mercoledì 18 dicembre 2013

All that Is Solid Melts into Air

Viviamo nell’epoca della dimenticanza, di un oblio crescente e perpetuo. Mi sa che ci siamo talmente dentro che ormai le nostre braccia sollevate in alto non riescono più a gesticolare per imitare un seppur lontano SOS (“Save our souls” – oppure “Siamo Ostinatamente Spacciati”). Questo non vuol dire che dimentichiamo sempre più spesso cosa abbiamo mangiato ier l’altro; questa dimenticanza, penso, sia orami per tutti quanti all’ordine del giorno (Allora? Cosa hai mangiato di buono? T’è venuto in mente? A me no). È piuttosto un’amnesia più profonda quella di cui sto parlando, un’ amnesia che identificheremo come collettiva, ovvero la dimenticanza del nostro povero e abbandonato e ormai chi se lo ricorda più patrimonio culturale (cioè quello che andava sedimentato, quello che doveva “incidersi” per sempre nelle nostre menti).
Come è potuto accadere tutto ciò? Che cosa significa che la nostra memoria viene abbandonata a se stessa senza alcuna preoccupazione da parte nostra? Perché siamo diventati talmente noncuranti da condannare sistematicamente le nostre personali, abituali e/o cognitive memorie all’oblio? Beh, a dire il vero, un po’ di cacazza c’è stata, e precisamente a partire da quell' infernale periodo in cui l’intero mondo era diventato carne da macello, e stava letteralmente implodendo in quelle che sono state le catastrofi più disumane di tutti i tempi: i due tremendi conflitti mondiali. E allora come si è cercato di rimediare a tutto ciò? Cosa ha fatto l’uomo saputello e così colmo di rimorso? Ha utilizzato l’antidoto dell’ipermnesia, ovvero quell’attività maniacale che si identifica, precisamente, nel recuperare tutto il recuperabile affinché questo materiale mnemonico non venga dimenticato; un’attività parecchio febbrile, a dire il vero.
“Se rappresentata attraverso un diagramma cronologico, la produzione virtualmente infinita di libri e articoli sulla memoria culturale a cui si è assistito negli ultimi vent’anni assomiglia a una febbre sempre crescente, come quella di un malato le cui condizioni sono registrate su una cartella clinica.” Ma come avete fatto ad indovinare?? Uau. Sì, proprio così, viviamo in una società malata di amnesia, in uno stato di malattia terminale dovuta alla mancanza di memoria per ogni cosa. Ecco perché il tema della memoria è oggi tanto sentito, guai a toccarglielo: sarebbe un oltraggio!
In passato, l’”arte della memoria” garantiva un ordine alle cose utilizzando la topografia, e cioè la rappresentazione grafica dei luoghi. Il luogo o l’insieme di luoghi, reali o immaginati, funzionano un po’ come una griglia, su cui poi vengono situate in un certo ordine le cose che si dovrebbero ricordare: così si ripercorre mentalmente la griglia dei luoghi attraversandoli uno dopo l’altro. Il presupposto dell’intero sistema è che l’ordine dei luoghi possa preservare l’ordine delle cose da ricordare. In risposta alle atrocità delle due guerre prima menzionate cominciarono ad elevarsi monumenti commemorativi, perché fondamentalmente “la minaccia dell’oblio genera la commemorazione” ma, reciprocamente (e paradossalmente), “la costruzione di monumenti commemorativi genera a sua volta oblio”. Bel casino.
E perché mai tutto ciò? Perché, evidentemente, i monumenti ai caduti, ad esempio, nascondono in realtà il modo in cui i soldati morivano; nascondono i cosiddetti “incidenti” di guerra e quindi operano una selezione forzata su ciò che dobbiamo ricordare e su quello che verrà praticamente omesso. Con l’”aiuto” dei monumenti, non ricordiamo mica il sangue, i pezzi di corpi che volavano in aria, i cadaveri maleodoranti che rimanevano per mesi senza sepoltura; ma immagazziniamo solamente una piccolissima parte di tutto quello che, con le cose obbrobriose, davvero non c’entrano nulla: abbiamo una flebile memoria “distorta”. E quindi “il bisogno consolatorio di rendere le azioni passate apparentemente necessarie costringe la gente a dare senso a cose che non avevano senso”.
Il problema della dimenticanza ai giorni nostri però, è legato anche al modo di concepire e di vivere l’esperienza individuale del tempo. Si può parlare, ad esempio, del tempo del processo lavorativo, che ci viene completamente oscurato. Sappiamo qualcosa, per caso, riguardo al processo di lavorazione che c’è dietro, ad esempio, alla costruzione di quel divano dove ci accomodiamo ogni sera per cercare un ristoro al termine della giornata? Io so solo che è comodo (in realtà no; è comodo perché sono distrutto). E ancora. Si può parlare del tempo di sopravvivenza degli oggetti che ci circondano, che hanno (non dimentichiamolo!) una vita propria; e sprizzano anche di sentimenti da tutti i pori... Dicevo, gli oggetti ormai vivono di più del loro valore di scambio piuttosto che del loro valore d’uso (quanti "iPhone" hai cambiato nella tua vita? Ti senti in colpa perché hai solo il modello precedente? Su, non fare così! Non vedi che a Milano, ovunque ti giri, i palazzi più elevati vogliono donarti una specie di conforto dicendoti, in maniera plateale, che solo per te, per la tua “salvezza”, è uscita l’ultimissima versione superfiga che non ha ancora nessuno? Dai corri! Che cosa stai aspettando? Sei già fuori moda bello mio, e ricorda la tua “dea moda” sparisce altrettanto rapidamente quanto rapidamente compare; ecco che arriva la famosa obsolescenza programmata, sì, proprio lei...).
Quindi il valore d’uso degli oggetti se ne va a farsi friggere (“Ehi, che ne sai! Il mio preistorico cellulare Nokia non sai quante volte mi è caduto nel cesso: è praticamente indistruttibile... Però sai, lo uso anche come secondo cellulare”). Se il valore d’uso va a farsi benedire, noi dimentichiamo la nostra storia “romantica” con quell’oggetto. E ancora. La temporalità delle nuove carriere lavorative, tutte precarie e tutte con una data di scadenza che ritma la nostra “grande motivazione” al lavoro; e sì, perché si sa, noi giovani siamo troppo choosy. Questo fenomeno, della carriere lavorative precarie, non fa che concentrare il nostro lavoro sull’esperienza immediata, e non ci permette di dare una continuità storica a quello che facciamo. E quindi? Anche qui oblio, sfiducia culturale.
Poi c’è la celebre dimenticanza provocata dallo sviluppo scriteriato delle grandi città, delle scale di insediamento urbano, che non si sviluppano più attorno ad un unico centro focale (prima, infatti, c’erano le grandi cattedrali che davano un gran esempio di memorabilità), quel punto d'incontro e di sensibilità culturale che permetteva un orientamento spaziale per le strade della città. Ora ci si sono questi sviluppi urbani un po' amorfi, che si propagano ovunque e per ogni direzione: le cosiddette città policentriche. Questi centri urbani sconnessi sradicano letteralmente la loro memoria storica (questo per fortuna in Italia è ancora un processo limitato; ma non temete: ci stiamo arrivando anche noi – poi in una prossima puntata vi parlerò delle “Gated community”, gran bel mondo anche quello).
Ci sarebbe ancora molto da dire... Ma arriviamo a quello che ci tocca di più da vicino, anche ora, in questo momento: il bombardamento informativo. “Un’eccessiva informazione, sembra, è uno dei migliori stimoli a dimenticare”.
Vi lascio  alle parole di Paul Connerton, l’amico che, sussurrandomi all'orecchio, mi ha aperto gli occhi su questa nostra tremenda, e spesso inconsapevole, tendenza a dimenticare: “Accelerando il tempo, l’uso del computer immerge gli individui in un iperpresente, in un’immediatezza intensificata che, allenando l’attenzione dello spettatore a una rapida successione di microeventi, rende ancora più difficile concepire come “reale”anche il passato a breve termine, poiché il presente è percepito come un periodo di tempo rigorosamente delimitato e del tutto slegato dalle cause passate. Non è forse un caso se il termine “connessione”acquistò un tale rilievo nel discorso pubblico grosso modo all’epoca della guerra del Golfo: esso segnala una mancanza che cominciava a farsi sentire. [...] L’informazione che oggi inonda l’ambiente in cui viviamo – ed è forse significativo che in questa espressione corrente il verbo faccia riferimento all’elemento acquatico, che non si può tenere in mano – sposta le cose che non si possono afferrare fuori dal nostro milieu. Una memoria di computer o un’immagine elettronica sono delle “non cose”, nel senso che non si possono prendere in mano; sono accessibili solo con la punta delle dita. Qualsiasi tentativo di afferrare le immagini elettroniche su uno schermo televisivo, o i dati contenuti in un computer, è destinato a fallire. [...] Oggi, una parte sempre più grande dell’umanità produce informazione e una parte sempre più piccola produce cose. L’umanità è sempre più dominata da coloro che controllano questo tipo di informazione. La mancanza di solidità di una cultura da cui le cose sono sempre più assenti sta diventando parte dell’esperienza quotidiana. Tutto ciò che è solido si scioglie e diventa informazione”.
Tanta roba. Grazie Paul.


Fonte:
Paul Connerton, Come la modernità dimentica, 2010, Einaudi, Torino.
         

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