mondo più uguale, con meno sperequazioni inique che fanno soffrire sempre di più la povera gente, che ha sempre lavorato e che si è sempre spaccata la schiena per poter fare qualsiasi cosa, anche per sorridere: vorrei più giustizia sociale.
Vorrei meno televisione e più libri, una biblioteca nella mia città piena di libri.
Vorrei più piazze piene e meno gente che riempie i supermercati.
Vorrei che a tutti i ragazzi fosse data la possibilità di studiare, come è stata data a me, perché lo studio è ricchezza, lo studio è saper leggere il mondo ma è, soprattutto, emancipazione dal sé.
Vorrei che fossero valorizzate le nostre distinzioni, le nostre differenze di qualsiasi tipo, di razza, di genere, differenze nei gusti sessuali, perché sono solo le differenze che creano le scenografie migliori: il piattume del gruppo dove tutti sono fotocopie degli altri mi annoia.
Vorrei che si pensasse di più agli altri e meno a se stessi egoisticamente, anche se questa cosa pare una cosa trita e ritrita e, ciononostante, non si riesce mai a fare per davvero.
Vorrei dei veri amici, e non quelli che ti girano le spalle alla prima difficoltà, o quelli ancora che ti sfruttano perché vogliono solo qualcosa per sé, tristezza.
Vorrei una ragazza che vuole viversi una relazione, seriamente e spensieratamente, e non che debba avere sistematicamente paura del dolore che potrà esserci dopo, qualora la nostra relazione abbia un termine: la vita è piena di alti e bassi e va preso tutto il pacchetto se si vuole vivere veramente, altrimenti cedi il biglietto ad un altro e rinuncia al tuo viaggio.
Vorrei che ci fosse più coscienza comune, in un popolo disorientato e ormai allo sbando.
Vorrei che si facesse più politica seria, perché la politica non è un male in sé: parla del nostro futuro. Sono quei poveri che al palazzo credono di avere le risposte che l’hanno svuotata di senso.
Vorrei un mondo più globale ma più globale in senso umano.
Vorrei che ci fosse più Stato e meno mercato. Lo Stato è la garanzia per i nostri diritti; il mercato, invece, se non ben regolamentato, è solo la giungla degli egoismi e dell’usa e getta per antonomasia.
Vorrei godermi un tramonto senza preoccuparmi di respirare delle polveri sottili e nocive, derivanti da un inquinamento selvaggio che ha ormai portato al collasso la nostra terra, che è malata e si ribellerà, fra non molto.
Vorrei più amore e meno menefreghismo.
Vorrei più considerazione per gli altri e meno quel via vai di gente che non si considera nemmeno.
Vorrei che tutto i soldi spesi per gli addestramenti militari, per le armi, e per la realizzazione di guerre fossero impiegati per rivitalizzare i paesi che non hanno davvero nulla (tante cose si potrebbero risolvere con quegli investimenti che chiamarli investimenti mi viene il vomito); perché queste pratiche, oltre a disumanizzare e togliere un cervello a chi di mestiere fa il soldato, non portano davvero a nulla, se non alla distruzione e alla morte. Questi addestramenti disumanizzanti non servirebbero neppure a fronteggiare un'improbabile invasione da parte di simpatici extraterrestri venuti da molto lontano: tanto ci farebbero il culo lo stesso.
Vorrei più luoghi e meno non-luoghi.
Vorrei stringere la mano a più persone che posso, perché so che, anche se a prima impatto possono anche non piacermi, avranno sempre qualcosa di diverso da dirmi.
Vorrei un mondo in cui i giovani contano, perché se poco poco ci viene data una possibilità, noi la sapremo di certo sfruttare, e vi renderete conto, voi, poveri padri increduli e sfiduciati e miscredenti, e che vi siete pappati davvero tutto, che noi, seppur con le nostre debolezze, siamo gli esseri al momento più innovativi sulla faccia di questo pianeta. E spacchiamo.
Vorrei, vorrei...

Lo sapevo Babbo Natale che, se ti avessi scritto, sarebbe andata a finire così: era da tanto che volevo scriverti tutte queste cose, ecco perché.

Un felice natale anche a te, dato che raramente ti viene augurato.

Anonimo

venerdì 20 dicembre 2013

Il regno della Solitudine

La solitudine è davvero una brutta bestia, è una specie di sovrastante spauracchio che quando ci intravede ci coglie alla sprovvista facendoci “buh!” e si diverte tantissimo nel vederci impauriti, surclassati, completamente impotenti davanti a quella cosa che davvero non riusciamo a gestire: facciamo di tutto a volte per rifuggirla, ad ogni dannata occasione in cui cominciamo a sentirne i primi distinguibilissimi segnali premonitori; in fondo non siamo che animali sociali, che hanno solo bisogno di un vivace fuocherello e di una sana e musicale compagnia per alimentarlo, tutto qui. Certo, ci sono anche momenti, attimi della giornata, in cui non vediamo l’ora di staccare da tutto e da tutti ("non voglio vedere nessuno!"), e di riprenderci finalmente le nostre pause personali, vagando, senza senso, nei flusso di quel nostro universo che è tremendamente e squisitamente soggettivo. Quando dico “squisitamente”, non significa che quel materiale che trova collocazione nella nostra testa abbia un sapere buono; questo può anche darsi, ma non è esattamente questo quello che voglio dire. Significa, invece, che quello che ci frulla in testa è solo nostro, personale, e che le altre “materie mentali” simili alle nostre non saranno mai identiche a quella (per fortuna) con cui, in un modo o nell’altro, siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. E quindi spesso, quando il rumore si fa troppo forte e l’acustica interiore diventa assordante, preferiamo gestire la cosa con un semplice gesto: abbassare lo schermo della nostra attenzione interiore e mettere tutto in standby; per favore sì, ecco, va molto meglio ora... È così che funziona la vita da solitari: viviamo un falso presente ipnotizzato da un qualsivoglia intrattenimento-droga (quello che capita a giro va più che bene), invece di riflettere appassionatamente su tutto quello che ci ha portato sino al qui ed ora e su quello che vogliamo; su tutto ciò che desideriamo enormemente fare nell’immediato più immediato che sarà qui a momenti o nell’orizzonte futuro: il passato tormentoso e il futuro assillante preferiamo quasi sempre metterli da parte: sono due torri belle cariche di paura mentale da evitare senza pensarci due volte. Il presente, quello Fico, quello spensierato che vola via in un attimo, viene vissuto solitamente in buona compagnia, mentre quello da gioco-solitario viene appiattito in attività di svago, in una presa di coscienza che è lenta a venire fuori; forse perché il tempo ci sembra sempre troppo poco e il suo veloce sgocciolamento ci porta speditamente, e senza accorgercene, nelle braccia tenerose di Orfeo (ma quanto sono morbide e consolanti e paffute a fine giornata le braccia-cuscino di Orfeo? “Orfeo, sì dico a te, sei proprio un’entità simpatica e piumata e benevola; te lo dovevo proprio dire, per fortuna che ci sei, anche se non ti conosco poi così tanto bene, e forse sarà proprio per questo..."). E quindi tic e tac, le lancette dei minuti del simpatico orologio che troneggia in soggiorno sono governate dalla lancetta dispotica dei secondi: è lei, fondamentalmente, l’ape regina che fa scattare le loro arcate ripetitive e circolari. E il tempo passa e tu, nel frattempo, hai esaurito lo svago esterno, quello artificialmente indotto, fatto d’immagini, d’informazione, di shopping sfrenato sotto l’albero delle feste illuminate di rosso, di tempo sprecato davanti a pagine digitali e super e ipertestualizzate che scorrono come rulli inferociti e che ti rimbalzano da una parte all’altra come la scia invisibile di una pallina da Ping Pong, manco fosse Forrest Gump (respect) a disegnarne le traiettorie posizionato di fronte all'altra parte del tavolo verde rialzato a mo' di pannello verticale, di modo che, da solo e saggiamente, può dialogare di battuta e risposta in tutta tranquillità (che uomo lungimirante). Insomma, arrivata una certa non se ne può più e quindi stacchiamo (da notare che “staccare” è un termine, un verbo in questo caso, che fa riferimento al mondo delle cose, e noi non siamo il-mondo-delle-cose). La verità è che questo mondo sociale ci ha de-contestualizzati, de-spazializzati gli uni dagli altri, e i nostri affetti più cari sono così tremendamente lontani che non ce ne capacitiamo; il ché può comportare una gioia impagabile nel momento in cui sboccia il tanto atteso ritrovo ma che, alla lunga, il più delle volte, ci condanna a vivere miseramente la nostra assordante condizione di solitudine esistenziale. Le persone sono sole, che lo vogliano o no, e questo è proprio tangibile, davvero prorompente... Può essere una mia pippa, un qualcosa che sento ingiustificatamente dal di dentro, ma è la percezione che si avverte, perché i nostri dialoghi, i nostri incontri, sono ormai costantemente commisurati su ciò che succede su uno schermo illuminato, su una pagina che alla fine è solo virtuale, e che toglie carne alla carne, spirito a quello spirito già andato e bello immesso, tramite parole luminescenti e ultra-veloci, su una tastiera stanca e accartocciata; una tastiera che ormai riconosce a memoria le nostre impronte digitali e che risulta levigata dalle loro ripetute e costanti pressioni: queste, non sono altro che le pressioni del nostro Io desideroso di fuoriuscire, scalpitante per farsi mondo, ma che, per ora, risulta essere solo in formato digitale, e ingabbiato, in una sfera invisibile ma ciononostante così urgente socialmente, e che fino a questo momento non ne conosciamo esattamente le sorti: ci fa spaziare in un mondo che non sappiamo dove ci porterà. E quindi in questo momento voglio solo il mare, e imprimere il mio Io solo su di Lui, e da solo con Lui, con quelle sue violente ondate invernali trasportate dal vento soffiante che si scaraventano sulle coste di casa, e che vengono in fine a prelevare ogni particella del mio pensiero, quel pensiero minuto e spicciolo e così personale che con quelle onde potrà davvero raggiungere ogni dove.


Accozzaglia di pensieri tramutati in parole con i Sigur Ros trapiantati nelle orecchie.  

mercoledì 18 dicembre 2013

All that Is Solid Melts into Air

Viviamo nell’epoca della dimenticanza, di un oblio crescente e perpetuo. Mi sa che ci siamo talmente dentro che ormai le nostre braccia sollevate in alto non riescono più a gesticolare per imitare un seppur lontano SOS (“Save our souls” – oppure “Siamo Ostinatamente Spacciati”). Questo non vuol dire che dimentichiamo sempre più spesso cosa abbiamo mangiato ier l’altro; questa dimenticanza, penso, sia orami per tutti quanti all’ordine del giorno (Allora? Cosa hai mangiato di buono? T’è venuto in mente? A me no). È piuttosto un’amnesia più profonda quella di cui sto parlando, un’ amnesia che identificheremo come collettiva, ovvero la dimenticanza del nostro povero e abbandonato e ormai chi se lo ricorda più patrimonio culturale (cioè quello che andava sedimentato, quello che doveva “incidersi” per sempre nelle nostre menti).
Come è potuto accadere tutto ciò? Che cosa significa che la nostra memoria viene abbandonata a se stessa senza alcuna preoccupazione da parte nostra? Perché siamo diventati talmente noncuranti da condannare sistematicamente le nostre personali, abituali e/o cognitive memorie all’oblio? Beh, a dire il vero, un po’ di cacazza c’è stata, e precisamente a partire da quell' infernale periodo in cui l’intero mondo era diventato carne da macello, e stava letteralmente implodendo in quelle che sono state le catastrofi più disumane di tutti i tempi: i due tremendi conflitti mondiali. E allora come si è cercato di rimediare a tutto ciò? Cosa ha fatto l’uomo saputello e così colmo di rimorso? Ha utilizzato l’antidoto dell’ipermnesia, ovvero quell’attività maniacale che si identifica, precisamente, nel recuperare tutto il recuperabile affinché questo materiale mnemonico non venga dimenticato; un’attività parecchio febbrile, a dire il vero.
“Se rappresentata attraverso un diagramma cronologico, la produzione virtualmente infinita di libri e articoli sulla memoria culturale a cui si è assistito negli ultimi vent’anni assomiglia a una febbre sempre crescente, come quella di un malato le cui condizioni sono registrate su una cartella clinica.” Ma come avete fatto ad indovinare?? Uau. Sì, proprio così, viviamo in una società malata di amnesia, in uno stato di malattia terminale dovuta alla mancanza di memoria per ogni cosa. Ecco perché il tema della memoria è oggi tanto sentito, guai a toccarglielo: sarebbe un oltraggio!
In passato, l’”arte della memoria” garantiva un ordine alle cose utilizzando la topografia, e cioè la rappresentazione grafica dei luoghi. Il luogo o l’insieme di luoghi, reali o immaginati, funzionano un po’ come una griglia, su cui poi vengono situate in un certo ordine le cose che si dovrebbero ricordare: così si ripercorre mentalmente la griglia dei luoghi attraversandoli uno dopo l’altro. Il presupposto dell’intero sistema è che l’ordine dei luoghi possa preservare l’ordine delle cose da ricordare. In risposta alle atrocità delle due guerre prima menzionate cominciarono ad elevarsi monumenti commemorativi, perché fondamentalmente “la minaccia dell’oblio genera la commemorazione” ma, reciprocamente (e paradossalmente), “la costruzione di monumenti commemorativi genera a sua volta oblio”. Bel casino.
E perché mai tutto ciò? Perché, evidentemente, i monumenti ai caduti, ad esempio, nascondono in realtà il modo in cui i soldati morivano; nascondono i cosiddetti “incidenti” di guerra e quindi operano una selezione forzata su ciò che dobbiamo ricordare e su quello che verrà praticamente omesso. Con l’”aiuto” dei monumenti, non ricordiamo mica il sangue, i pezzi di corpi che volavano in aria, i cadaveri maleodoranti che rimanevano per mesi senza sepoltura; ma immagazziniamo solamente una piccolissima parte di tutto quello che, con le cose obbrobriose, davvero non c’entrano nulla: abbiamo una flebile memoria “distorta”. E quindi “il bisogno consolatorio di rendere le azioni passate apparentemente necessarie costringe la gente a dare senso a cose che non avevano senso”.
Il problema della dimenticanza ai giorni nostri però, è legato anche al modo di concepire e di vivere l’esperienza individuale del tempo. Si può parlare, ad esempio, del tempo del processo lavorativo, che ci viene completamente oscurato. Sappiamo qualcosa, per caso, riguardo al processo di lavorazione che c’è dietro, ad esempio, alla costruzione di quel divano dove ci accomodiamo ogni sera per cercare un ristoro al termine della giornata? Io so solo che è comodo (in realtà no; è comodo perché sono distrutto). E ancora. Si può parlare del tempo di sopravvivenza degli oggetti che ci circondano, che hanno (non dimentichiamolo!) una vita propria; e sprizzano anche di sentimenti da tutti i pori... Dicevo, gli oggetti ormai vivono di più del loro valore di scambio piuttosto che del loro valore d’uso (quanti "iPhone" hai cambiato nella tua vita? Ti senti in colpa perché hai solo il modello precedente? Su, non fare così! Non vedi che a Milano, ovunque ti giri, i palazzi più elevati vogliono donarti una specie di conforto dicendoti, in maniera plateale, che solo per te, per la tua “salvezza”, è uscita l’ultimissima versione superfiga che non ha ancora nessuno? Dai corri! Che cosa stai aspettando? Sei già fuori moda bello mio, e ricorda la tua “dea moda” sparisce altrettanto rapidamente quanto rapidamente compare; ecco che arriva la famosa obsolescenza programmata, sì, proprio lei...).
Quindi il valore d’uso degli oggetti se ne va a farsi friggere (“Ehi, che ne sai! Il mio preistorico cellulare Nokia non sai quante volte mi è caduto nel cesso: è praticamente indistruttibile... Però sai, lo uso anche come secondo cellulare”). Se il valore d’uso va a farsi benedire, noi dimentichiamo la nostra storia “romantica” con quell’oggetto. E ancora. La temporalità delle nuove carriere lavorative, tutte precarie e tutte con una data di scadenza che ritma la nostra “grande motivazione” al lavoro; e sì, perché si sa, noi giovani siamo troppo choosy. Questo fenomeno, della carriere lavorative precarie, non fa che concentrare il nostro lavoro sull’esperienza immediata, e non ci permette di dare una continuità storica a quello che facciamo. E quindi? Anche qui oblio, sfiducia culturale.
Poi c’è la celebre dimenticanza provocata dallo sviluppo scriteriato delle grandi città, delle scale di insediamento urbano, che non si sviluppano più attorno ad un unico centro focale (prima, infatti, c’erano le grandi cattedrali che davano un gran esempio di memorabilità), quel punto d'incontro e di sensibilità culturale che permetteva un orientamento spaziale per le strade della città. Ora ci si sono questi sviluppi urbani un po' amorfi, che si propagano ovunque e per ogni direzione: le cosiddette città policentriche. Questi centri urbani sconnessi sradicano letteralmente la loro memoria storica (questo per fortuna in Italia è ancora un processo limitato; ma non temete: ci stiamo arrivando anche noi – poi in una prossima puntata vi parlerò delle “Gated community”, gran bel mondo anche quello).
Ci sarebbe ancora molto da dire... Ma arriviamo a quello che ci tocca di più da vicino, anche ora, in questo momento: il bombardamento informativo. “Un’eccessiva informazione, sembra, è uno dei migliori stimoli a dimenticare”.
Vi lascio  alle parole di Paul Connerton, l’amico che, sussurrandomi all'orecchio, mi ha aperto gli occhi su questa nostra tremenda, e spesso inconsapevole, tendenza a dimenticare: “Accelerando il tempo, l’uso del computer immerge gli individui in un iperpresente, in un’immediatezza intensificata che, allenando l’attenzione dello spettatore a una rapida successione di microeventi, rende ancora più difficile concepire come “reale”anche il passato a breve termine, poiché il presente è percepito come un periodo di tempo rigorosamente delimitato e del tutto slegato dalle cause passate. Non è forse un caso se il termine “connessione”acquistò un tale rilievo nel discorso pubblico grosso modo all’epoca della guerra del Golfo: esso segnala una mancanza che cominciava a farsi sentire. [...] L’informazione che oggi inonda l’ambiente in cui viviamo – ed è forse significativo che in questa espressione corrente il verbo faccia riferimento all’elemento acquatico, che non si può tenere in mano – sposta le cose che non si possono afferrare fuori dal nostro milieu. Una memoria di computer o un’immagine elettronica sono delle “non cose”, nel senso che non si possono prendere in mano; sono accessibili solo con la punta delle dita. Qualsiasi tentativo di afferrare le immagini elettroniche su uno schermo televisivo, o i dati contenuti in un computer, è destinato a fallire. [...] Oggi, una parte sempre più grande dell’umanità produce informazione e una parte sempre più piccola produce cose. L’umanità è sempre più dominata da coloro che controllano questo tipo di informazione. La mancanza di solidità di una cultura da cui le cose sono sempre più assenti sta diventando parte dell’esperienza quotidiana. Tutto ciò che è solido si scioglie e diventa informazione”.
Tanta roba. Grazie Paul.


Fonte:
Paul Connerton, Come la modernità dimentica, 2010, Einaudi, Torino.
         

domenica 15 dicembre 2013

Dipinto d'attesa

Ti cerco in stazione, e il formicaio di gente annebbia il mio campo visivo

Sagome inferocite impazzano in tutte le direzioni come se non ci fosse un domani, ma con un loro preciso perché

Spaesato, inchiodo sul binario di attesa e divarico la mia propensione verso di te, in uno stato di speranza perpetua, un sogno che già non è più sogno ma è ancora sogno consapevole

La frenesia del visibile si fa sempre più impattante e la mia intelligenza deglutisce, diminuendo

Accorrono alla mente le nozioni di psicologia delle folle, in cui si spiega accuratamente l’inspiegabile smarrimento dell’intelligenza, una sorta di sopravvivenza infantile che segue automaticamente una corrente invisibile, un miasma non troppo confortante

L’interferenza della pubblicità mi assale, e il suo rumore è associato a distruzione, disordine, sporcizia e inquinamento: nulla di più lontano da quello che sto cercando in questo momento

Le luminescenze giallastre e scorrevoli si irradiano da schermi altolocati che dettano il ritmo degli arrivi e delle partenze, e nulla ti è mai sembrato così distante, espansivo in senso lontanamente prospettico

Questa distanza la percepisco ansimando, e più carico i polmoni di agitazione e più nitidamente si intrufola dentro di me la distanza che ancora ci separa

Ancora fermo ricevo calci a rotelle di valigie, spinte fortuite di sgomitate che sventolano un biglietto in mano per una partenza imminente verso un luogo sconosciuto, ai più

Il fascino illimitato dell’attimo si dilata, e quell’attimo diventa una somma di attimi arrestati e bistrattati, da tutta quella confusione che mi gravita attorno e mi scuote di un turbamento fastidioso e concitato

E poi senza mediazioni finalmente una luce, il tuo sorriso che mi intravede, fende il riconoscibile e si fa largo, tra braccia rotelle pellicciotti leopardati cani al guinzaglio borse a tracolla pacchi su pacchi cellulari attaccati alle orecchie volti liquidi: tutto si dilegua nel rigurgito di destinazioni proteiformi

La tua andatura segue un ritmo etereo e, improvvisamente, in un dolce batter ciglio, detiene la premura di disperdere il caos che fino al momento immediatamente prima mi avevo reso bloccato

E allora mi sblocco, scateno i miei arti dalle catene dell’invisibile circostanza dispotica e m’incammino nel raggiungerti, in un passo più sicuro del sole che albeggia

Le nostre traiettorie si congiungono in una sola linea, in quella linea che si trasformerà in un abbraccio

E allora il tuo contatto giustifica quell’attimo prolungato d’attesa, l’unico tra infinitesimi di contatti evanescenti e trascurabili e senza sosta, l’unico che si materializza e non scompare

Ti bacio, e quel bacio è l’eternità che si scrive da sé suoi nostri diari di bordo, un'eternità che deborda d’inchiostro sbavato; i confini non ci appartengono

Il suono della tua voce mi porta a casa, e l’inforchettata delle nostre dita intrecciate accompagna il ricongiungimento alla fine solo nostro, l’unico che ha il potere prolungato di scandire le melodie armoniche che suggelleranno il nostro nuovo percorso che verrà, assieme

venerdì 13 dicembre 2013

Il manifesto dell’amore postmoderno

L’amore si sa: è l’amaro dolce conduttore che fa muovere le nostre anime, in un verso o nell’altro, pur non riuscendo mai e poi mai a identificarne il significato, il senso che si cela dietro questa misteriosa fascinazione che ci fa volare di stupore, di incantamento al principio, ma che poi, quasi all’improvviso, ci schianta senza mezzi termini sul tappeto del rimpianto. “L’amore opera in segreto i suoi incanti, le nostre decisioni sono irrilevanti”; questo aforisma cerco di tenerlo sempre a mente, non si sa mai. Ma non è propriamente sull’amore che vogliono discorrere, come fatto in sé, perché oltre ad una questione piuttosto difficile da spiegare, penso che ognuno di noi avrà sicuramente da dire la sua, e le diverse e “incazzose” versioni a riguardo saranno tanto diverse quanto diverse saranno le situazioni e le esperienze peculiarmente capitate a casaccio e senza un perché (che divertimento). E il bello di tutto questo sarà sempre e comunque il fatto che, come concetto, come miscela di sensazioni e di vissuto personale, questa “cosa” non potrà mai essere né catalogata né mai pienamente interpretata: è solo passibile di visioni puramente soggettive, e questo è, in un certo senso, il suo attraente e lontano mistero, la sua carica che ci invade fino al midollo per poi finire nel distruggerci. Vorrei, invece, fare delle considerazioni sull’amore come esperienza sociale, e quindi cercare, nelle mie possibilità, di concentrarmi su come l’immaginario collettivo tenti di identificare un generico rapporto di coppia in un’ottica un po’ diversa, un po’ più ampia, nell’amplesso societario che ne riconosce la nascita e gli eventuali e controversi sviluppi. Ovvia, partiamo!

L’età postmoderna, per come viene attualmente vissuta, può essere vista come un collage di esperienze, di tasselli che abbiamo l’opportunità di incollare sul nostro mosaico personale grazie alle miriadi di possibilità e/o potenzialità che ci vengono offerte o che abbiamo a nostra disposizione, chi più chi meno (“a ciascuno il suo”). Questo vissuto, non può che emergere in maniera impeccabile da un ambito che indaga, come nessun altro a mio parere, il mistero e il senso dell’essere umano: la letteratura. I romanzi, è risaputo, racchiudono il sentire umano dell’epoca a cui fanno riferimento; cercano di estrarne, per quanto possono, l’essenza. Per questo motivo, per avvicinarci di più alla società in cui viviamo, e per cercare di capirci qualcosa una dannata volta, dobbiamo in un certo senso affacciarci a quei particolari romanzi che, dalla critica o comunque da un lettore qualunque, vengono letti come “innovativi”, e dove si può chiaramente evincere lo scardinamento del romanzo tradizionale. Per definizione, il romanzo propriamente postmoderno, quello che, nello specifico, ha il potere di ammaliarci per la sua “diversità inconsueta”, è un romanzo enciclopedico; ciò vuol dire che, al suo interno, si può trovare di tutto: accanto alla quantità smisurata di linguaggi e di invenzioni narrative dettate da una schizofrenia data per scontata, l’autore sviluppa la storia che vuole proporci, che non è altro che un insieme ingarbugliato di tante e infinitesime storie, tutte diverse le une dalle altre. A prima impatto ci si può ritrovare spiazzati, e non si riesce bene a cogliere dove l’autore voglia andare a parare. Tutto questo però permette di affermare che Il meta-romanzo, o il romanzo vecchio stampo (come volete), seppur nella sua indiscussa utilità nel rilevare le origini del pensiero e degli sviluppi umani, non attecchisce poi più di tanto l’immaginario che vuole, per sue necessità interne, concentrarsi consapevolmente nella perlustrazione del tempo presente. Certo, poi c’è da prendere in considerazione la categoria dei “classici” che, non è un caso, vengono etichettati così proprio perché la loro potenza espressiva ha qualcosa che ha a che fare con la loro intramontabile attualità, ma questo è un altro discorso. Il romanzo postmoderno, diversamente, mette in luce quelli che sono gli “sperimentalismi” di questo mondo sociale, e non c’è nulla di più azzeccato di questo per leggere la riconfigurazione dell’epoca attuale. Viviamo, infatti, nell’epoca dei racconti diversissimi ma che, per necessità, devono legarsi l’uno l’altro in una narrazione collettiva se vogliono solo pensare di sopravvivere. Un po’ come succede nei romanzi di nuova generazione: l’autore cerca sempre, velatamente, di tessere un filo rosso generale che permetta di afferrare le redini della complessiva (e a volte davvero complicatissima) situazione narrativa. Declinato alle nostre vite, il no sense che ne deriva può essere attribuito proprio a questo: all’incapacità generalizzata di dare un senso logico-narrativo alle nostre diverse esperienze che facciamo, ai nostri racconti personali, di modo che possa avere anche solo una minima parvenza di un filo che riconosciamo come “conduttore”. E allora, le relazioni sociali diventano fiacche, evanescenti, legate solo alla provvisorietà del momento, all’esperienza specifica vissuta in quella circostanza. E ci ritroviamo ogni volta a ricominciare tutto da capo senza sapere il perché, senza comprendere pienamente perché ci barcameniamo così tanto (“ma io dico: chi me lo fa fare?”). Ed ecco che arriviamo alle relazioni di coppia, tanto odiate quanto osannate. Non molti anni fa, una relazione di coppia era vissuta all’interno di un quadro narrativo solido, stabile, in cui si sapeva benissimo quali erano le tracce della trama da seguire: era solo necessario riempire quelle tracce, quei consigli prescrittivi dettati dalla società e compierli, metterli in atto nella propria vita, mettendoci del proprio come coppia, come un progetto costruito solo e sempre insieme; quindi il proprio progetto biografico era un duo, e questo comportava, in molti casi, il “sacrificio dell’individualità”. Di questi esempi, di “narrazione di coppia”, ne esistono ancora; certamente: il cambiamento e la rimodulazione di un’epoca non può buttare via l’acqua sporca assieme al bambino, e quindi lavarsi le mani di tutto quello che l’ha creata e quindi preceduta: non può spazzare con noncuranza il “tradizionale”; anzi. Quest’ultimo è vitale al cambiamento, all’innovazione che nasce e si costruisce per differenza (quanti amici che stanno per o sono già sposati avete?). Fondamentalmente, le relazioni di coppia odierne si sfasciano dopo due secondi perché non vi è un progetto comune alla base. Sono due progetti individuali che viaggiano sì parallelamente ma che pensano solo a sé: in pratica sono votati al mero soddisfacimento dei bisogni personali che, per attualizzarsi, decidono di “fare coppia”. Di conseguenza, più andremo avanti e più il “vecchio” progetto pensato in comune non avrà più ragione di sussistere: la nostra condizione esistenziale individuale naviga troppo nell’incertezza già per noi come singoli, figuriamoci che cosa può succedere se due “incertezze di vita” decidono di mettersi insieme: esplodono nel no sense immediatamente, e si distanziano (dopo che, alla fine della fiera, si è fatto praticamente tutto insieme dopo i primi 3 mesi di indiscusso romanticismo; e voglio azzardare: ma la soglia di “sopportazione” di quel romanticismo, che appassisce come una rosa senz’acqua, potrebbe essere decisamente più bassa). E quindi che si fa? Bella domanda.
Penso che l’individualismo, con tutte le pecche di egocentrismo che si porta con sé, riservi anche delle conquiste e delle possibilità formidabili. Non possiamo più tornare indietro, assolutamente. Dobbiamo invece sempre guardare avanti con una sbirciatina arricchente che volge lo sguardo al passato, che ha sempre qualcosa da insegnarci (non si sbaglia per imparare? O si sbaglia e basta?). Dobbiamo cercare di re-inventarci, prendendo spunto dal passato ma senza troppi formalismi, e cioè dando respiro al formidabile potenziale che è in noi. La coppia, quindi, deve vivere delle sue risorse di individualità e cercare, al contempo, di costruire quel filo rosso che la distinguerà da tutte le altre (dalle altre coppie e dal mondo in generale); il ché non significa un vincolo insormontabile che trascura e annienta pian piano le risorse-soggetto. Una coppia vera, al passo con i tempi, deve infatti sempre conquistarsi l’evasione dalla sua auto-referenzialità; si deve, in altre parole, fare discorso nel mondo, esattamente come avviene nei romanzi postmoderni. Per sopravvivere in questa società nell'ambito di un rapporto duale, dobbiamo scrivere il nostro romanzo postmoderno di coppia, insieme, cooperando col nostro partner. Questo ci consentirà di vivere bene la nostra storia con l’aiuto di quel “materiale” grezzo che le singole individualità attingono dalle proprie esperienze e che, quindi, scelgono consapevolmente di condividere all’interno del loro nucleo amoroso. Racconti diversi, dunque, diversissimi l’uno dall’altro, ma che poi cercano di fare un lavoro di auto-riflessione, prima con il suo protagonista e poi assieme all’altro protagonista parallelo: il nostro partner. Certo, i romanzi postmoderni sono anche celebri per confondere con queste strampalate comparse che incontriamo durante il loro percorso narrativo: alle volte ci sono sacchettate di personaggi che non si capisce più nulla. Vogliono solo metterci in guardia però: nel mondo, le comparsate ci devono essere e ci saranno sempre. Ma i personaggi principali, quelli che veramente hanno una cognizione di tutta la storia e sono collegati in qualche modo con tutti gli altri personaggi, si riducono a due o tre. Ecco, poiché la coppia, lo dice il nome stesso, prevede solo due personaggi - che sono, a livello societario, fondamentalmente il suo fulcro, il suo punto di partenza - dobbiamo diffidare dalle comparse che ci distolgono dal nostro percorso e che molte volte (birbantelli!) "utilizziamo" istintivamente in senso egoistico: queste devono solamente arricchire la coppia di nuovi spunti, di nuovi vissuti, e non traumatizzarle e dunque estinguerle. Nel rispetto del nostro partner, infatti, dobbiamo evitare di ricadere nella concezione dell’amore perseguito come “quantità”, come concetto consumistico di usa e getta. Se si sceglie di stare con una persona, di amarla, bisogna inventare insieme e scrivere la propria storia fugando l’indefinito, il caos che ci sovrasta e che incombe su di noi rendendoci sempre e comunque spaesati. Dobbiamo evitare le tipiche situazioni di coppia dei nostri tempi e dove si narra, sistematicamente e in ogni occasione, che “Cominciarono soltanto a frequentarsi, in quel territorio crepuscolare che sta tra l’essere solo amici e quello che, qualunque cosa sia, non è amicizia” (DFW); situazioni in cui finisce poi tutto quanto, e bisogna ricominciare tutto da capo. Del resto, in certi casi sbagliati, potrebbe essere solo una salvezza. Ma non sempre: il nostro istinto "sano" saprà sempre ben consigliarci che, probabilmente, quella è la persona giusta per noi.
Un sano Amore a tutti.

sabato 7 dicembre 2013

Il sociologo idraulico

Macchine, macchine formato casa ovunque; un fiumana lenta e inesorabile di file incolonnate di macchine che accarezzano tappeti di strade infinite; paesaggi scorrevoli e cullati per valli mozzafiato; distese di lande che si perdono a vista d’occhio; stuoli di alberi imponenti a guardia di foreste all’apparenza sterminate; aquile silenziose che sfrecciano in lungo e in largo per il vasto cielo terso spazzato dal vento: ero finalmente entrato nelle cosce del mondo, tra le braccia dell’America vera; quella cinematografica era solo un ricordo. Dopo quel viaggio infinito dal vecchio continente, lo scombussolamento imposto dal jet leg non si era fatto ancora vivo: mi stava concedendo l’ebbrezza del momento, la possibilità di colmare di stupore quei miei occhi assetati di risposte. Il rinculo di quel catapultamento in un altro mondo avvenne una ventina di ore dopo, quando, senza forze, annegai in un sonno che ti fa dimenticare praticamente tutto, persino del fatto che sei nato e che esisti, ma che dopo ti consente di risvegliarti con la mente riformattata, pronta per alzarti in piedi nuovamente, e di calpestare una sorprendente terra sconosciuta. Ero in visita da parenti, parenti nati lì ma col sangue italiano in circolo, e questo era fieramente evidente. Una famiglia che non aspettava altro che te, per accoglierti e confrontarsi, per tastare con mano la diversità della loro eredità, un’origine orgogliosa che parlava spesso italiano senza tuttavia conoscere i suoi meravigliosi idiomi. La maggior parte degli americani che ho incontrato lì, infatti, erano soliti presentarsi anteponendo la loro origine ereditaria al radicamento del posto. Ciò mi sorprese alquanto. Ti vedono come un alieno, come un essere molto lontano dalla loro percezione di vita; una percezione molto distorta devo dire, che si rifà al luogo comune per poter sopravvivere e identificare una persona che dice di provenire da un altro pianeta. Ma era divertente, soprattutto per un sociologo in fasce come me. Riuscivo a leggere il confronto, a scardinare quelle che erano le loro ingenue conoscenze, presentandomi e dando manforte alle meraviglie della terra da cui provengo. Devo dire però che gli americani sono piuttosto innamorati dell’Italia, e penso che la maggior parte di loro darebbero non so cosa per poter visitare il nostro paese almeno una volta. Quando sentivo da loro tutto ciò, quando percepivo il loro fantastico e sconfinato immaginare le nostre città, il nostro bel paese, capivo che ero molto fortunato: tutto il pianeta invidia la nostra terra, e non sempre riusciamo bene a capirlo. Quando sei fuori il tuo paese ti manca, e loro ti dicono esattamente il perché. Penso che questo discorso possa essere esteso a tutti gli esseri umani: in fondo, non c’è posto più bello di casa tua. Ma quando sei fuori devi saper ben gestire questa cosa, e non lasciarti prendere mai, e dico mai, da un discorso solo lontanamente denigratorio che possa buttare una brutta luce su ciò che ti appartiene. Se lo fai non fai altro che buttarti fango addosso. E questo non va assolutamente bene. E quindi ormai ero giunto, felice come una pasqua, tutto vivace per questa nuova avventura. Mi proposero di lavorare per guadagnare qualcosina, giusto così, per pagarmi le spese per le uscite e i divertentismi vari. Allora indossai un elmetto, un jeans bello imbottito, e delle scarpe infortunistiche piuttosto cicciotte, e andai per cantieri. I miei parenti gestivano un’azienda d’impianti d’idraulica, impianti che interessavano case mono-familiari o anche complessi di appartamenti belli grandi, tutte case nuove di zecca che venivano tirate su dalle fondamenta. Non facevo l’idraulico, anche perché non possedevo né la pratica né le conoscenze adeguate. Ero solo un sociologo neo-laureato che si faceva grandi pippe sul funzionamento dei sistemi di welfare: nulla di così discordante, potrete capire. Ero stato “eletto” dunque come un aiutante, un tipo tutto italiano con l’elmetto blu, e che si occupava di smartellare tutto il giorno delle placche di metallo che dovevano proteggere delle insenature di legno da dove passavano tubicini blu e rossi: le vene e le arterie che avrebbero poi un giorno rifornito di acqua calda e fredda quelle case in costruzione. Durante il lavoro incontrai i personaggi più bizzarri: la vita di cantiere va esplorata, e i pregiudizi non reggono, come per nessun’altra cosa. Quindi, mentre camminavo tra un piano e l’altro, tra scintille di seghettature e carichi di fili conduttori in alluminio, ti trovavi squadre di muratori, equipe di elettricisti, tutti con i loro disegni e le loro mappe e opere da compiere: tutti lì, a lavorare faticosamente e amorevolmente assieme per realizzare pareti e tetti solidi che avrebbero permesso la vita, un bel giorno, ad altre persone; a famiglie che volevano costruirsi in quelle case una loro vita. Devo dire che questi ambienti sono formidabili. La collaborazione è fondamentale, e tutti, proprio tutti devono lavorare propriamente in squadra per far funzionare le cose. E poi ognuno deve possedere quelle qualità idiosincratiche che, nella fattispecie, non sono altro che l’acquisizione di esperienza che ti consente di svolgere il tuo lavoro e di aiutare chi lo svolge con te. Noi entravamo in opera quando i muri in legno erano già stati issati su, e potevi già camminare attraverso uno scheletro di stanze che pian piano si facevano carne, per assomigliare poi alle case che, belle e finite, conosciamo tutti. Una carne fatta di particolarismi dettagliati, tutti ai loro posti come designato sulla carta. Quelle volte in cui avevo la possibilità di lavorare in quegli ambienti totalmente nuovi per me mi davo enormemente da fare con il compito assegnatomi, ma, nel frattempo, senza dire nulla a nessuno, consentivo alla mia anima da sociologo incallito e osservatore di venire fuori e di scoprire. Perché il vero sociologo deve essere proprio un fottuto curioso ma tranquillo esploratore. E allora improvvisavo “interviste” estemporanee ad alcuni di quei personaggi che lavoravano nella mia squadra, gente che, ovviamente, non sapeva nulla di quello che segretamente stavo facendo: stavo mettendo in pratica quella che viene chiamata in accademia “osservazione partecipante dissimulata”, e cioè quando i soggetti “studiati” non sanno di essere osservati, perché altrimenti snaturerebbero il loro normale modo di agire con il loro potenziale imbarazzo che ne potrebbe derivare. Infatti, le ragioni “invasive” del ricercatore potrebbero in qualche modo contaminare il normale dispiegamento della vita di tutti i giorni presa in esame. Feci questo un po’ come il famoso sociologo italiano Dal lago, che si improvvisò ultrà e andò ad immergersi nella sub-cultura da stadio, stessa cosa. Solo che non ero, e non lo sono tutt’ora, un esperto di queste cose, e facevo il mio in maniera casereccia, tutto con chiacchierate veramente disinteressate: non avrei poi scritto un report o altro per una ricerca sociale commissionata da chissà chi; ero solo me stesso con la mia esperienza, e questo poteva più che bastare. E allora, come Dal Lago, mi immersi in quel mondo, e forse, come lui, dopo un po’, tanto era la vicinanza, la prossimità, che mi sentii davvero contaminato: riuscivo a vedere come loro. Strano ma vero, dopo un po’. È stata una bella esperienza, originale e molto formativa. A parer mio, un vero sociologo non deve stare dietro una cattedra, ma devo ascoltare, sentire, stare in mezzo alla gente, e cercare di mescolarsi a quel tutto che poi alla fine spontaneamente riesce a parlarti, dirti realmente le cose come stanno. E questo non vale solo per i sociologi, vale per tutti, tutti noi, tutti quelli che seriamente vogliono dare un loro solido e valido contributo all’essenza di questo mondo. E diffidate da quelli che dicono, demagogicamente e ripetutamente, che “bisogna sentire le ragioni della gente”. Chi ripete queste frasi, nella maggior parte dei casi, non sa proprio nulla di quello che le persone sentono, vogliono, desiderano... Il sentimento della gente ce lo si guadagna, col tempo, e non semplicemente lanciando frasi ad effetto che distolgono la mente intenerendo falsamente le anime. Anime perse ma non stupide, perché, in fondo, ognuno di noi ha le proprie ragioni, sbagliate o giuste che siano. Amen.                   

giovedì 5 dicembre 2013

Can we just work it out?

È inverno, e fuori, in quella città medio-grande che ti ospita, fa un freddo boia. Vivi una vita abbastanza normale e mentre cerchi di vivertela e di capire come funziona cerchi anche di non lamentarti, sarà meglio. A questo proposito, ti ricordi sempre di baciare terra e, quando puoi, di osservare il mare e il suo sconfinato soffitto di cielo corrispondente: fa solo bene. Solo per il momento, hai un lavoro precario che finisce praticamente dopodomani, e un affitto stellare da pagare, ogni mese. Condividi quella che chiami casa, che è poco più di un semplice alloggio temporaneo e che, manco a dirlo, è terribilmente precario anche lui, proprio nelle fondamenta. Dicevo, condividi questa casa dell’anteguerra – quindi con un senso spiccato per il vintage – con un’altra persona o più di una, giusto per la strettissima necessità di ammortizzare in qualche modo le chiassose spese e, forse, diciamola proprio tutta, anche per vivere la tua personale indipendenza, ogni tanto. Hai una mamma che ti vuole bene, sempre. Un papà che ti appoggia in tutto quello che fai: entrambi, in un certo senso, si sono sempre spaccati la schiena per te, ma non te l’hanno mai detto. Non stai vivendo con loro la loro dolce mezza età, e quindi cerchi in qualche modo di rappresentarteli in volto tutte le volte che vi sentite per telefono, e per questo potresti essere profondamente incazzato, tutti-i-santi-giorni. Per fortuna uno che si fumava l’impossibile ha inventato una cosa che si chiama Skype: per questo la mia generazione gli sarà sempre profondamente grata, solo quando se lo ricorda però. Vivi in una città che vive praticamente di rendita: tutte le persone con cui parli, che siano d’oltreoceano o della tua stessa nazione, non nascondono la loro invidia, e tu, anche se non capisci il perché, fai finta di esserne compiaciuto. In realtà, molto in realtà, quella stessa realtà che è più cruda della verità, ti dice che vivi in un luogo altamente degradato, dove gente che vuole fare l’”alternativo” è solo la fotocopia di tanti altri individui che sono esattamente come lui, in tutto e per tutto. Queste collezioni di individui-fotocopia ciondolano per quelle strade rigate da rivoli di piscio ossessionati dall’“accessorio-cane” e, con quella capigliatura sempre medio-lunga, vogliono cercare di imitare simbolicamente il tribale, ma inutilmente. Questa loro ostentazione consapevole è povera, e anche piuttosto meschina, dato che poi, alla prima occasione, sfoderano il loro bancomat lucente e prelevano sbrigativamente dei contanti nuovi di stampa da quelle bocche lucenti di distributori che, in molte occasioni, potrebbero rappresentare il tuo unico vero orizzonte di salvezza (e questo fatto dell’”unico vero orizzonte salvifico” rappresentato dalle banche è davvero molto triste se ci pensi, visto che, lo sappiamo benissimo, i “gestori” che gestiscono quei maledetti distributori rappresentano il diavolo in terra). Questi tipi, dunque, i tipi di cui si parlava prima, sono esattamente come tutti gli altri, forse anche peggio, ma in tutti i modi vogliono farti capire che non è così e che loro, con te, non c’entrano assolutamente nulla: non si rendono conto però che sono irrimediabilmente identici nella loro sterile diversità: e che praticamente non riesci a distinguerli per quanto si assomigliano tutti. Proprio per questo motivo, entrano a pieno titolo in un altro tipo di normalità, quella stessa che contraddistingue questa città, conosciuta nel luogo comune anche solo per questo: e cioè la normalità di essere un emulatore postmoderno del vero punkabbestia (quello vero, giusto per ricordarlo, vive realmente per strada, sotto un portico, e ha come unico termosifone-stufetta naturale per l’inverno il proprio fidato cane, il quale cane non lo abbandonerà MAI – a differenza dei prototipi di individui fotocopia/o meno che rientrano nella sua specie). Questa città, quindi, vive di rendita, vive solo di questo e basta, al momento. Cerca di sopravvivere a stento ad un glorioso passato fatto di animate lotte studentesche e di comunità di cittadini con la C maiuscola (sia la Comunità che i Cittadini) che si prodigavano incondizionatamente per il prossimo; cittadini che, in un tempo non molto lontano, si aiutavano reciprocamente sempre, in tutte quelle tremende occasioni che si presentavano, ogni dannata e stramaledetta volta. “Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili”, ci ricorda sconsolato il nostro caro Dave (DFW). Una città in cui la resistenza ha segnato profondamente il territorio limitrofe e dove tutto, dalla memoria, al senso di fratellanza, fino al senso di appartenenza al luogo, sta cadendo irrimediabilmente a pezzi: visivamente, sembra proprio di assistere al rigurgito di una densa amnesia culturale. Qualche sincero bagliore di senso di comunità lo cogli ancora però, ma solo ogni tanto, e questo lo devo dire per amore di correttezza; questi bagliori non sono altro che granelli di sabbia in balia di una tempesta, una tempesta propriamente individualista. Noi però, nel nostro intimo, crediamo ciecamente in quei miseri e “sprovveduti” granelli sopravvissuti, sperduti: un giorno non molto lontano ritroveranno i loro fratelli e si ricongiungeranno, per farsi pietra; una pietra che permetterà di costruire solide fondamenta, e noi in questo non smettiamo mai di crederci, mai. Neppure quando si è fatto giorno, e annaspi cercando di aprire i tuoi occhi cisposi che si destano dal sonno, un sonno galattico. E quando alla fine li apri i tuoi occhi, riconoscendo confusamente il filtraggio à pois della tapparella abbassata, e ti accorgi che fuori c’è già il sole, questa non è esattamente una gradevole notizia: è inverno, e quando c’è inverno alle latitudine più elevate il sole è più pigro di come sei abituato a vederlo; dunque sei in ritardo, un ritardo imperdonabile. La sera prima è stata confusa, e si è conclusa con un affondo nel letto incosciente: le ragioni sono piuttosto oscure questa mattina. E poi pensi che sei autonomo ma non ancora così indipendente economicamente, e che la tua condizione è schiacciata solo sul presente, prendere o lasciare. Così, mentre sei davanti allo specchio e ti lavi i denti, rileggi mentalmente un passo di un saggio di antropologia sociale che fa più o meno così: “In un’epoca in cui le convinzioni durature e indiscusse perdono la loro influenza, gli aspetti più effimeri della vita diventano più significativi e la rottura con il passato focalizza l’attenzione sul presente. Il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle impressioni e questo ritmo impaziente è irresistibilmente attratto verso una serie di frontiere temporali: inizi e fini, andare e venire”. Forse non c’entra nulla, forse è tutto racchiuso qui dentro. Io nel frattempo, non so voi, entro molleggiato nel mio nuovo giorno e canticchio così “We scream and shout ‘till we work it out, ‘till we work it out, ‘till we work it out” (Afterlife, Reflektor, Acade Fire).              

lunedì 2 dicembre 2013

L’ipertestualità ci appartiene

Mi occorrono più parole e più parole ancora per descrivertelo, non so come dirti. Sto cercando di spiegare cosa mi sta passando per la mente in questo preciso momento e tu non lo saprai mai di preciso che cosa in questo momento ci sta passando, se non cerco di rendertelo leggibile, raffigurabile, io, a parole mie, con tutto quanto ciò che sempre in questo preciso momento dovrebbe essere in mio precario quanto tangibile possesso, almeno stando a quello che gli esperti dicono. Sembra un’assurdità, ma è un esercizio di funzionamento esplicativo tremendamente difficile se ci pensi, al cospetto delle tue orecchie che ascoltano e dei tuoi occhi che osservano, quegli occhi che impercettibilmente cercano anche di cogliere le movenze di quelle sonorità che provengono da quelle mie parole a fatica concatenate e che, guarda caso, si fanno addirittura gesto per venirti in contro, pensa un po’: siamo delle roccaforti di pensiero indipendenti e cerchiamo continuamente di gettare ponti in qua e in là per cercare di farci capire, tutt’al più; ma, in realtà, quando ci capacitiamo per rendere possibile tutto ciò arriva solo una coda di bagliore di quello che la nostra mente ha così ingegnosamente architettato per rendersi fruibile. E questo non vuol dir certo che io ci riesca per davvero a fare tutto quanto questo, sappilo. Devi cercare di immaginare ponti che si costruiscono per attingere e dunque per accumulare, ma anche ponti per comunicare la risorsa esterna agli altri, ponti che si presuppone, alla cieca, siano possibilmente solidi e stabili, ma anche suscettibili di quelle vibrazioni afferenti il consenso e il dissenso per rimanerci in piedi, sai, non si sa mai, in base ai casi. Non si tratta più di gestire il lineare delle informazioni e renderle altrettanto lineari in uscita, a quel nostro interlocutore diretto o a quella schiera di potenziali interlocutori che sono lì e attendono con occhioni sornioni le risposte alle nostre bizzarre e animalesche movenze. Si tratta, più che altro, di rendere spendibile il concreto funzionamento della nostra mente che pesca alla rinfusa e crea altre connessioni che derivano da altre afferrate in precedenza: parliamo, per farla breve, di connessioni di connessioni che si connettono con un altro tipo di connessioni attivate precedentemente da molto più lontano e sì, lo so, anche tu c’hai ragione, è piuttosto un gran casino riuscirci a cavarci qualcosa, in base ai casi. E cerca di capirmi però quando te lo dico: un resoconto dettagliato di tutto ciò sarebbe pressappoco impossibile attuarlo, anche se ci metto tutta la premura di questo mondo, e lo sai che, in fondo, e questo spero che riuscirai a farlo tuo, lo sai nel tuo intimo che ti voglio bene. E dunque collegamenti che si trasformano in verbo, rimandi di parole che disegnano altrettanti mondi paralleli: devo raffigurarti e dipingere, per mezzo di pennelli inzuppati di cerebrale, il caleidoscopio che c’ho in testa per fartelo capire, e devo rendertelo più intellegibile che posso affinché vi sia una presunto incontro conoscitivo tra noi due, qui ed ora, che così a raccoglimento ci studiamo amorevolmente in volto, seduti a dialogo, sorseggiando un tè caldo i cui fumi lenti e ascensionali aleggiano dietro una finestra riparata dal frastuono raggelante di un inverno prorompente. E devo cercare di fare tutto ciò attraverso quella minuta cassetta degli attrezzi che conosco solo io e che a te è completamente fuori portata, credimi, non so come spiegartelo, perché semplicemente si tratta di attrezzi che so usare solo io, e no so credimi il perché; forse perché vengono forgiati da una formazione esperenziale tutta mia e sola mia, insomma: questo è quello che chiamano la portata individuale, nulla di più. Quello che chiamano “il background personale” cerca di svelarsi e di emergere e di fecondare in pensieri prima e in parole poi, in un miscuglio singolare e sui generis che avrà un suo risvolto reale o immaginifico, o tutte e due assieme se è necessario, sempre in base ai casi. La mia mente perciò, come la tua di certo (ma posso solo immaginare in quale altra inconsueta combinazione), funziona un po’ come un motore di ricerca, e attraverso immagini e la ricerca di parole e di significati ad esse sottesi è una spugna di ipertesto che rilascia liquidi conoscitivi, e tu mi capirai quando cerco di farti arrivare il mio filtrato afflusso di pensiero, perché è di amorevoli filtri costruiti con la dovuta cura che stiamo parlando. Devo ogni volta trovare quei filtri congeniali che mi consentono di governare l’ingovernabile, di ordinare la complessità assordante che si fa caos, e si catapulta senza mezzi termini contro di me, e per me, affinché io possa spiegarmi con te. E poi quei filtri che ho fatto miei a fatica devo renderteli più filtrati di prima, e si tratta di un tipo d’amore per l’altro che non tutti proprio riescono a possedere. L’ascolto attivo è il riuscire a mettersi nei panni dell’altro. L’empatia non è altro che cercare di comprendere quella fatica che contraddistingue il tuo interlocutore, e dirgli poi semplicemente: “Sì ok ti seguo. Ma aiutami anche tu a seguirti perché più in là potrei non poterlo più fare”. Il mettere nelle condizioni l’altro di emergere e di farsi suo e potersi donare in quei termini così peculiari è tutt’altro che farsi una passeggiata disinteressata: questa è la vera ricchezza del discorso conoscitivo e reciproco. E non importa dove sei, ma importa con chi ti trovi, e se quel tè è ancora caldo e fumante, intervalla tutti quei pensieri e cerca di prenderti una pausa una volta ogni tanto, perché ci vuole molto tempo per collegarti alle connessioni di chi ti sta parlando. Prenditi quel tempo e attendi, e vedrai che, assieme, i vostri scambi di parole usciranno dal loro recinto e andranno ad immettersi in quei movimenti umani che vedi in questo momento proiettati da quella finestra: perché, se trattati bene e con la massima cura, andranno a suggellare lo sposalizio discorsivo che fa muovere tutta quella gente incappucciata per strada, tutta racchiusa in protezione dal freddo: tutta quella gente che, come te, non vede l’ora di padroneggiare i propri ipertesti mentali al caldo, in compagnia, solo con l’intento finale di dare un seppur lontano minimo contributo alle movenze di tutto quanto il mondo che verrà, assieme.     

mercoledì 27 novembre 2013

Si sta bene sui tetti

Accadeva spesso che si dormiva in tre sopra uno stesso letto, in alto, sopra un soppalco che assomigliava più ad una comoda piccionaia che ad altro, ed eravamo felici. Anche un po’ sbronzi a dire il vero, ma questo era solo un inutile dettaglio. Capitava che si faceva tardi, e che la metropolitana era ormai chiusa da un pezzo e noi continuavamo a viverci la nostra euforia collettiva, insieme, noncuranti di quest’altro inutile e sempre incombente dettaglio: l’orario che segnava l’ultimo scocco di tempo utile per poter prendere l’ultimo treno che ci avrebbe condotto sotto il nostro tetto di appartamento in affitto. Ma non importava; la nostra casa era là, dove già eravamo, e dunque il resto passava in secondo piano, senza pensarci su. I dettagli esterni non ci interessavano più di tanto: erano i nostri dettagli, quelli che creavamo insieme, che ci importavano di più. Così come quelle riunioni in case così distanti l’una dall’altra, ma così vicine nello spirito del momento, un momento magico, capitato per delle circostante perfette che decisero di riunirci tutti lì, e di organizzare una grande festa umana. Sì, Umana. Quale espressione più abusata, bistrattata, ricca di significati ma mai veramente vissuta. In quei mesi invece, tutto sembrava possibile, e tutti, tutti insieme e nessuno escluso, la vivemmo sul serio quella sensazione: l’umana voglia di scoprirci, di confrontarci, di incazzarci, di sollevarci e di supportarci l’un l’altro, sgomitando nel sudaticcio brodo esistenziale. Fu un’esperienza unica, di quelle che possono capitarti poche volte nella vita e che sicuramente ti lasceranno il segno per molto e molto tempo, e che, tuttavia, fanno presto a concludersi. Insieme eravamo in grado di creare degli aloni di significato persistenti, di quelli che non riesci a cancellare neppure se ti ci metti d’impegno con gomito di panno. E quegli aloni erano formati dai cerchi concentrici delle diversità di ognuno, poiché solo dal riconoscimento delle differenze che si può scoprire il prisma delle ricchezze che prendono forma, e vanno espandendosi, in una qualità proteiforme che risulta inaspettata e rimane longeva, poiché semplicemente vera. Lo stare insieme era un rituale di riconoscimento reciproco, un volgere lo sguardo all’altro ascoltandolo in tutta la sua complementarietà che metteva a disposizione del gruppo: eravamo come dei tasselli di un grande puzzle, un puzzle che ogni giorno di più cresceva e prendeva forma, e si arricchiva di varianti, di variabili preziose, di indicatori di noi stessi: di forme tutte nostre che si incastravano nella simmetria consapevole e matura. Il riconoscimento di noi stessi, infatti, passa necessariamente attraverso il riconoscimento altrui, e non c’è verità più indiscutibile di questa. E allora uno si arrampicava sui tetti e invitava gli altri a contemplare esterrefatto il cielo stellato, quel cielo che sorprendentemente prendeva aria e si liberava dalla sporcizia accumulata durante tutto il giorno. E quelle luci distanti di stelle lampeggiavano ad intermittenza, scandendo un battito di polso che era sincronizzato sui nostri sentimenti di amicizia, che si consolidava e che recitava a memoria il dettato di un copione universale. E tutti sbirciavamo quelle pulsazioni, sorridendo, confabulando, e spalleggiandoci a vicenda. E allora i nostri discorsi prendevano le loro traiettorie biforcute e, come labirinti di gioia tra arbusti alti e bassi, ci permettevano di esplorare le nostre più intime essenze. Ricordo tali momenti con una nostalgia pura, la stessa nostalgia che caratterizzò tutti quanti nel momento in cui prendemmo coscienza che tutto ciò stava volgendo irrimediabilmente al termine. Cercai a mio modo di fissare quei momenti, di renderli eterni, uno ad uno, su dei foglietti volanti presi alla rinfusa da una scrivania scompigliata, e scrissi. Scrissi tanti pensieri teneri e di congedo per quelle persone che ancora dormivano su, su quella dolce piccionaia, mentre io afferravo le mie cose con delicatezza per non disturbare il loro meritato sonno, e andavo, per prendere la strada del mio nuovo giorno, lontano da loro con gli occhi ma mai così lontano da quello stesso nostro spirito, dalla comunione di quei momenti che sempre resteranno scolpiti da qualche parte, sì, forse proprio lì, su quel puzzle raffigurante buffi e autentici personaggi che trovarono, in quei mesi trascorsi assieme, semplicemente il coraggio di aprirsi ad una contingenza potenzialmente felice, senza alcun timore, poiché solo lì sarebbero stati in grado di rendere esperienziale la loro interdipendente libertà espressiva, per sempre e nuovamente; allo stesso modo in cui si fa ripartire una melodia che ci rimane impressa e da cui, non c’è scampo, non riusciremo mai e poi mia propriamente a distaccarcene, anche se per un motivo lontano da noi ci prendessimo egoisticamente la briga di volerlo fare.

domenica 24 novembre 2013

Il dolce far nulla serve un sacco

Lavorando come osservatore e ricercatore sociale nei nidi d’infanzia ho imparato una cosa che mi è sempre sfuggita o che, a dire il vero, ho disimparato da tempo: il dolce far nulla serve un sacco. Tale prescrizione è sempre stata avanzata, con un vigore altamente sfacciato, da qualunque modello pedagogico che si rispetti. Sì, proprio così. Perché i bambini, sin dalla più tenera età, in vista di un loro virtuoso sviluppo affettivo, cognitivo e creativo, devono imparare ad occupare il loro prezioso tempo anche cominciando ad identificare quelli che sono i loro momenti di solitudine, quegli spazi così ricercati che riconoscono il vuoto come governatore delle loro prime e minute azioni; attimi e momenti di vuoto che prevedono la ripetitività, la lentezza, e i primi bagliori di quello stato d’umore che riconosciamo tutti con l’annoiarci. Dobbiamo dunque imparare dai bambini: dobbiamo re-inventarci partendo dalla noia più falsamente frustrante, quello condizione che così, in maniera errata, cerchiamo di rigettare da noi stessi alla prima occasione. Solitamente, i genitori postmoderni di questi pargoli alle loro prime zampettate sono piuttosto ansiosi. Chiedono spasmodicamente alle educatrici/agli educatori se i loro bimbi oggi hanno fatto questo e quello, cosa hanno imparato di così importante per rasserenare le loro menti così tormentare per un così prematuro distacco. Dovete sapere, infatti, che i genitori in oggetto (nella maggior parte dei casi), impossibilitati dai loro carichi lavorativi, ricorrono al nido per i tempi di cura e, quotidianamente, sono costretti a vivere un senso di colpa imperdonabile: l’”abbandono” a degli estranei dei primi anni di vita dei loro figli. E quindi cercando di compensare preoccupandosene a più non posso, esigono sempre di riscontrare quel passo qualitativo che possa far pensare “comunque sta facendo e imparando tante cose e quindi, per lo meno, non va tutto perso: qualcosa di buono, in fondo, la sto facendo”. Quello che non sanno però è che anche quando i loro bimbi non fanno assolutamente niente è molto più che bene per loro, e su questo non si dovrebbe discutere. La verità è che questa società supersonica e sempre più frenetica e votata all’esaltazione della prestazione efficiente a tutti costi ha scombussolato realmente le nostre coordinate di riferimento. Il tempo e lo spazio vanno a braccetto, sì, ma si dissolvono reciprocamente nell’insensatezza di ciò che ci rimane dopo, dopo aver compiuto tutto quello che dovevamo per forza di cose fare per non annoiarci; tutte quelle attività di intrattenimento che sempre di più ci stanno allontanando inesorabilmente dal rumore sordo della nostra mente in solitudine. Certo, forse viviamo, più che in altre epoche, il regno della solitudine esistenziale, ma lo facciamo sempre interfacciandoci a qualcosa che potrebbe distrarci, a qualcosa che ci distanzia dalla vera auto-riflessione rigenerante. Dobbiamo ricominciare ad elogiare per noi stessi la lentezza, l’attendere che qualcosa prima o poi verrà, sicuramente. E non stare lì, impazienti di voler produrre tutto e subito, anche a costo di non capirci nulla e di bere tutte le bevute disponibili su quel banco al bar che chiama a suon di euro la quantità. Diversamente, la qualità è tutto, e va assaporata incessantemente, attimo dopo attimo, come falso grigio di quel vuoto che ci invade nei momenti di panico, un panico che si riscopre un lusso non appena cominciamo a dialogare veramente al cospetto di noi stessi, risultando ripetitivi certo, ma per nulla scontati, poiché quello che viene da dentro di noi è sempre unico e va gelosamente custodito e coccolato e fatto crescere. Dobbiamo educarci alla lentezza di una passeggiata che non porta a nulla, quel sentiero che tocca solo noi stessi e il mondo, che sempre e comunque è lì e ci dona inaspettatamente qualcosa. Dobbiamo rigettare la cultura del fare per forza e riprenderci le nostre pause interiori di silenzio, che non significano più rimorso di un tempo che ci hanno fatto credere come sprecato: nulla è davvero così sprecato se lo si valorizza come nostro e come peculiarmente singolare da poter condividere gratuitamente assieme. Dobbiamo cominciare a vedere di nuovo e, con questo, riguardo alla cecità di questa performatività che ci assale e ci sgomenta annientandoci nell’oblio dell’esistenza, vorrei concludere con l'aiuto di uno fra i maestri indiscussi della letteratura, un colosso che mi ha insegnato tanto e che porto sempre con me: “Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.” (Cecità, José Saramago)

lunedì 18 novembre 2013

La trascendenza si cerca in basso

Giochiamo d’immaginazione. Siete a cena, una cena a cui desideravate parteciparvi da un sacco e dove magari c’è anche tanta gente che non vedete davvero da tanto tempo, tale per cui è davvero difficile stabilire con certezza l’ultima volta in cui avete avuto modo di stare tutti insieme, tutti di nuovo così appassionatamente. Quel tempo macigno, infatti, ha pensato bene di riempire tutte le falle e, per giunta, ha arricchito la vostra vita con tanto altro e altro ancora, il ché è altamente normale. Tra le vostre presenze sul quel tavolo c’è qualcosa di invisibile, una materia che ormai fa luce su tutte le cose e appartiene propriamente alle vostre vite; un qualcosa che non potrete mai e poi mai condividere pienamente, nonostante i vostri più efferati sforzi di spiegazione condivisibile. E dunque persone del passato si rifanno vive nel vostro presente, con un volto nuovo e bizzarro, e quasi tutti i dialoghi, per avere una propria e più viva legittimazione, devono rifarsi quasi necessariamente ad un passato né tanto vicino né troppo lontano, seppure ormai inesorabilmente andato. La vita, nel frattempo, ha fatto il suo corso naturale e distanziato. Ad un certo punto (presumibilmente all’inizio della presa di posto), un tipo abbastanza audace, un tipo che ci vede lungo sulle sorti di una cena cosiddetta da “rimpatriata”, si alza col bicchiere in mano e, tintinnando con decisione quel povero bicchiere utilizzando una posata qualunque, chiede, senza remore, la parola tra i rimpatriati: ha in mente una proposta inconsueta e altamente provocatoria: deporre tutti i prolungamenti tecnologici (nella fattispecie smart phone o simili) e accumularli ad un angolo lontano del tavolo, dimodoché l’atto in sé possa essere da monito per tutti: chiunque si arrischi nel cercare di sbirciare o di gironzolare in una realtà altra che non sia quella della serata in corso d’opera verrà penalizzato duramente: pagherà senza sconti l’intera cena a tutti, nessuno escluso. Tuttavia viene contemplata un’unica, quanto remota, eccezione al caso: si potrà eventualmente rispondere solo ad un’inaspettata (?) chiamata della mamma, poiché ritenuta dalle circostanze plausibilmente improrogabile – nel caso in oggetto, al termine della chiamata, la mamma in questione dovrà, per forza di cose, confermare, preferibilmente in vivavoce, l’effettiva veridicità del suo ruolo di mamma del soggetto interessato, salutando collettivamente tutti i commensali presenti alla cena; anche se non conosce tutti quanti non importa). Lo scopo del gioco è la deterrenza dalla nuova trascendenza in formato digitale: riusciranno i nostri eroi nel motivato e tanto ricercato intento? (di motivazione, per dirla tra noi, ce ne vorrebbe a palate). Tutto ciò, infatti, sembra esser diventato difficilmente attualizzabile al giorno d’oggi. Una volta capitava di osservare il cielo per trovare una qualunque ispirazione; oppure c’era chi preferiva il mare per staccare un attimo dal quotidiano e per collegarsi all’altrove (chi ha il mare a portata di mano, sa di cosa sto parlando); o ancora, tendevamo, molto innocentemente, ad essere per lo meno partecipi al cospetto di una conversazione seppur di circostanza. Tutto, in qualche modo, prendeva quelle sembianze che riuscivano a trasportarci in una dimensione in cui si poteva riconoscere un barlume di momentanea sensatezza. Anche se tutte queste belle cose continuiamo comunque a farle, sembra che il quadro della situazione non sia più lo stesso: che lo vogliamo o no le cose sono piuttosto cambiate. Con un occhio si osserva l’interlocutore per non tradire il proprio ascolto (che si presume attivo) e con l’altro si dà una sbirciatina ad uno schermo digitale: il mondo si è concentrato in una sola mano ed è peggio di una calamita scorrevole e “informativamente” imbizzarrita: anche se cerchi di sfuggirle lei prima o poi ti troverà: basta sollecitare e toccare quello schermo. E può anche essere un nuovo tipo di distrazione da dipendenza ma, effettivamente, sta modificando il nostro modo di concepire il contesto in cui siamo inseriti e i legami sociali che vogliamo o tentiamo, affannati, di costruire, rinsaldare, e sviluppare in divenire. E dunque le cene sono diventate parecchio noiose con tutta questa gente che alla prima occasione utile evade, si fa letteralmente assente, cercando non si sa cosa in quell'aggeggio così utile e "spettacolare" (tu non lo sai, lui forse sì); sempre con quel capo chinato verso il basso, simile ad una strana e obbligata deferenza che lo estranea da tutto e da tutti. E quelle sue dita sono così impegnate a scorrere e a smanettare che non ce la possono fare e, penso, che preferivano di gran lunga gesticolare caldamente con persone reali, presenti, piuttosto che stare lì, unte delle proprie impronte digitali sudaticcie, a tastare a tentoni un freddo, ma così sorprendentemente accessibile, schermo bombardato di meraviglie.

Forse volevo dire tante cose, forse non ho detto davvero proprio nulla, ricadendo magari in sterili luoghi comuni piuttosto noiosi; ma in questo caso è proprio la disarmante sensazione che la fa da padrone, non so come spiegare. Evidentemente, per tali questioni, è davvero parecchio difficile capirci qualcosa, almeno per il momento. Ma quell’ipotesi di cena, tanto inusuale quanto veramente rappresentativa di un ritorno a soli pochi anni fa, io me la vorrei proprio godere un’altra volta, giusto così, per saggiarne l’effetto che fa, di nuovo.