giovedì 30 gennaio 2014

Idiosincratico

Idiosincrasia è un termine usato sia nel linguaggio parlato sia in campo medico, linguistico e di altre discipline.
Nel linguaggio comune, la parola viene utilizzata per indicare una forte avversione per situazioni o persone non gradite. In questo significato può ritenersi sinonimo di antipatia, avversione verso qualcuno o qualcosa.

L'origine risale al greco antico, ove il composto di idios ("proprio"; agg.) e di synkrasis ("carattere", "inclinazione spirituale") significava una peculiarità di temperamento dell'individuo, senza per forza evidenziarne negativamente le avversioni e repulsioni.

In linguistica, i fenomeni idiosincratici sono le creazioni linguistiche limitate a un ambito ristretto e costruite senza applicare le norme valide negli ambiti più ampi: in pratica, si intendono con questo termine soprattutto le invenzioni dei singoli parlanti, i quali formano parole e strutture sintattiche secondo la fantasia e la propria struttura cognitiva, spesso creando dei neologismi.


Fonte Wikipedia, Etimologia & Linguistica

martedì 28 gennaio 2014

Le lande della transizione difficile

I potenti della terra, i farabutti (e brutti), i cacciatori di capitali il cui unico intento è arricchirsi senza mai vedere la fine sono ormai sull’olimpo della grettezza, e da li su, pressoché indisturbati, comandano i loro mercenari affamati, che avanzano pilotati verso di noi, silenziosamente, sterminando le nostre vitali lande identitarie, passando per tutti i palazzi o l’erba del mondo: truffano, corrompono, cooptano, rapiscono e deridono il nostro, ultimo rimasto, spirito umano e solidale: ci stanno letteralmente prosciugando, e noi cominciamo ad avere sete, una secchezza rassegnata. Andiamo a tentoni cercando disperatamente le ultime gocce di risorse rimaste, e, a pieni palmi, stiamo cominciando a toccare letteralmente il fondo, sul serio.
Le idee sono ridondanti e non hanno più una direzione. C’è un bla bla insignificante che serve solo a spillare soldi all’audience, quei pochi quattrini che ancora sono rimasti nelle tasche sporche e rovesciate. Le nette distinzioni, i confini confortanti, non ci sono più: è tutto morto e tremendamente desolato: lo scenario vero è un’immensa distesa polverosa. Siamo entrati in un pensiero-labirinto circolare, accessibile quasi a tutti e, ciononostante, siamo incapaci di fissare dei punti fermi, familiari: si procede solo per blandi tentativi, e se quello che è stato appena compiuto non è andato a buon fine si ritorna ancora indietro, per tentare ancora una volta un’altra nuova via.
La speranza a tutto questo però vive nella condivisione dei saperi di ognuno, nelle specifiche differenze che attualizzano le esperienze passate e cementate nelle nostre menti, e che danno ogni giorno i loro frutti potenziali, le possibilità di un riscatto da lacrime. Questa condivisione è composta da mini-sistemi che nascono all’occorrenza, in base alle circostanze, e che operano in maniera innovativa per far fronte alle contingenze che saltano fuori come funghi: l’umido si ramifica e fa emergere molteplici e sofisticati bisogni sociali, chi più chi meno. La verità è che ci sono tanti bisogni inevasi e tutto questo rimane lettera morta perché si cercano le risposte in sistemi lenti e ultra-burocraticizzati, dove la miopia del non-intervento (soprattutto per mancanza di risorse) dipende da sistemi di pensiero desueti, non più rispondenti alla sfuggente e veloce realtà. Occorre invece un pensiero fluido, che possieda un bagaglio ben accessoriato, in cui gli attrezzi, congeniali alle singole situazioni, siano complementari e lavorino assieme, sempre. Lo spirito di collaborazione dunque farà la rete, pazientemente la tesserà, e tutti sapranno gestire, nelle loro singole competenze, la cultura comune del coordinamento necessario. Al contrario, essere convinti di riuscire a farcela sempre da soli fidandosi del proprio istinto e battagliando alla disperata davanti alla celebrazione del denaro è roba da incapaci: questi personaggi perderanno sempre, in partenza, oppure diverranno anche loro irrimediabilmente dei mercenari, il ché è lo stesso. Il vero senso è il saper costruire insieme, confrontarsi, dibattere, scannarsi, trovare delle comunanze longeve ma pur sempre pronte a trovare quello spirito di adattamento capace di vederci chiaro. Ormai è lampante a tutti che ci hanno fatto le scarpe: i ricchi si arricchiscono sempre di più e si auto-celebrano tirando una pista di riscatto post-frastuono sul fondoschiena della prostituta. La fetta bella massiccia e grondante della società che ne resta è invece preda dell’isterismo, associato a stress pre-immaginifico per il futuro che l’attende, vivendo una rassegnazione che mi ricorda il muschio irlandese, perché sì: il muschio in Irlanda è di un verde diverso, un verde che col tempo si è tramutato in rassegnazione. Pensare al complotto è ormai cosa passata. Il complotto è bello che passato, ma anche tutto compiuto se ci si vede attorno, e ormai, di questo immane sfacelo, non si possono che raccattare solo i frutti acerbi, quelli già spolpati dagli insetti arrivisti. La gente sta male, lo si nota, lo si percepisce, si incontra il malessere sociale ad ogni passo umano che s’incontri. E non va bene: il futuro non esiste più, non è manco più rischioso, o per essere buoni "incerto". “Una transizione difficile vuol dire attraversare una strada trafficata e pericolosa, senza semafori né passaggi pedonali. Oppure attraversare un torrente impetuoso, con tante rapide e rocce scivolose, attraversarlo in un punto senza aver potuto ben valutare se sia quello più favorevole. Abbiamo paura perché prima di tutto, per passare, dobbiamo guardare bene dove siamo, e ci accorgiamo che partiamo da e con qualcosa che non è solido e che fa pensare «bene, posso staccarmi, ma se perdo anche questo dove vado?». Se sbaglio, se nell’attraversamento ci perdiamo, dove andiamo a finire? Abbiamo paura, una paura che ci rende anche difficile anticipare i processi che ci consentono il passaggio, cioè guardare dove mettere i piedi: dove le auto passano un po’ meno velocemente? Come riesco ad intrufolarmi in maniera tale da non essere investito? E ancora la paura ci fa vedere in modo confuso quel che c’è dall’altra parte. È vero che non sappiamo bene dove si può approdare, ma questo è inevitabile: ormai la nostra vita è fatta così; per tutto non sappiamo cosa ci riserva il domani: dalla nostra salute, alla nostra abitazione, alle nostre condizioni di lavoro. Ma essere consapevoli di tutto questo non toglie la paura. Si tratta allora di attrezzarsi per la transizione difficile: questo consiste nel riuscire a co-costruire un’organizzazione temporanea, che si agganci alle istituzioni esistenti, ma che sia anche differenziata e articolata diversamente, come una sorta di appendice, un elemento a parte che interagisce con le situazioni preesistenti ma che si differenzia, perché è orientata verso una progettualità integrata che le istituzioni normalmente al loro interno non riescono a realizzare: hanno barriere, vincoli, hanno paratie e compartimento stagno, che impediscono movimenti, possibilità, aperture: mantengono attaccamenti e permanenze.” (Manoukian, 2013).

martedì 21 gennaio 2014

Il Salmone sopra il letto di limone


Anime abbandonate, anime sprovvedute: che fine ha fatto la felicità?

Pare di danzare attraverso il vento, e volteggi nel suo tempo la tua melanconica rinuncia

Apri gli occhi e ti osservi in vetta; li riapri subito dopo e non ti capaciti più per quanto rocambolesco e fuorviante può apparire quel misero e illusorio ristoro

E quindi...

Bar, luci e ombre: il tintinnare di bicchieri lucenti serviti in piroetta, da ragazze formose e sorridenti che ti mostrano il conto, lo stesso conto di tutti quei sorrisi che adesso vengono solo animati dall’amarezza dell’ingollo

Destra o sinistra, avanti o indietro: l’eterno ritorno è conforme agli stati d’animo, li riflette e li adegua, li rappresenta e li mette in scena: dà loro una voce teatrale

Febbre, temperatura, rossore... Animazione: spasmi a tradimento

Il dialogo si fa interiore e non smette di parlare. Discute, crea neologismi, cerca con tutte le forze di cavarci qualcosa: le parole si illuminano prima e indietreggiano poi, sparendo nel buio nulla

La materia grigia è confusa: acquerelli di fresca gittata imbevono il riconoscibile, appannandolo

La tv è sempre spenta, le sue antenne invisibili cercano un contatto con il mondo digitale, ma non lo trovano

La strada fuori dalla finestra è illuminata dall’illuminazione pubblica: c’è scritto a chiare lettere sui tombini sparsi tra i ciottoli; sono le strade maestre, quelle civiche e collettive, che non sono più illuminate dalla stessa luce

C’è una luce diversa, verde, come la luce del mio corridoio, un trip di menti sane ritrovatesi nella convivialità del privato assoluto: intangibile, pazzo, lunatico, per forza di cose diverso da te

Le relazioni sono come le spie dei comandi che popolano l’abitacolo di una macchina: sono talmente complicate e nascoste che neanche le istruzioni o le illustrazioni adiacenti riescono a render giustizia alla tua frustrata rassegnazione

E la cucina è colore salmone: ti pare di stare dentro alla sua paffuta pancia colorata, e attendi: no, non nella balena, attendi nella pancia del salmone; ed è buono il salmone, come la pazienza del suo grasso per essere digerito (meglio arrostito sopra un letto di limone: l’acido lo aromatizza di più)

Ma tanto, perché dispiacersi? Non è tutta una finzione? Non è stato detto che la realtà non esiste? Sì, penso di sì. Per quello che risulta dall’obiettivo della mia percezione è solo un calderone di sensazioni soggettive, sparute, sparse per ogni dove e alla rinfusa, senza alcuna precisa direzione: un orgiastico fuoco d’artificio che si spegne nell’immenso mare della realtà, su quella immensa superficie che ricopre i suoi abissi imperscrutabili

Quale direzione allora prendere? “Sii spontaneo” “Dai alito ai tuoi istinti”... Si ma... Se me lo dici con l’imperativo non risulta più spontanea la cosa; come dire: non mi viene più di seguire quelle rare alitate dell’istinto che copiosamente riscontravo in fanciullezza

Anime gioiose, anime in festa: godetevi non l’attimo, per carità, ma le sensazioni che quell’attimo vi produce dentro, e mandatele a ripetizione sui vostri schermi, quelli stessi schermi dove vengono proiettati i vostri occhi interiori, perché quando saranno inondanti dalle lacrime lo scoglio dello zigomo sarà dolce, non rude, ma sensazionale: una filtro di rigenerazione che si lancia a strapiombo, e via (è solo una metafora, fermi lì)  

mercoledì 15 gennaio 2014

La musica cova la melodia di una società nuova (forse)

Cantanti diversi nello stile che dialogano in musica. Cooperazione musicale, fare collettivo, creare dei sogni di condivisione, trovare lo spunto giusto per esaudire l’essere umano che è in noi: è una tendenza attualmente dilagante nel panorama pop musicale, un timido tentativo di risveglio. La competitività ci rende miseri, soli: si sta forse avvertendo che la classica popolarità dell’individuo solitario è una condizione che alla lunga logora, logora e basta. Hanno pensato bene di chiamarsi a vicenda, telefonarsi, chattarsi, chiedere con tono amicale e sereno, chiedere come stai. Semplice: una semplice presa d’atto della fratellanza che ci unisce, nulla di più.
In queste collaborazioni stilistiche e musicali che spuntano come funghi all’uscita di un nuovo pezzo, si accoglie il responso positivo del grande pubblico, e quest’ultimo ne è piuttosto entusiasta. Sì, perché è davvero ammaliante (io mi tiro fuori) lasciarsi trasportare dalle melodie diversissime ma anche incredibilmente vicine di mondi così divergenti che dialogo, si miscelano e creano il mondo col botto: fuochi umani nella disinvoltura del sincero. Ancora sì, perché è un qualcosa che sa ben coniugare le intime sofisticatezze degli stili di ognuno in un qualcosa di veramente nuovo, di così sorprendentemente diverso.
Non c’è alcun bisogno di capirne di musica (io personalmente ascolto e basta), di stare lì a criticare ogni singola distorsione che nasce dal primo scettico contrasto di due linguaggi che, si pensa sempre erroneamente, parlano solamente al proprio specchio egoistico. Questo semplice lavoro lo lasciamo ben volentieri all’estro degli esperti in materia. È piuttosto l’idea di fondo che disappanna da ogni minimia perplessità, da dubbi fondati su una moda passeggera che passa da lì solo per beccarsi la fetta di torta che gli spetta. Quest'idea è solo un dialogo fatto di sincerità, iniziato, sembra, da una prima impressione che intravide un accostamento di generi diversi non poi tanto pensato ma buttati lì, e lanciato dallo spirito dell’entusiasmo.
Certo, queste strambe unioni fanno fare soldi a palate, e su questo, mi sa, anche qui, e mi dispiace tanto ammetterlo, non ci sono ombre attribuibili a dubbi. L’utopia di un mondo felice dove avrebbero potuto comandare il fair play, la stretta di mano, o la spallata accostata, o ancora l’empatia ma quella vera, viene soppiantata dalla cruda e amara realtà; come sempre, quando si aprono davvero gli occhi sulla melmosa realtà.
Alla fine poco importa se lo facciano a fini di lucro personale o per un vero slancio verso la concezione di un mondo più umano, più solidale, più aperto. Anche loro, alla fine, devono campare, e per campare, e poter dunque riuscire nell’intento di sopravvivere, si sa, bisogna tutti quanti sgambettarsi l’uno l’altro, senza esclusione di colpi. Tutta la vita sociale su questo pianeta è fatta così: un’inutile sterminio consumato a vicenda sulle rovine di ciò che poteva essere: un mondo che nella sua splendida complessità, è semplice. È vero, probabilmente nella musica si può nutrire ancora una speranza di redenzione. Si può ancora riconoscere in essa, e nonostante tutto, una lontana convinzione che ci parli sulla possibilità di farcela, e che, dopotutto, è ancora lungo il cammino da compiere, come sempre, e che non dobbiamo arrenderci, per nessun motivo, perché la riconosciamo benissimo quelle naturale predisposizione che possediamo tutti, ma verso la quale facciamo spesso finta di nulla, per narcisismo, per pigrizia, e cioè: decifrare l’elegante codice che c’è dietro la sua audace bizzarria, dietro quella enigmatica soluzione che non riusciamo a chiamare diversamente se non vita.
Lo sappiamo, ne sono sicuro, lo sento. Ma dobbiamo prendere atto che siamo ancora lontani dal saperlo ben coccolare, da saperlo ben custodire quel codice, quella cosa che ci pare irrimediabilmente lontana, ma che nella luce soffusa della sera riusciamo a scorgere... Sì, proprio lì: nel luccichio che si crea in un nostro sguardo di reciproca intesa.
Può essere una grande rilevazione questa, e cioè che cantanti o gruppi musicali comincino a scrivere album insieme, e tutto questo, agli inizi, non può che essere un tentativo laboriosamente sperimentale. Se davvero la musica tutta è tanto importante, in qualsiasi forma essa invada e conquisti i regni dell’acustica umana, ed è cruciale a tal punto da affermare che senza di essa la vita sarebbe completamente sbagliata, allora si potrebbe fare un pensiero benigno; perché no?
Certo, poi ti viene sicuramente da pensare che sarà partito tutto per una trovata di tipo commerciale, come succede spesso nei festival di cantanti famosissimi, che non sono altro che uno sposalizio vantaggioso per tutti in termini di brand personale e d’immagine. E quindi capita di ascoltare cantanti della musica popolare che si affiancano, nelle voci, a questo linguaggio più rude, violento, proveniente dal ghetto incatenato per strada, ai Rapper per intenderci.
Ma nonostante queste negative considerazioni, sembra proprio di ascoltare la voce di un popolo unito che, finalmente, e per una volta, sembra voler riconoscere le diversità di ognuno, le proprie peculiari libertà espressive. Il collettivo, quindi, non reprime le singole individualità ma le esalta, mettendo ancor di più in un contrasto inaspettato le loro specifiche pecche e ricchezze: tutto assieme. L’idea di competitività si arresta giusto il tempo della melodia e poi, forse, va a conquistarsi un proprio status invidiabile: il frutto di una collaborazione tanto sperata e che è riuscita magnificamente nel suo intento.
Insieme è meglio, insieme è divertente, insieme conviene di più a tutti: più tutti vivono la loro musica senza nessun censura sulla propria espressività singolare e più le cose girano meglio, più la melodia acquisisce dei tratti così sofisticati che non pensava di avere prima, proprio perché è tramite l’incontro col diverso che lo specchio si infrange e cominciamo finalmente a vedere meglio noi stessi.
Però sarebbe davvero bello, lo so, un’utopia forse, e quindi dobbiamo accontentarci dell’attimo di consapevolezza e basta, quell’attimo in cui almeno si ha la possibilità di fantasticare, e di trovare connessioni utili per il nostro animo affamato di bellezza, assettato di un mondo che ha le sue chiavi per entrare nelle porte del cambiamento e non le sfrutta, facendo finta di non sapere dove le ha dimenticate...
E quindi quell’attimo inebriato, poco prima del freddo disincanto, lo colgo in queste parole, le parole di uno scrittore che mi fa davvero tenerezza, trattasi del buon vecchio Boll che, passeggiando per la verde Irlanda, ci racconta uno dei suoi mille incantevoli quadri: "Le palline ruzzolano ancora contro la pietra dei gradini, gocciole bianche di gelato cadono nel vicolo, si posano un attimo sul fango come stelle, un attimo soltanto, prima che la loro innocenza si distrugga nel fango." Ecco, vorrei sapere che gusto ha quell’attimo, quell’attimo precario in cui quelle gocciole di gelato disegnano delicatamente stelle posandosi sul fango...

P.S. La musica pop e/o commerciale non mi piace poi tanto, anzi direi che non mi piace affatto. Piuttosto, sono le occasioni di ascolto del diverso, di un qualcosa che per te non è per nulla familiare che ti portano, bizzarramente, a fantasticare su cose a cui non avevi mai pensato prima.

lunedì 6 gennaio 2014

La vitale noia dello stacco segnato

Fuori è già buio. Il tuo giorno è passato senza troppi intoppi ma è andato comunque a nascondersi laggiù, da qualche parte. Il notiziario della sera brontola le solite sconcertanti notizie. Anche le giornaliste discutibilmente ben vestite sono parecchio imbronciate, e la loro fredda voce cadenzata ti risulta stridula, insopportabile; addirittura più fastidiosa di quelle finte voci gioiose che riempiono, di un tempo inutile e votato solo al denaro, quelle pessime pubblicità provinciali da quattro soldi che non smettono mai di passare alle frequenze radio più sfigate e sconosciute. Pensa un po’ cosa ti tocca ascoltare: ci saranno albe di tempi migliori, non temere. Ti senti piuttosto annoiato, e questo, da un punto di vista che non è proprio il tuo, potrebbe sembrare un miracolo, ma tu per il momento lo ignori completamente.
L’anno nuovo è bello che iniziato e ormai si è imposto su tutti i fronti, ma tu, ancora una volta, non ti sei accorto di nulla: eri troppo impegnato a girarti d’improvviso di spalle, per viverti, in seduta solitaria, tutte quelle cartucce di starnuti che non pensavi minimamente di possedere. La scatola dei kleenex che per tutta una serata ti ha tenuto compagnia, e che hai avuto la dolce premura di portarti costantemente sottobraccio, alla fine è riuscita nel suo ultimo intento semantico: chiedere resa ad ogni bianca sfilata di sventolamento. I fazzoletti bianchi di quella scatola amica, perciò, si sono dimostrati coraggiosi soccorritori, pronti a sacrificarsi ad ogni ripetuto e necessario tamponamento: finivano alla lunga per inzupparsi integralmente a fronte di tutte quelle colanti mucose burrascose che, anche qui, non pensavi assolutamente di custodire; che non sapevi potessero provenire da un tuo di dentro mai dimostratosi così abbondantemente provvisto. Ad ogni modo, tramite gruppi intestati di e-mail, ti sei impegnato ad inoltrare a tutti loro (agli eroi-kleenex così coraggiosi) i tuoi più sentiti e ormai prosciugati ringraziamenti, e sei stato parecchio carino e gentile: questo non potevo non dirtelo.
Il peggio è ormai passato, e sei finalmente ritornato a respirare libero, al di là di quella trincea che ti ha lobotomizzato tutti i sensi: sei riuscito a conquistarti una nuova respirazione felice. Molto più sereno, poco fa, stavi ripercorrendo nei tuoi pensieri una frase ricorrente e familiare che t’è venuta in mente quando eri ormai certo che la quiete post-starnutifera era vicina: “Mai avuto così, che io ricordi”, il raffreddore immagino che sia.
E quindi Buon Anno, è giunta l’ora di dirtelo, a scanso di germi che, si spera, non siano più polleggiati nei tuoi paraggi per socializzare tra loro. E allora arriva il momento in cui si può annunciare che le festività natalizie la signora imbacuccata e col naso oblungo se le porta tutte via, e tu, nel frattempo, hai appoggiato le braccia al caldo davanzale riscaldato dal termosifone che si trova subito sotto, quello stesso che distribuisce, invisibilmente, aria calda ascensionale sbuffando sulle tendine che appena si rigonfiano scostandosi da quella finestra da dove ora stai scorgendo non so cosa, forse nulla in particolare, ma sicuramente non avrai la possibilità di cogliere nessuna scia di scopa armata di pazienza, e che raccoglie quelle luci così colorate e gioiose che continuano a ricordarti un periodo di stacco, una sospensione da tutto il resto. Gli stacchi che riguardano quelle cose che prima o poi rivedrai sicuramente, si prendono tutto il loro tempo prima di dirti Ciao con la manina. Sono lenti, li vedi ancora anche quando tutto è finito, e sono quasi degli arrivederci, perché sai che, in un altro similare periodo identico a quello che hai appena vissuto, li rivedrai sicuramente. Sono invece gli altri stacchi, quelli stessi che chiami di-stacchi perché inaspettati e inspiegabili e se vogliamo tremendamente prematuri, a non degnarti minimamente di un briciolo di saluto: vanno via e basta, si slacciano da te, e non ritornano più, per sempre.
E mentre componi nella tua testa queste considerazioni tutto sommato scontate rimani piantato a quella finestra, assaporando quella stessa noia che ti ha invaso poco fa, e che cominci a comprendere, perché in tutte queste feste appena trascorse (sì, nei stai raccogliendo gli ultimi sgoccioli proprio ora) è stata la tua salvezza sin dal principio, e ora lo sai.
La televisione è spenta, l’orologio continua a ticchettare, il movimento lento delle auto fuori dalla finestra sta allestendo il nuovo giorno che verrà, e tu ti godi il momento: gli attimi che riempiono la cerimonia di uno stacco segnato; il lasciare andare di alcune giornate sospese che chiudendo e aprendo gli anni, a cavallo, rappresentano le dentellature delle tue cerniere interiori, quelle che potrai chiudere sempre da solo e con sicurezza, per custodire quei giorni natalizi passati con un curante amore per la noia perpetua, quella stessa noia e ripetizione e legame sanguigno che ti lega a chi tieni più di chiunque altro, a coloro che in fondo compongono, con stacchi ripetitivi e sempre presenti, la tua insignificante ma così sorprendente vita. Rimani ancora alla finestra, e osservati. Ciao.