La solitudine è davvero una
brutta bestia, è una specie di sovrastante spauracchio che quando ci intravede
ci coglie alla sprovvista facendoci “buh!” e si diverte tantissimo nel vederci
impauriti, surclassati, completamente impotenti davanti a quella cosa che
davvero non riusciamo a gestire: facciamo di tutto a volte per rifuggirla, ad
ogni dannata occasione in cui cominciamo a sentirne i primi distinguibilissimi
segnali premonitori; in fondo non siamo che animali sociali, che hanno solo
bisogno di un vivace fuocherello e di una sana e musicale compagnia per
alimentarlo, tutto qui. Certo, ci sono anche momenti, attimi della giornata, in
cui non vediamo l’ora di staccare da tutto e da tutti ("non voglio vedere
nessuno!"), e di riprenderci finalmente le nostre pause personali, vagando, senza
senso, nei flusso di quel nostro universo che è tremendamente e squisitamente
soggettivo. Quando dico “squisitamente”, non significa che quel materiale che
trova collocazione nella nostra testa abbia un sapere buono; questo può anche darsi,
ma non è esattamente questo quello che voglio dire. Significa,
invece, che quello che ci frulla in testa è solo nostro, personale, e che le
altre “materie mentali” simili alle nostre non saranno mai identiche a quella
(per fortuna) con cui, in un modo o nell’altro, siamo costretti a fare i conti
tutti i giorni. E quindi spesso, quando il rumore si fa troppo forte e l’acustica
interiore diventa assordante, preferiamo gestire la cosa con un semplice gesto:
abbassare lo schermo della nostra attenzione interiore e mettere tutto in
standby; per favore sì, ecco, va molto meglio ora... È così
che funziona la vita da solitari: viviamo un falso presente ipnotizzato da un
qualsivoglia intrattenimento-droga (quello che capita a giro va più che bene),
invece di riflettere appassionatamente su tutto quello che ci ha portato sino
al qui ed ora e su quello che vogliamo; su tutto ciò che desideriamo enormemente fare nell’immediato
più immediato che sarà qui a momenti o nell’orizzonte futuro: il passato tormentoso e il
futuro assillante preferiamo quasi sempre metterli da parte: sono due torri
belle cariche di paura mentale da evitare senza pensarci due volte. Il
presente, quello Fico, quello spensierato che vola via in un attimo, viene vissuto
solitamente in buona compagnia, mentre quello da gioco-solitario viene appiattito
in attività di svago, in una presa di coscienza che è lenta a venire fuori;
forse perché il tempo ci sembra sempre troppo poco e il suo veloce
sgocciolamento ci porta speditamente, e senza accorgercene, nelle braccia
tenerose di Orfeo (ma quanto sono morbide e consolanti e paffute a fine
giornata le braccia-cuscino di Orfeo? “Orfeo, sì dico a te, sei proprio un’entità
simpatica e piumata e benevola; te lo dovevo proprio dire, per fortuna che ci
sei, anche se non ti conosco poi così tanto bene, e forse sarà proprio per questo..."). E quindi tic e tac, le
lancette dei minuti del simpatico orologio che troneggia in soggiorno sono
governate dalla lancetta dispotica dei secondi: è lei, fondamentalmente, l’ape
regina che fa scattare le loro arcate ripetitive e circolari. E il tempo passa
e tu, nel frattempo, hai esaurito lo svago esterno, quello artificialmente
indotto, fatto d’immagini, d’informazione, di shopping sfrenato sotto l’albero
delle feste illuminate di rosso, di tempo sprecato davanti a pagine digitali e
super e ipertestualizzate che scorrono come rulli inferociti e che ti
rimbalzano da una parte all’altra come la scia invisibile di una pallina da Ping
Pong, manco fosse Forrest Gump (respect) a disegnarne le traiettorie
posizionato di fronte all'altra parte del tavolo verde rialzato a mo' di pannello verticale, di modo che, da solo e saggiamente, può dialogare di battuta e risposta in tutta tranquillità (che uomo lungimirante). Insomma, arrivata una certa non se ne può più e quindi stacchiamo (da
notare che “staccare” è un termine, un verbo in questo caso, che fa riferimento
al mondo delle cose, e noi non siamo il-mondo-delle-cose). La verità è che
questo mondo sociale ci ha de-contestualizzati, de-spazializzati gli uni dagli
altri, e i nostri affetti più cari sono così tremendamente lontani che non ce
ne capacitiamo; il ché può comportare una gioia impagabile nel momento in cui sboccia
il tanto atteso ritrovo ma che, alla lunga, il più delle volte, ci condanna a
vivere miseramente la nostra assordante condizione di solitudine esistenziale. Le
persone sono sole, che lo vogliano o no, e questo è proprio tangibile, davvero prorompente... Può
essere una mia pippa, un qualcosa che sento ingiustificatamente dal di dentro,
ma è la percezione che si avverte, perché i nostri dialoghi, i nostri incontri,
sono ormai costantemente commisurati su ciò che succede su uno schermo
illuminato, su una pagina che alla fine è solo virtuale, e che toglie carne
alla carne, spirito a quello spirito già andato e bello immesso, tramite parole luminescenti e ultra-veloci, su una
tastiera stanca e accartocciata; una tastiera che ormai riconosce a memoria le nostre impronte
digitali e che risulta levigata dalle loro ripetute e costanti pressioni: queste, non sono altro che le pressioni del nostro Io desideroso di fuoriuscire, scalpitante per farsi mondo, ma che, per ora, risulta essere solo in formato digitale, e ingabbiato, in una sfera invisibile ma ciononostante così urgente socialmente, e che
fino a questo momento non ne conosciamo esattamente le sorti: ci fa spaziare in
un mondo che non sappiamo dove ci porterà. E quindi in questo momento voglio
solo il mare, e imprimere il mio Io solo su di Lui, e da solo con Lui, con quelle sue violente ondate invernali trasportate dal vento soffiante che si
scaraventano sulle coste di casa, e che vengono in fine a prelevare ogni particella del mio pensiero,
quel pensiero minuto e spicciolo e così personale che con quelle onde potrà davvero raggiungere ogni dove.
Accozzaglia di pensieri
tramutati in parole con i Sigur Ros trapiantati nelle orecchie.
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