sabato 7 dicembre 2013

Il sociologo idraulico

Macchine, macchine formato casa ovunque; un fiumana lenta e inesorabile di file incolonnate di macchine che accarezzano tappeti di strade infinite; paesaggi scorrevoli e cullati per valli mozzafiato; distese di lande che si perdono a vista d’occhio; stuoli di alberi imponenti a guardia di foreste all’apparenza sterminate; aquile silenziose che sfrecciano in lungo e in largo per il vasto cielo terso spazzato dal vento: ero finalmente entrato nelle cosce del mondo, tra le braccia dell’America vera; quella cinematografica era solo un ricordo. Dopo quel viaggio infinito dal vecchio continente, lo scombussolamento imposto dal jet leg non si era fatto ancora vivo: mi stava concedendo l’ebbrezza del momento, la possibilità di colmare di stupore quei miei occhi assetati di risposte. Il rinculo di quel catapultamento in un altro mondo avvenne una ventina di ore dopo, quando, senza forze, annegai in un sonno che ti fa dimenticare praticamente tutto, persino del fatto che sei nato e che esisti, ma che dopo ti consente di risvegliarti con la mente riformattata, pronta per alzarti in piedi nuovamente, e di calpestare una sorprendente terra sconosciuta. Ero in visita da parenti, parenti nati lì ma col sangue italiano in circolo, e questo era fieramente evidente. Una famiglia che non aspettava altro che te, per accoglierti e confrontarsi, per tastare con mano la diversità della loro eredità, un’origine orgogliosa che parlava spesso italiano senza tuttavia conoscere i suoi meravigliosi idiomi. La maggior parte degli americani che ho incontrato lì, infatti, erano soliti presentarsi anteponendo la loro origine ereditaria al radicamento del posto. Ciò mi sorprese alquanto. Ti vedono come un alieno, come un essere molto lontano dalla loro percezione di vita; una percezione molto distorta devo dire, che si rifà al luogo comune per poter sopravvivere e identificare una persona che dice di provenire da un altro pianeta. Ma era divertente, soprattutto per un sociologo in fasce come me. Riuscivo a leggere il confronto, a scardinare quelle che erano le loro ingenue conoscenze, presentandomi e dando manforte alle meraviglie della terra da cui provengo. Devo dire però che gli americani sono piuttosto innamorati dell’Italia, e penso che la maggior parte di loro darebbero non so cosa per poter visitare il nostro paese almeno una volta. Quando sentivo da loro tutto ciò, quando percepivo il loro fantastico e sconfinato immaginare le nostre città, il nostro bel paese, capivo che ero molto fortunato: tutto il pianeta invidia la nostra terra, e non sempre riusciamo bene a capirlo. Quando sei fuori il tuo paese ti manca, e loro ti dicono esattamente il perché. Penso che questo discorso possa essere esteso a tutti gli esseri umani: in fondo, non c’è posto più bello di casa tua. Ma quando sei fuori devi saper ben gestire questa cosa, e non lasciarti prendere mai, e dico mai, da un discorso solo lontanamente denigratorio che possa buttare una brutta luce su ciò che ti appartiene. Se lo fai non fai altro che buttarti fango addosso. E questo non va assolutamente bene. E quindi ormai ero giunto, felice come una pasqua, tutto vivace per questa nuova avventura. Mi proposero di lavorare per guadagnare qualcosina, giusto così, per pagarmi le spese per le uscite e i divertentismi vari. Allora indossai un elmetto, un jeans bello imbottito, e delle scarpe infortunistiche piuttosto cicciotte, e andai per cantieri. I miei parenti gestivano un’azienda d’impianti d’idraulica, impianti che interessavano case mono-familiari o anche complessi di appartamenti belli grandi, tutte case nuove di zecca che venivano tirate su dalle fondamenta. Non facevo l’idraulico, anche perché non possedevo né la pratica né le conoscenze adeguate. Ero solo un sociologo neo-laureato che si faceva grandi pippe sul funzionamento dei sistemi di welfare: nulla di così discordante, potrete capire. Ero stato “eletto” dunque come un aiutante, un tipo tutto italiano con l’elmetto blu, e che si occupava di smartellare tutto il giorno delle placche di metallo che dovevano proteggere delle insenature di legno da dove passavano tubicini blu e rossi: le vene e le arterie che avrebbero poi un giorno rifornito di acqua calda e fredda quelle case in costruzione. Durante il lavoro incontrai i personaggi più bizzarri: la vita di cantiere va esplorata, e i pregiudizi non reggono, come per nessun’altra cosa. Quindi, mentre camminavo tra un piano e l’altro, tra scintille di seghettature e carichi di fili conduttori in alluminio, ti trovavi squadre di muratori, equipe di elettricisti, tutti con i loro disegni e le loro mappe e opere da compiere: tutti lì, a lavorare faticosamente e amorevolmente assieme per realizzare pareti e tetti solidi che avrebbero permesso la vita, un bel giorno, ad altre persone; a famiglie che volevano costruirsi in quelle case una loro vita. Devo dire che questi ambienti sono formidabili. La collaborazione è fondamentale, e tutti, proprio tutti devono lavorare propriamente in squadra per far funzionare le cose. E poi ognuno deve possedere quelle qualità idiosincratiche che, nella fattispecie, non sono altro che l’acquisizione di esperienza che ti consente di svolgere il tuo lavoro e di aiutare chi lo svolge con te. Noi entravamo in opera quando i muri in legno erano già stati issati su, e potevi già camminare attraverso uno scheletro di stanze che pian piano si facevano carne, per assomigliare poi alle case che, belle e finite, conosciamo tutti. Una carne fatta di particolarismi dettagliati, tutti ai loro posti come designato sulla carta. Quelle volte in cui avevo la possibilità di lavorare in quegli ambienti totalmente nuovi per me mi davo enormemente da fare con il compito assegnatomi, ma, nel frattempo, senza dire nulla a nessuno, consentivo alla mia anima da sociologo incallito e osservatore di venire fuori e di scoprire. Perché il vero sociologo deve essere proprio un fottuto curioso ma tranquillo esploratore. E allora improvvisavo “interviste” estemporanee ad alcuni di quei personaggi che lavoravano nella mia squadra, gente che, ovviamente, non sapeva nulla di quello che segretamente stavo facendo: stavo mettendo in pratica quella che viene chiamata in accademia “osservazione partecipante dissimulata”, e cioè quando i soggetti “studiati” non sanno di essere osservati, perché altrimenti snaturerebbero il loro normale modo di agire con il loro potenziale imbarazzo che ne potrebbe derivare. Infatti, le ragioni “invasive” del ricercatore potrebbero in qualche modo contaminare il normale dispiegamento della vita di tutti i giorni presa in esame. Feci questo un po’ come il famoso sociologo italiano Dal lago, che si improvvisò ultrà e andò ad immergersi nella sub-cultura da stadio, stessa cosa. Solo che non ero, e non lo sono tutt’ora, un esperto di queste cose, e facevo il mio in maniera casereccia, tutto con chiacchierate veramente disinteressate: non avrei poi scritto un report o altro per una ricerca sociale commissionata da chissà chi; ero solo me stesso con la mia esperienza, e questo poteva più che bastare. E allora, come Dal Lago, mi immersi in quel mondo, e forse, come lui, dopo un po’, tanto era la vicinanza, la prossimità, che mi sentii davvero contaminato: riuscivo a vedere come loro. Strano ma vero, dopo un po’. È stata una bella esperienza, originale e molto formativa. A parer mio, un vero sociologo non deve stare dietro una cattedra, ma devo ascoltare, sentire, stare in mezzo alla gente, e cercare di mescolarsi a quel tutto che poi alla fine spontaneamente riesce a parlarti, dirti realmente le cose come stanno. E questo non vale solo per i sociologi, vale per tutti, tutti noi, tutti quelli che seriamente vogliono dare un loro solido e valido contributo all’essenza di questo mondo. E diffidate da quelli che dicono, demagogicamente e ripetutamente, che “bisogna sentire le ragioni della gente”. Chi ripete queste frasi, nella maggior parte dei casi, non sa proprio nulla di quello che le persone sentono, vogliono, desiderano... Il sentimento della gente ce lo si guadagna, col tempo, e non semplicemente lanciando frasi ad effetto che distolgono la mente intenerendo falsamente le anime. Anime perse ma non stupide, perché, in fondo, ognuno di noi ha le proprie ragioni, sbagliate o giuste che siano. Amen.                   

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