Viviamo
nell’epoca della dimenticanza, di un oblio crescente e perpetuo. Mi sa che ci
siamo talmente dentro che ormai le nostre braccia sollevate in alto non
riescono più a gesticolare per imitare un seppur lontano SOS (“Save our souls”
– oppure “Siamo Ostinatamente Spacciati”). Questo non vuol dire che
dimentichiamo sempre più spesso cosa abbiamo mangiato ier l’altro; questa
dimenticanza, penso, sia orami per tutti quanti all’ordine del giorno (Allora?
Cosa hai mangiato di buono? T’è venuto in mente? A me no). È piuttosto
un’amnesia più profonda quella di cui sto parlando, un’ amnesia che
identificheremo come collettiva, ovvero la dimenticanza del nostro povero e
abbandonato e ormai chi se lo ricorda più patrimonio culturale (cioè quello che
andava sedimentato, quello che doveva “incidersi” per sempre nelle nostre
menti).
Come
è potuto accadere tutto ciò? Che cosa significa che la nostra memoria viene
abbandonata a se stessa senza alcuna preoccupazione da parte nostra? Perché
siamo diventati talmente noncuranti da condannare sistematicamente le nostre
personali, abituali e/o cognitive memorie all’oblio? Beh, a dire il vero, un
po’ di cacazza c’è stata, e precisamente a partire da quell' infernale periodo
in cui l’intero mondo era diventato carne da macello, e stava letteralmente
implodendo in quelle che sono state le catastrofi più disumane di tutti i
tempi: i due tremendi conflitti mondiali. E allora come si è cercato di
rimediare a tutto ciò? Cosa ha fatto l’uomo saputello e così colmo di rimorso?
Ha utilizzato l’antidoto dell’ipermnesia, ovvero quell’attività
maniacale che si identifica, precisamente, nel recuperare tutto il recuperabile
affinché questo materiale mnemonico non venga dimenticato; un’attività parecchio
febbrile, a dire il vero.
“Se
rappresentata attraverso un diagramma cronologico, la produzione virtualmente
infinita di libri e articoli sulla memoria culturale a cui si è assistito negli
ultimi vent’anni assomiglia a una febbre sempre crescente, come quella di un
malato le cui condizioni sono registrate su una cartella clinica.” Ma come
avete fatto ad indovinare?? Uau. Sì, proprio così, viviamo in una
società malata di amnesia, in uno stato di malattia terminale dovuta alla
mancanza di memoria per ogni cosa. Ecco perché il tema della memoria è oggi
tanto sentito, guai a toccarglielo: sarebbe un oltraggio!
In
passato, l’”arte della memoria” garantiva un ordine alle cose utilizzando la
topografia, e cioè la rappresentazione grafica dei luoghi. Il luogo o l’insieme
di luoghi, reali o immaginati, funzionano un po’ come una griglia, su cui poi
vengono situate in un certo ordine le cose che si dovrebbero ricordare: così si
ripercorre mentalmente la griglia dei luoghi attraversandoli uno dopo l’altro.
Il presupposto dell’intero sistema è che l’ordine dei luoghi possa preservare
l’ordine delle cose da ricordare. In risposta alle atrocità delle due guerre
prima menzionate cominciarono ad elevarsi monumenti commemorativi, perché
fondamentalmente “la minaccia dell’oblio genera la commemorazione” ma,
reciprocamente (e paradossalmente), “la costruzione di monumenti commemorativi
genera a sua volta oblio”. Bel casino.
E
perché mai tutto ciò? Perché, evidentemente, i monumenti ai caduti, ad esempio,
nascondono in realtà il modo in cui i soldati morivano; nascondono i cosiddetti
“incidenti” di guerra e quindi operano una selezione forzata su ciò che
dobbiamo ricordare e su quello che verrà praticamente omesso. Con l’”aiuto” dei
monumenti, non ricordiamo mica il sangue, i pezzi di corpi che volavano in
aria, i cadaveri maleodoranti che rimanevano per mesi senza sepoltura; ma
immagazziniamo solamente una piccolissima parte di tutto quello che, con le
cose obbrobriose, davvero non c’entrano nulla: abbiamo una flebile
memoria “distorta”. E quindi “il bisogno consolatorio di rendere le azioni
passate apparentemente necessarie costringe la gente a dare senso a cose che
non avevano senso”.
Il
problema della dimenticanza ai giorni nostri però, è legato anche al modo di
concepire e di vivere l’esperienza individuale del tempo. Si può
parlare, ad esempio, del tempo del processo lavorativo, che ci
viene completamente oscurato. Sappiamo qualcosa, per caso, riguardo al processo
di lavorazione che c’è dietro, ad esempio, alla costruzione di quel divano dove
ci accomodiamo ogni sera per cercare un ristoro al termine della giornata? Io
so solo che è comodo (in realtà no; è comodo perché sono distrutto). E ancora.
Si può parlare del tempo di sopravvivenza degli oggetti che ci
circondano, che hanno (non dimentichiamolo!) una vita propria; e sprizzano
anche di sentimenti da tutti i pori... Dicevo, gli oggetti ormai vivono di più
del loro valore di scambio piuttosto che del loro valore
d’uso (quanti "iPhone" hai cambiato nella tua vita? Ti senti
in colpa perché hai solo il modello precedente? Su, non fare così! Non vedi che
a Milano, ovunque ti giri, i palazzi più elevati vogliono donarti una specie di
conforto dicendoti, in maniera plateale, che solo per te, per la tua
“salvezza”, è uscita l’ultimissima versione superfiga che non ha ancora
nessuno? Dai corri! Che cosa stai aspettando? Sei già fuori moda bello mio, e
ricorda la tua “dea moda” sparisce altrettanto rapidamente quanto
rapidamente compare; ecco che arriva la famosa obsolescenza programmata,
sì, proprio lei...).
Quindi
il valore d’uso degli oggetti se ne va a farsi friggere (“Ehi, che ne sai! Il
mio preistorico cellulare Nokia non sai quante volte mi è caduto nel cesso: è
praticamente indistruttibile... Però sai, lo uso anche come secondo
cellulare”). Se il valore d’uso va a farsi benedire, noi dimentichiamo la
nostra storia “romantica” con quell’oggetto. E ancora. La temporalità
delle nuove carriere lavorative, tutte precarie e tutte con una data di
scadenza che ritma la nostra “grande motivazione” al lavoro; e sì, perché si
sa, noi giovani siamo troppo choosy. Questo fenomeno, della
carriere lavorative precarie, non fa che concentrare il nostro lavoro
sull’esperienza immediata, e non ci permette di dare una continuità storica a
quello che facciamo. E quindi? Anche qui oblio, sfiducia culturale.
Poi
c’è la celebre dimenticanza provocata dallo sviluppo scriteriato delle
grandi città, delle scale di insediamento urbano, che non si sviluppano più
attorno ad un unico centro focale (prima, infatti, c’erano le grandi cattedrali
che davano un gran esempio di memorabilità), quel punto d'incontro e di
sensibilità culturale che permetteva un orientamento spaziale per le strade
della città. Ora ci si sono questi sviluppi urbani un po' amorfi, che si
propagano ovunque e per ogni direzione: le cosiddette città
policentriche. Questi centri urbani sconnessi sradicano letteralmente la
loro memoria storica (questo per fortuna in Italia è ancora un processo
limitato; ma non temete: ci stiamo arrivando anche noi – poi in una prossima
puntata vi parlerò delle “Gated community”, gran bel mondo anche quello).
Ci
sarebbe ancora molto da dire... Ma arriviamo a quello che ci tocca di più da
vicino, anche ora, in questo momento: il bombardamento informativo. “Un’eccessiva
informazione, sembra, è uno dei migliori stimoli a dimenticare”.
Vi
lascio alle parole di Paul Connerton, l’amico che, sussurrandomi
all'orecchio, mi ha aperto gli occhi su questa nostra tremenda, e spesso
inconsapevole, tendenza a dimenticare: “Accelerando il tempo, l’uso del
computer immerge gli individui in un iperpresente, in un’immediatezza
intensificata che, allenando l’attenzione dello spettatore a una rapida
successione di microeventi, rende ancora più difficile concepire come
“reale”anche il passato a breve termine, poiché il presente è percepito come un
periodo di tempo rigorosamente delimitato e del tutto slegato dalle cause
passate. Non è forse un caso se il termine “connessione”acquistò un tale
rilievo nel discorso pubblico grosso modo all’epoca della guerra del Golfo:
esso segnala una mancanza che cominciava a farsi sentire. [...] L’informazione
che oggi inonda l’ambiente in cui viviamo – ed è forse significativo che in
questa espressione corrente il verbo faccia riferimento all’elemento acquatico,
che non si può tenere in mano – sposta le cose che non si possono afferrare
fuori dal nostro milieu. Una memoria di computer o un’immagine
elettronica sono delle “non cose”, nel senso che non si possono prendere in
mano; sono accessibili solo con la punta delle dita. Qualsiasi tentativo di
afferrare le immagini elettroniche su uno schermo televisivo, o i dati
contenuti in un computer, è destinato a fallire. [...] Oggi, una parte
sempre più grande dell’umanità produce informazione e una parte sempre più
piccola produce cose. L’umanità è sempre più dominata da coloro che
controllano questo tipo di informazione. La mancanza di solidità di una cultura
da cui le cose sono sempre più assenti sta diventando parte dell’esperienza
quotidiana. Tutto ciò che è solido si scioglie e diventa informazione”.
Tanta
roba. Grazie Paul.
Paul Connerton, Come la modernità dimentica, 2010, Einaudi, Torino.
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