mercoledì 30 ottobre 2013

A cena con Tony Judt

L’ironico lascito degli anni Sessanta

Un aspetto peculiare di quell’epoca era che la frattura generazionale correva trasversalmente alle classi sociali, oltre che alle esperienze nazionali. L’espressione retorica della rivolta giovanile era ovviamente confinata a una ristrettissima minoranza: anche negli Stati Uniti di allora la maggior parte dei giovani non frequentava l’università e le proteste nei college non rappresentavano necessariamente la gioventù americana nel suo complesso. Ma i sintomi generali della dissidenza generazionale – musica, abbigliamento, linguaggio – erano insolitamente diffusi per effetto della televisione, della radio a transistor e dell’internazionalizzazione della cultura popolare. Alla fine degli anni Sessanta, il divario culturale che separava i giovani dai loro genitori era forse maggiore che in qualunque altro momento storico dall’inizio dell’Ottocento ad allora. Questa rottura della continuità evocava un altro mutamento tellurico. Per la precedente generazione di politici ed elettori di sinistra, il rapporto «lavoratori» e socialismo – fra «poveri» e Stato sociale – era lampante. La «sinistra» era associata da tempo (e vi dipendeva in gran parte) al proletariato industriale urbano. Al di là del pragmatico apprezzamento dei ceti medi, le riforme del New Deal, le socialdemocrazie scandinave e il welfare state britannico avevano fatto leva sul sostegno presunto di una massa di operari e dei loro alleati. Ma nel corso degli anni Cinquanta questo proletariato operaio si stava frammentando e riducendo. Lo sfiancante lavoro manuale nelle fabbriche tradizionali, nelle miniere e nell’industria dei trasporti stava cedendo il passo all’automatizzazione, alla crescita dell’industria dei servizi e a una forza lavoro sempre più femminilizzata. Perfino in Svezia i socialdemocratici non potevano più sperare di vincere le elezioni semplicemente assicurandosi la maggioranza del voto operaio tradizionale. La vecchia sinistra, con le sue radici nelle comunità proletarie e nelle organizzazioni sindacali, poteva contare sul collettivismo istintivo e sulla disciplina (e acquiescenza) comunitaria di una forza lavoro industriale compatta e determinata. Ma la sua incidenza percentuale sul totale della popolazione stava diminuendo. La nuova sinistra, come cominciava a chiamarsi in quegli anni, era qualcosa di molto diverso. Per la nuova generazione, il «cambiamento» non doveva arrivare attraverso una disciplinata azione di massa definita e guidata da portavoce autorizzati. Il cambiamento stesso si era spostato, apparentemente, dall’Occidente industriale ai paesi in via di sviluppo, al «Terzo mondo». Tanto il comunismo quanto il capitalismo erano accusati di stagnazione e «repressione» . L’iniziativa dell’innovazione e dell’azione radicale era ora affidata a contadini di paesi remoti o a una nuova gamma di categorie rivoluzionarie. I maschi proletari venivano soppiantati dai «neri», «studenti», «donne» e (un po’ più tardi) «omosessuali». Dal momento che nessuna di queste categorie, in patria o all’estero, godeva di rappresentazione distinta nelle istituzioni delle società del benessere, la nuova sinistra si presentava, più o meno consapevolmente, come un movimento che si opponeva non semplicemente alle ingiustizie dell’ordine capitalistico, ma principalmente alla «tolleranza repressiva» delle sue forme più avanzate, a quei sovrintendenti benevoli che avevano liberalizzato le vecchie restrizioni o che avevano garantito a tutti un miglioramento della propria condizione. Soprattutto, la nuova sinistra (e i suoi elettori, in stragrande maggioranze giovani) rifiutava il collettivismo tramandato dai suoi predecessori. Per la precedente generazione di riformisti, da Washington a Stoccolma, era lampante che la «giustizia», l’«uguaglianza di opportunità» o la «sicurezza economica» fossero obiettivi condivisi che potevano essere raggiunti solo attraverso l’azione comune. La regolamentazione e il controllo dall’alto, eccessivamente intrusivi, avevano i loro limiti, ma questo era il prezzo della giustizia sociale, ed era un prezzo che valeva la pena pagare. La generazione più giovane vedeva le cose diversamente. La giustizia sociale non interessava più i radicali. L’elemento unificante della generazione degli anni Sessanta non era l’interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno. L’«individualismo», l’affermazione del diritto di ogni persona alla massima libertà privata e alla libertà assoluta di esprimere desideri autonomi, ottenendo il rispetto e l’istituzionalizzazione di tali desideri da parte della società nel suo insieme, divennero le parole d’ordine della sinistra. «Fai quello che ti senti», «Spogliati di tutte le inibizioni», «Facciamo l’amore, non la guerra»: non sono obiettivi irrilevanti, ma sono per loro stessa natura beni privati, non pubblici, e com’era prevedibile condussero all’affermazione generalizzata secondo cui «il personale è politico». La politica degli anni Sessanta «devolvette» dunque in un’aggregazione di rivendicazioni individuali nei confronti della società e dello Stato. Il dibattito cominciò a essere colonizzato dall’«identità»: identità privata, identità sessuale, identità culturale. Da qui alla frammentazione della politica radicale, alla sua metamorfosi in multiculturalismo, il passo era breve. Curiosamente, la nuova sinistra continuava ad essere molto sensibile agli attributi collettivi degli esseri umani di terre lontane, che potevano essere ammassati in categorie sociali anonime come «contadini», «postcoloniali», «subalterni» e così via. Ma entro i patri confini, l’individualismo regnava supremo. Per quanto legittime possono essere le rivendicazioni individuali, per quanto importanti possono essere i diritti dell’individuo, mettere l’accento su simili aspetti comporta un costo ineludibile, e cioè il declino del senso di uno scopo condiviso. Un tempo il vocabolario normativo dell’individuo veniva ricavano dalla società (o dalla classe sociale, o dalla comunità): quello che andava bene per tutti andava bene, per definizione, per ogni singolo individuo. Ma il contrario non vale: quello che va bene per una singola persona non è detto che sia importante o utile per un’altra. I filosofi conservatori di epoche precedenti lo sapevano bene ed è per questo che ricorrevano al linguaggio e all’immaginario della religione per giustificare l’autorità tradizionale e i suoi diritti su ciascun individuo. Ma l’individualismo della nuova sinistra non rispettava né lo scopo collettivo né l’autorità tradizionale: d’altronde, era nuova, oltre che sinistra. Rimaneva il soggettivismo dell’interesse e del desiderio privato (e privatamente misurato). Tutto questo, a sua volta, favoriva un relativismo estetico e morale: se qualcosa va bene per me, non compete a me stabilire se va bene per qualcun altro, né tantomeno imporglielo («Fai quello che senti»). È vero, molti radicali degli anni Sessanta erano sostenitori entusiasti delle scelte imposte, ma solo quando tali scelte riguardavano popoli remoti di cui si sapeva poco. A posteriori, stupisce vedere quante persone in Europa e negli Stati Uniti espressero entusiasmo per l’uniformizzazione dittatoriale della «rivoluzione culturale» di Mao Zedong, mentre in casa il concetto di riforma culturale era interpretato nel senso di estendere il più possibile l’iniziativa e l’autonomia dell’individuo. A così tanti anni di distanza, può sembrare strano che molti giovani negli anni Sessanta si identificassero con il «marxismo» e con progetti radicali di ogni sorta dissociandosi al tempo stesso da norme conformistiche e obiettivi autoritari. Ma il marxismo era il tendone ideologico sotto cui si radunavano stili di dissenso molto diversi tra loro: e lo era anche e soprattutto perché offriva un’illusoria continuità con la precedente generazione di radicali. Ma sotto quel tendone e per effetto di quell’illusione, la sinistra si frammentò e perse ogni percezione di uno scopo comune. Al contrario, la «sinistra» assunse un’aria vagamente egoista. In quegli anni, essere di sinistra, essere radicali, voleva dire essere egocentrici, preoccupati solo di promuovere se stessi, avere un’ottica peculiarmente ristretta. I movimenti studenteschi di sinistra erano più interessati agli orari di apertura e chiusura dei college che alle condizioni di lavoro nelle fabbriche; gli universitari figli dell’alta borghesia italiana pestavano poliziotti sottopagati in nome della giustizia rivoluzionaria; le rabbiose contestazioni proletarie contro i capitalisti sfruttatori cedettero il passo a slogan spensierati e ironici che chiedevano libertà sessuale. Non significa che la generazione di radicali fosse insensibile all’ingiustizia o alla prevaricazione politica: le manifestazioni contro la guerra del Vietnam e le rivolte razziali degli anni Sessanta furono importanti. Ma erano scollegate dal sentimento di uno scopo collettivo, concepite più che altro come prolungamento della rabbia e dell’espressione dell’individuo. […] Il consenso implicito dei decenni del dopoguerra ormai era andato in frantumi e cominciava ad emergere un consenso nuovo, e decisamente innaturale, incentrato sul primato dell’interesse individuale. I giovani radicali non avrebbero mai descritto in questo modo gli scopi che si proponevano, ma era principalmente la distinzione fra encomiabili libertà private e indisponenti limitazioni pubbliche ad accedere le loro emozioni. E per ironia della sorte, anche la nuova destra che stava emergendo basava la propria identità su questa distinzione.

Questo libro va assolutamente letto: imprescindibile.

Parti in corsivo mie. L’intero testo tratto da Guasto è il mondo, Tony Judt, Laterza 2010.

martedì 29 ottobre 2013

L'iperrealtà dell'e-democracy

A parere di molti studiosi, la società in cui ci è capitato di vivere, e che dunque caratterizza sia le modalità sia i tempi scanditi dalla nostra vita quotidiana, presenta a tutt’oggi i tratti della complessità. La significatività e la portata di tale affermazione può essere applicata e discussa nei diversi campi dello scibile umano, trovando pressoché unanimi consensi su una questione centrale e di fondo: siamo di fronte ad un cambiamento di carattere epocale. Il cambiamento in atto sembra viaggiare sui binari dell’incertezza e dell’indefinito, rendendo pertanto l’inquadramento dell’intero sistema societario poco uniforme e difficilmente identificabile, assumendo, dunque, caratteristiche complesse che sono proprie di quelle relazioni che si attivano tra i vari sottosistemi che lo compongono.
Nel nostro Paese, la riforma in corso d’opera dello Stato sembra essere un indice inequivocabile di questo cambiamento, che pone quest’ultimo nelle condizioni e nella necessità di ridefinirsi sia internamente sia nei suoi rapporti con l’esterno. Tutto questo pare evidente dalla recente riforma amministrativa, che ha investito l’intero settore/sistema Pubblico, andando a rivoluzione la propria concezione di ruolo e di intervento tradizionalmente attribuibili ad esso. L’impellenza scaturita dalla scarsità di risorse e dalla congiunta “emergenza” di nuovi ed eterogenei bisogni da soddisfare, ha segnato una battuta d’arresto e al contempo una specie di “ritirata” dello Stato, che ha visto nella crisi della concezione e della pratica del welfare state il proprio compimento. Dunque vi è un mutamento di ruolo: da Stato-soggetto lo Stato tende a prendere le fisionomie di un soggetto regolatore, rendendo praticabile e funzionale un discorso sulla “cosa pubblica” che sia estendibile al resto della società civile intesa in senso lato.
Il quadro degli interventi normativi coglie appieno questo cambiamento di rotta, e detta le condizioni di un nuovo approccio relazionale che va a ridefinire primariamente i rapporti tra Stato e cittadino, nuovo interlocutore privilegiato che diventa protagonista effettivo della filosofia riformatrice. Quest’ondata di mutamento prende avvio, per l’appunto, a partire dagli anni novanta, dove l’emanazione della legge n. 142 e la susseguente legge n. 241 introducono aspetti del tutto innovativi rispetto all’assetto precedente. Prendendo in considerazione quest’ultima (n. 241) – che attribuisce una maggiore concretezza agli istituti di partecipazione e accesso gia previsti dalla prima (n. 142) – sembra come, nel pensiero del legislatore, si volesse introdurre un nuovo capitolo costituzionale riguardante la democrazia amministrativa. Infatti, la legge assurge a rango costituzionale, soprattutto in relazione alla pubblicità degli atti e dei documenti di un’amministrazione pubblica che aveva fatto fino ad allora del segreto, della discrezionalità e del clientelismo un modello paradigmatico nella definizione dei propri rapporti con i cittadini. Si passa, dunque, da una legittimità interna ed esterna di uno Stato che poneva le sue fondamenta principalmente sull’autorità e sulla segretezza – quest’ultima associata soprattutto ai processi di funzionamento interni – ad una legittimità e una legittimazione che fa della trasparenza il proprio fondamento nell’esercizio del potere e della funzione pubblica.
Per ri-configurare dunque un’amministrazione capace di rispondere ai cambiamenti in atto e di corrispondere, in maniera soddisfacente, alle esigenze della società civile, bisogna concepire un sistema che gestisca di meno e regoli di più e nel miglior modo possibile; che fornisca prestazioni di elevata qualità e orientate soprattutto ai bisogni dei cittadini; che presenta una massima snellezza operativa con adeguata possibilità di scelta da parte degli utenti/clienti dei pubblici servizi; e che introduca importanti e decisivi meccanismi di controllo sui risultati – ai fini di un feedback valido orientato alla ri-programmazione – tanto più efficaci quanto poco invasivi e formalistici.
Si sviluppa pertanto, all’interno della pratica amministrativa, l’adozione di quei modelli che sono tipici del marketing dei servizi, rivoluzionando in questo modo le pratiche e i saperi del personale interno, che dovranno responsabilizzarsi e sensibilizzarsi verso una cultura che avrà come destinatario principale il cittadino. Ovviamente, il tentativo e la necessità di mutuare questi modelli dalle imprese di mercato e di adattarli in maniera automatizzata al settore pubblico, non può che produrre dei risultati controproducenti. Nel momento in cui si acquisiscono nozioni utili derivanti da sperimentazioni già rodate – appunto ciò che avviene nel settore privato – vi è la necessità imprescindibile di dover quanto meno adattare tali modelli e tali pratiche alle caratteristiche proprie del settore pubblico.
Gli effetti che potranno sortire – si spera – da questo cambiamento significativo a livello di norme prelude un effettivo allargamento e riconoscimento di nuovi diritti di cittadinanza. In primo luogo garantendo ai cittadini il diritto d’informazione (soprattutto nelle sue declinazioni di informarsi e di essere informati); costruendo e promuovendo l’identità dell’ente pubblico per rinsaldare i rapporti dei dipendenti pubblici e l’amministrazione da un lato e i cittadini e l’ente stesso dall’altro; offrendo, per l’appunto, la possibilità ai cittadini di esprimere in maniera attiva e sostanziale i diritti di cittadinanza, nell’ottica auspicabile di divenire soggetti corresponsabili della soluzione di problemi d’interesse generale. Tutto ciò potrà potenzialmente produrre – e aprire dunque le porte – ad un cambiamento insito e molto più importante, che riguarda la mentalità e la cultura all’interno della pubblica amministrazione: riconoscere la comunicazione quale risorsa strategica, processuale, innovatrice per la definizione degli scambi e dei rapporti con i cittadini. Questi effetti, tuttavia, allo stato attuale dei fatti trovano numerose resistenze d’attuazione e di metodo, tanto che la loro lungimiranza può essere contemplata e apprezzata nel dettaglio normativo e solo in rare eccezioni (solitamente Amministrazioni locali), in cui è effettivamente presente una sensibilità maggiore per questi temi a livello politico e dirigenziale.
La legge 150/2000 suggella e rende compimento di un percorso intrapreso dieci anni prima. Le modifiche e le innovazioni del funzionamento e delle pratiche che hanno interessato il comparto organizzativo della pubblica amministrazione, ha reso ingente la necessità di individuare nell’informazione e nella comunicazione le leve strategiche per porre in essere le attività di “apertura”, intese in senso lato. Riconduco a questa apertura un’accezione di tipo generale perché l’importanza degli strumenti che hanno come base veicolante le informazioni, finalmente accessibili, e una comunicazione, fondata sulla collaborazione, vengono individuati in una comunicazione che deve pervadere l’intera struttura. Nella legge, infatti, vengono riconosciuti tre aree di operatività in relazione ai destinatari della comunicazione: vi è l’informazione veicolata ai mezzi di comunicazione di massa; la comunicazione esterna, che individua quali destinatari i cittadini, collettività più ristrette, altri enti; la comunicazione interna, che ha per destinatari chi opera all’interno di ciascun ente; la comunicazione inter-istituzionale, che ha per destinatarie altre istituzioni e rende operativa la semplificazione nella gestione di atti e documenti in condivisione. Uno degli strumenti che rappresenta in un certo senso il punto cardine e d’incontro tra questi tipi di comunicazione – che in maniera funzionale deve dare adito a ciò che è previsto per norma – è senza dubbio l’Ufficio per le relazioni con il pubblico (URP – decreto 29/1993). Tale strumento, oltre a configurarsi come punto d’ascolto primario rivolto ai cittadini, rende pratiche le esigenze della trasparenza e della partecipazione attiva.
Nel primo caso la trasparenza viene attuata, come prima accennato, anche con la facilitazione della messa in condivisione di tutti i servizi e di tutte le prestazioni fornite per diritto al cittadino. Tale condivisione, attuata tra pubbliche amministrazioni attraverso reti telematiche, rendono effettivamente fruibili quegli impegni presi grazie al contributo normativo delle quattro leggi Bassanini: maggiore autonomia degli enti locali, delegificazioni, semplificazioni; tutto ciò per rendere meno onerosa la “ricerca” del cittadino non informato tra amministrazioni anch’esse poco informate sull’attività delle altre amministrazioni, differenziate nei compiti o ad esse correlate. L’Urp, ad ogni modo, consente una maggiore fruibilità delle informazioni anche a livello di comunicazione interna; difatti, una maggiore trasparenza in tale senso consente una facile prestazione nei servizi da erogare da parte degli stessi operatori, essendo informati e collegati ad altri comparti interni che potrebbero, in caso di necessità, giungere in aiuto nell’espletamento di pratiche e procedure poco chiare. La comunicazione interna è molto importante: costruire un senso di’identità forte e collaborativo all’interno dell’organizzazione, che gli permette appunto di percepirsi come tale con una propria cultura amministrativa, consente di interfacciarsi verso una comunicazione esterna più efficace, tale da rifondare quel rapporto di fiducia che, per molto tempo, sembra essersi logorato tra Stato e cittadini. Solo il nuovo riconoscimento di una fiducia di questo tipo e una collaborazione positiva da entrambe le parti potranno dare adito, rendendola concretamente attraverso la risorsa strategia della comunicazione, ad una vera riforma strutturale ma anche culturale della pubblica amministrazione.
Il versante della partecipazione attiva, attuato attraverso l’Urp ma anche tramite altri strumenti di semplificazione e di modernizzazione, può rendere concreto ed effettivo il coinvolgimento dei cittadini al processo decisionale (es. tavoli di progettazione Politiche Pubbliche). Ma per arrivare a questo c’è ancora molta strada da percorrere. Le ultime leggi Brunetta, infatti, fanno riferimento solo al miglioramento della qualità dei servizi e ad una maggiore conoscenza e predisposizioni di questi rivolti ai cittadini, considerati più che altro come utenti/consumatori (si veda, per esempio la proliferazione delle reti civiche e le loro evoluzioni in “Città digitali"). Certo, le iniziative di customer potrebbero rendere più effettiva la partecipazione dei cittadini alla programmazione delle prestazioni e dei servizi loro rivolti, ma bisognerebbe anche capire sia come queste progettualità vengano poste in essere sia il grado di coinvolgimento che viene concesso al cittadino. Siamo in presenza di un effettivo e-government che si contrappone alla realizzazione necessaria e complementare della e-democracy. Per rendere realizzabile quest’ultima bisognerebbe capire e intuire che i cittadini vanno accolti e affrontati nelle loro necessità non primariamente come problema, ma come risorsa funzionale e strategica. Tale è la concezione del modello di comunicazione amministrativa o comunicazione di cittadinanza, che vede nella partecipazione attiva ed effettiva dei cittadini ai processi decisionali una possibilità concreta per poter risolvere congiuntamente problemi di interesse collettivo. Poiché tali problemi oggi si presentano in maniera complessa (ritornando alla problematica iniziale della complessità), è bene mobilitare quante risorse possibili – assieme a competenze, visioni del mondo differenti e complementari – di più soggetti che, nelle loro possibilità, compartecipano responsabilizzandosi alla risoluzione di problematiche di interesse generale. “Il ruolo essenziale dell’amministrazione consiste non tanto nel risolvere direttamente il problema, quanto nel mobilitare le risorse pubbliche e private per far ciò, svolgendo cioè il ruolo di imprenditrice delle capacità esistenti nella società” (Arena, 1999).
Vorrei concludere con una citazione conclusiva a me cara, e che riassume quanto detto in maniera puntuale, filosofeggiante, fuori dagli schemi: “Non si può condurre gli uomini al bene; si può solo condurli da qualche parte. Il bene è al di fuori dello spazio dei fatti” (Wittgenstein, 1929).

sabato 26 ottobre 2013

Il luccichio del medium non è il messaggio

Lo scrittore postmoderno, non c’è che dire, dovrebbe essere un tipo di personaggio davvero incredibile – parlo, ovviamente, di scrittori con la S maiuscola, e non di quelli che vengono ritenuti tali solo perché riescono a far breccia grazie a quel tipo di marketing selvaggio che, per aderire alle macabre logiche di mercato, riempie, com’è ormai da tradizione, le librerie di tutto il mondo proponendo insulse pile di libri che ostacolano il passaggio davvero da boccata d’ossigeno (quando ci riesci) verso quelle traiettorie di scaffali veramente degni di uno sguardo incuriosito e a dir poco appagante. Dunque i veri scrittori li riconosci solitamente in seconda battuta, te li devi andare a cercare per dirla in breve, e percepisci che sei davvero in buone mani solo quando c’è il momento fatidico dell’apertura della prima pagina e scopri che sei al cospetto di un qualcosa di spiazzante e di voglioso che ti tira con sé nel prosieguo di quelle parole che si susseguono burrascose. Infatti, come cercò di suggerirci sapientemente il nostro, per molti aspetti insuperabile, Italo Calvino, nel suo romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, il più delle volte un buon libro deve riuscire a farti spiccare il volo dell’immaginazione, della curiosità e della commistione tra simbolico e reale dal ritmo inconfondibile delle sue prime battute, dall’incipit insomma. Quel romanzo di Calvino, ricordo (e chi se lo scorda) è abbastanza bizzarro nella sua costruzione e “narra la storia di un Lettore che, nel tentativo di leggere un romanzo (intitolato appunto Se una notte d'inverno un viaggiatore), è per ragioni sempre differenti costretto a interrompere la lettura del libro che sta leggendo e intraprendere la lettura di un altro. L'opera diventa quindi una riflessione sulle molteplici possibilità offerte dalla letteratura e sulla possibilità di giungere a una conoscenza della realtà.” Il protagonista, dunque, si ritrova nel perdersi tra svariate opere che iniziano ma che finiscono per non concludersi mai, e questo testimonia l’importanza sacrale del primo atto della lettura che, nel complesso, dà un senso di significatività all’opera tutta. Certo, al cospetto di un qualsiasi libro si ha sempre a che fare con le “leggi” smisurate e capricciose dei singoli gusti, dei gusti soggettivi e individuali di ognuno di noi, e magari anche gli scrittori davvero con i contro-coglioni necessitano, il più delle volte, su proposta sempre dei loro lungimiranti editori, di copertine degne di nota che parlino già da sé, e che riescano a penetrare nell’immaginario fatto di immagini del potenziale lettore. Ma io, a prescindere dalla bellezza di un’immagine o anche dal contatto epidermico con l’oggetto-libro (il ché è anche molto importante), mi sforzerei sempre, e ripeto sempre, di aprirlo quel libro capitato a caso, e di sfogliarlo, e di leggerlo nella sua prima così distinta pagina, perché è lì, nella maggior parte dei casi fortuiti, che si nasconde la vera chiave di volta della felicità abbandonata e lettrice. Sì, perché in quest’era postmoderna, in cui il macrosistema di mercato ha praticamente colonizzato ogni enclave di vita possibile, è tutto pressoché predisposto o quasi per abbindolarci irrimediabilmente di immagini piuttosto superficiali, e che hanno la presunzione di svelare le miriadi di linguaggi che aleggiano sulle nostre vite. Ecco perché lo scrittore postmoderno serio è un tipo acuto e che ci vede abbastanza lungo, e che cerca, padroneggiando la giungla dei codici proteiformi, di dare un senso dignitoso alla realtà che vuole raccontarci. La sua, se riesce a cogliere tutto questo, è davvero un’opera enciclopedica, un’opera propriamente memorabile che vuole abbracciare tutto lo scibile, una scrittura che affascina e spiazza, proprio perché va a toccare le corde dei significanti che viviamo tutti i giorni (i più diversi e a volte irriconoscibili perché super-specializzati) e che non riusciamo ad afferrare nelle loro intenzionalità significative. Questi veri scrittori dunque, con le loro frasi a volte cerebrali, cercano di farci assaporare quei significati perduti che non vediamo più (se ancora ne è rimasto qualche barlume). Siamo letteralmente bombardati dai significanti (i mezzi per raggiungere i contenuti), ma ci ritroviamo ad essere alquanto poveri e sterili riguardo ai significati (di senso o di contenuto) che vogliamo a denti stretti raggiungere, e che, un tempo, prima di quest’epoca, davano selettivamente manforte all’autentico stato di insignificanza della vita tutta. Le cosiddette meta-narrazioni sono morte ragazzi; anche la differenza tra destra e sinistra, per farvela riduttiva e più comprensibilmente afferrabile, non necessita più di battibecchi sterili, proprio perché non hanno più un obiettivo di contenuto propriamente sensato: sono dei cani strumentali che si mordono la coda e basta, e che alla lunga si rispecchiano in un pensiero circolare e davvero balbettante: ecco perché quando sentiamo i nostri politici parlare ci viene il rigetto del loop fastidioso: non dicono praticamente più nulla. Quando il visionario Marshall McLuhan ci proiettò con le sue teorizzazioni nel cosiddetto “villaggio globale”, e si rese riconoscibile ai più con la sua famosa affermazione “il medium è il messaggio”, voleva dire proprio questo: non che lui volesse esaltare in qualche modo la supremazia dei mezzi (significanti) sui messaggi (contenuti o significati), al contrario! Stava prendendo atto che le dinamiche societarie si stavano dispiegando verso una piega maledettamente bizzarra e voleva che noi, noi tutti, ce ne rendessimo conto. E allora quando vogliamo raggiungere dei significati che ci serviranno (mettiamoli comunque nel nostro zaino di viaggio, non si sa mai le cose cambino), cerchiamo di riconoscere lo scrittore propriamente postmoderno, colui che ha un senso acuto del messaggio che vuole proporci, colui che vuole comunicarci le significatività delle più dislocate enclavi della vita di tutti i giorni, e lo fa facendosi beffa del bazar postmoderno, sfruttandolo per così dire, dato che si tratta di un vero e proprio mercato a cielo aperto in cui disparati modi di comunicare e di relazionarsi si caricano di un luccichio oltremodo superficiale che abbaglia, che si erge come verità indiscussa, nascondendo il vero contenuto arricchente e salvifico della vita simbolico-reale: perché il simbolico e il reale si avviluppano incessantemente e sono loro, sempre insieme e mai separati, a costruire la nostra biografia di vita con gli altri. Il luccichio, l’euforia del momento, la patina di disinteresse informativo che copre ogni cosa non fa che peggiorare e impoverire irrimediabilmente tutte le cose; come quando “si può essere a certe feste e non esserci davvero. Si sente che certe feste hanno il loro implicito fine incastonato nella coreografia della festa stessa. Uno dei momenti più tristi in assoluto è quell’invisibile svolta alla fine di una festa – anche di una brutta festa – quel momento di tacito accordo quando tutti cominciano a raccogliere l’accendino e la partner, la giacca o il cappotto e l’ultima bottiglia di birra con la fascetta di plastica ancora attaccata, dicono alcune cose sbrigative alla padrona di casa in quel modo sbrigativo che non le fa sembrare insincere, e se ne vanno, in genere chiudendo la porta. Quando le voci si allontanano lungo il corridoio. Quando la padrona di casa dà le spalle alla porta chiusa e guarda il campo di battaglia e la bianca V in espansione del silenzio assoluto della fine della festa”. (Infinite Jest, David Foster Wallace)

giovedì 24 ottobre 2013

Un saluto impetuoso

Il mio caro Ceci (non oso chiamarti impropriamente “Il Ciociaro” altrimenti, è successo già una volta e può succedere benissimo nuovamente, i tuoi compaesani o compatrioti, direi anche giustamente, si incazzano e mi mangiano verbalmente vivo, e si sentirebbero anche giustamente tutti interpellati in maniera generalizzata e inglobante e, proprio per questo motivo, che oserei etichettare “istericamente convenzionale”, in una maniera del tutto fuorviante; non sanno, però, che questo simpatico appellativo racchiude in sé un significante tutto specifico che si rifà a tutt’altro significato: ovvero la tua unica e irripetibile persona, letteralmente intraducibile nelle generalità del tuo localismo)... Dicevo il mio caro Ceci, come stai? Come trascorri curante il tuo prezioso e grazioso tempo? Eh sì, quel tanto caro e lungimirante tempo – ricordando la tua famosa e lapidaria e ripetitiva citazione "Tanto c'è tempo, tanto c’è tempo", in risposta a chi sospettava in te un lassismo e uno sciupio altamente menefreghista di quest’ultimo tempo prospettico... E allora? (con tonalità solamente baresi) Che fine ha fatto questo tempo bello grosso, massiccio e compatto, una manna dal cielo gradevole insomma: è ciononostante irrimediabilmente passato?? E or dunque? Come vanno le visitine possibilmente lavorative e le strette di mano tanto attese con gli amministratori delegati sparsi per tutto il mondo di aziende cazzutissime che dici di incontrare così frequentemente? Parlo, rovistando fra i tuoi memorabili racconti, di quei personaggi oltremodo ansiosi e emozionati nel riceverti, nei tempi che verranno o che sono già avvenuti o avvengono or ora – ah sì, aspetta! Vedrai che tra un po', ma che dico, immediatamente, coloro che stanno pazientando della tua attesa saranno così compiacenti e disponibili da prepararti addirittura l'english tea con i pasticcini, ma di quelli secchi e buoni buoni eh, non quelli scadenti; quelli – e li riconoscerai di sicuro – che si lasciano inzuppare delicatamente e rigorosamente col mignolo alzato in segno di deferenza aggraziata mentre tu ammicchi–per–fregare–tutti–con–la–tua–dialettica–spiazzante; e dunque il tuo inconfondibile volto, come quello di Pippo Inzaghi nello spot pubblicitario che non si può nominare per ragioni che non starò qui a ricordare, sarà mai provato (sempre quel tuo volto) da tutto quello che ti capita sorprendentemente a giro? No, non credo, un tipo così sicuro e disinvolto e così gradevole come te: un esercente di elargizione prematura con ogni essere del creato (femminile possibilmente, bella gnocca è auspicabile: un formato di bellezza accecante tutta ben accessoriata di ogni tipo di grazia curvante e lettaralmente fuori di testa)... Vorrei, per curiosità, essere proiettato in quel tuo volto, così candido, così maledettamente stereotipato nelle sue pieghe curate di correttori abbatti–occhiaie–assolutamente–non–presentabili–perché–ignobili, da poter squadrare meticolosamente, da un obiettivo che dovrebbe essere a questo punto proprio il tuo, il tuo inconfondibile soggettivo, tutto quello che registri indiscriminatamente incapsulandolo selettivamente: quale emozione inaudita sarebbe vivere in prima fila tutto ciò... Ah, sospiro sospensorio, ah, emozioni a manetta... Speriamo che la tua amata compagna non ci sia mai, osservante curiosa, posizionata dalla parte di quell’obiettivo strategico, e sai: non si sa mai...Ma non lo diciamo a nessuno noi, macché scherzi? Figuriti (mutuando una tipica e altamente confidenziale espressione utilizzata dalla mie parti per esprimere una piena quanto longeva rassicurazione mentale, solo mentale però). Sotto sotto tutti noi sappiamo che tu hai sempre avuto quest'aria da precoce birbantello e sbarazzino accalappiatore di sterminate opportunità: "ma è certo, ma è certo", si sente spesso ripeterti: quale lusinga ascoltare una melodia di siffatte fattezze: l’orgia calmierante dell’origliare... Dopo questa disquisizione estemporanea, meriterei un degno saluto, di quelli sinceri però, perché anche il mio di saluto lo è maledettamente; e allora, spero un giorno di incontrarti nuovamente, con un serbatoio bello pieno di meticolosità, di quelle sofisticate che vengono solitamente riservate in vista delle grandi occasioni, e di toccare con mano tutto questo impeto descrittivo e lodante che viene dettato dalla mia mente frenetica su queste mie povere parole frastornate da tanto rispetto nei tuoi confronti. Un saluto a te, dunque, oh mio ideal-tipico modello inavvicinabile di uomo economico utilitaristico di successo (solo però se rientra nella meta-categoria di “selvaggio”).

martedì 22 ottobre 2013

Sangu meu #6

(… segue da parte #5)

Se fosse ancora stato fedele, ancora una volta in questa cruciale occasione, alla filosofia economica appena brevemente descritta, allora avrebbe, come suo solito, alimentato quel suo narcisistico individualismo indiscusso, e avrebbe quanto meno richiesto alla compagna di una vita delle spiegazioni logico-razionali su ciò che, incredulo, aveva assistito là, nella sua ormai-ex-camera-da-letto, in piedi e impietrito. Oppure, nel caso più normale di tutti, avrebbe dovuto incazzarsi come una bestia inferocita e, tramite la sua dialettica da manipolatore efferato, far valere indiscutibilmente (come aveva sempre fatto, per giunta) la sua figura da uomo virile e orgoglioso e di successo, e veramente, era sempre stato il migliore di tutti, non ce n’è per nessuno, e anche di questo puoi starne certo/a. Un uomo, insomma, che mai nella sua vita era riuscito a perdere in nulla e con nessuno, nemmeno se si divertiva a farlo apposta. Doveva dunque in teoria, nella norma del suo approccio all’esistenza, tentare di salvaguardare quel suo animo calcolatore freddo e spietato, il quale, non sia mai, era stato appena oggetto di un attacco terroristico inferto alle spalle, i cui (dell’attacco) suoni gracchianti e ritmici di un letto comodissimo ma anche piuttosto cigolante gli erano, a lui, sempre rimasti estranei, mentre, d’altra parte, quegli stessi cigolii, erano da tempo entrati a far parte dell’immaginario-uditivo sociale e collettivo di quel vicinato tanto curioso quanto sempre più famelico di indiscrezioni di ogni sorta, e a questo, mi sa, si era già accennato prima. Evidentemente, in questa straordinaria occasione, le cose andarono piuttosto diversamente. Le cieche passioni (di una forse, appena nata, propria sfera sociale interiore/quindi in contrapposizione con le fredde leggi economiche) presero su di lui il sopravvento e, volendo una volta tanto coccolarsi un po’ decise, forse, perché no, di ascoltare una volta tanto quegli impulsi irrazionali che tante volte aveva tralasciato, e che cercava di accontentare solo indirettamente nella sua sfera privata. Perché indirettamente? E in che modo? Sbollendo e calmierando quei suoi istinti egoistici da manager incallito nella “donazione filantropica” di praticamente tutta la propria ricchezza – dato che ne godeva, umilmente, solo di una minima parte – alla compagna di una vita che, come si è già brevemente illustrato in una nota precedente, godeva di incondizionate e sperperanti attenzioni materiali; sempre, e tutto quanto, solo per amore, questo è ormai chiaro. E quindi la sfera sociale interiore, in quell’occasione, avrebbe avuto la meglio, non si sa come, dato che un senso civico per se stesso e per il resto del mondo lui, nei fatti, non l’aveva mai avuto. La sua purtroppo vera realtà, consisteva nel fatto di essere marcio succube della bellezza apollinea della compagnia di una vita, la cui sudditanza che ne derivava lo rendeva schiavo sul lavoro e, quindi proprio per questo, un genio indiscusso della pronta e servita impostura ai danni del prossimo in affari. Questo gli permetteva di fregare meschinamente e in continuazione le disparate persone con cui entrava in contatto, persone molto spesso transoceaniche con cui concludeva affari a dir poco suonanti. E quindi successi imprenditoriali a fiumi, e un’attività aziendale degna di nota: un modello di approccio al e di colonizzazione vergognosa del mercato che cercarono di emulare in molti, con stessi “servizi di qualità” e magari, anche, cercando di abbattere i diversi costi per tentare di alimentare un po’ la concorrenza (dato che, nel settore, il nostro lui, con il suo vero e proprio impero, aveva sempre avuto un’indiscussa priorità da monopolio, credimi, proprio impossibile sia da delegittimare che da sradicare); difatti, nulla di nuovo avvenne sotto il cielo di quei mercati: mai nessuno, come lui, con quella spietatezza di chi sa vederci lungo, riuscì in un’impresa di tali fattezze. Il succo di tutto questo è stato che, per la prima volta, quando per l’appunto diede finalmente adito al potere delle passioni, il nostro lui si era sorprendentemente accorto di essere un Essere Sociale e Umano in mezzo a molti altri simili a lui. Una cosa lontanissima e inconcepibile per le sue mappe cognitive fino a quel momento attivate. Inoltre, dispensare tutto ciò che aveva alla compagna di una vita piuttosto che a se stesso o all’intera altra umanità di cui, da sempre, è popolato il mondo intero beh, era una follia calcolatrice da puro economista amante del sesso e, in verità, diciamola tutta questa verità, dell’amore-in-funzione-del-sesso. Di fatti, le cose cambiarono piuttosto velocemente da quell’avvenimento in poi, e il fatto di assecondare, seppur per la prima volta, il potere tumultuoso delle passioni, e quindi dell’irrazionale che sbeffeggiava senza pietà il freddo calcolo razionale, gli fece scoprire un mondo degno di nota, e mai esplorato prima. Un mondo che, se lo si vede dall’esterno, può essere giudicato di perdizione assoluta, ma posso assicurarti che, ad un sguardo più attento, più oculato e sensibile per l’alterità, fu per lui una specie di ritorno alle origini: una sorta di vocazione atavica che gli consentiva di donare al mondo tutto quello che, fino a quel momento, non era mai riuscito a dare. Dato che ci siamo, vediamo di approfondire insieme cosa effettivamente successe dopo. Parto dal presupposto che ti va, quindi procedo tranquillamente se mi dai l’ok; vedo che ammicchi curioso/a, benone: vado avanti.

(Ciò che avete letto, fino alla parte sesta compresa, non è che un tentativo strampalato di un burrascoso prologo di un’opera che, nella sua piccola ambizione, vuole farsi chiamare nel complesso “Sangu meu”; ciò che ne seguirà dovrebbe essere, a breve, in corso di elaborazione. Per questo motivo, i tempi di sviluppo e di ipotetica conclusione non sono ancora del tutto stimabili con certezza qui su due piedi. L’autore, infatti, sta valutando la fattibilità concreta della cosa, cercando di architettare le ipotetiche pieghe che può eventualmente prendere il prosieguo della sua scrittura in merito alla vicenda; una vicenda che, come avete forse cercato di comprendere, ha i tratti cerebrali e realisticamente isterici del postmoderno. L’autore, pertanto, con un sopracciglio che si alza pensieroso, si scusa sentitamente per il momentaneo disagio.)

domenica 20 ottobre 2013

La sciabola del giorno dopo

– Oh, bella Vez! Com’è?
– Insomma; ho solo una sciabola conficcata nel cranio.
– Io non vedo nulla! E dov’è?
– Sarebbe molto produttivo localizzarla, almeno si potrebbe estrarla una volta per tutte e pace. Tu che dici?
– Capisco, capisco. E dimmi un po’, non per essere troppo indiscreto, ma come te la sei procurata una sciabolata tanto invisibile quando visibilmente dolorosa? Stando alle espressioni lancinanti che manifesta e comunica il tuo corpo, (che, non vorrei dirtelo, ma si sta raggomitolando fremente) le cose lì dentro non dovrebbero andare alla grandissima... Che diavolo hai combinato ieri sera?
– Bella domanda Vecio. Beh, cosa dirti... È evidente che le cose ieri sera sono sfuggite parecchio di mano; sai, un giro lì un giro là e ti perdi nei meandri dei tuoi piccoli mondi... E per di più con la vicinanza mentale della buona compagnia: un’esplosione euforica, sillaba per sillaba. Quindi non potresti immaginare scenario migliore: tu assieme ai tuoi arti che si muovono con la leggiadria del primo momento vissuto, così impacciato, infantile e infinitamente etereo. E poi boom! Un abisso di sonno e stanchezza che ti riporta sul selciato della vera vita, conducendoti dritto dritto al baratro dell’immobilità assoluta: una spugna che deve rilasciare tutto il marcio che la appesantisce, letteralmente, per poter riprendere un seppur minino e goffo tentativo di re-azione.
– Strano che proprio quel, come lo chiami tu, “marcio” nel giro di poche ore si tramuti da fluido della quintessenza trasportatrice e orgiastica a veleno in corpo che ti immobilizza come un ebete appassito. È un’associazione bizzarra quest’ultima, che potrebbe benissimo inglobare ogni minima sequenza esperienziale che avviene su questo pianeta.
– Si può sapere cosa blateri? Le tue parole mi arrivano a imbuto: così lente e a gravità sottile che non riesco a decifrare il complesso del discorso in cui stai cercando invano di inglobarmi. Parla più a cascata, così almeno mi sveglio un po’! (Senza sputare, sia bene inteso).
– Sai cosa intendo: le questioni trite e ritrite su cui ci imbattiamo ciclicamente: l’amore, l’amicizia estemporanea, un’esperienza davvero toccante e sorprendente: tutte vanno a finire con la mappazza in bocca. E devi stare lì, giorni interi, per smaltire tutto per bene e uscirne “lucidato”... Le cose belle, oserei concludere, portano sempre con se un’alitata pestilenziale di rammarico stantio. Ad un certo punto non ne puoi più: necessiti, inesorabilmente, di abbeverarti alle fonti della rigenerazione mentale... Dopodiché è meglio anche se ti fai una bella doccia, e veloce.
– Sì, lo so: puzzo come una vacca svizzera che mastica circolarmente poltiglia d’erba a loop.
– Sei fortunato Vez: ho un fortissimo raffreddore che ora ti trasmetterò per forza di cose, date che le tue barriere immunitarie, al momento, sono belle e gonfie come te: in bomba piena, per intenderci.
– Sai cosa puoi fare per me, invece di stare qui, trasmettermi il tuo stramaledetto raffreddore e cincischiare roba senza senso sull’universalità di questa condizione che è solo mia e particolarissima e vivissima, se ci pensi, ricordandoci che qui ho ancora la sciabola irruente conficcata e che, praticamente, non mostra alcun segno di pietà tollerante?
– Dimmi tutto Vez! Macché scherzi? C’è pure da chiedere?
– Bravo bambino... Che dici? Me lo faresti un vivace salto giù dall’amico Paki? In modo da portarmi gentilmente su un bel bottiglione di Coca ghiacciata? Sarebbe una manna dal cielo, veramente: l’unica vera soluzione ad ogni tipo di fastidioso problema. Ne “La spada della roccia” la soluzione è la Coca-cola, non c’è ombra di dubbio: sgrassa qualsiasi tipo di infermità calcarea!
– Volo! E sogna lappante, che arrivo immediatamente.
– Bella, bella, questa mi è piaciuta (con indice alzato e dondolante in segno di indiscussa approvazione).

sabato 19 ottobre 2013

The Raveonettes – Recharge & Revolt

A mio giudizio, una delle più belle “lettere” d’amore scritte negli ultimi tempi.

Testo

With a hole in my head I looked for you
Through the trenches of war the whole world through
My desire to leave with you I just can’t constrain

I regret everything I’ve done so far
When the pillars of love are blown apart
I stumble through the rubble and decay

When I’m terrified I close my eyes
When I’m sad and blue I choose to fight
Heartbreak only can take you to the other side

My impression of you is hard to comprehend
When 2 people have no time to spend
You’re the dreamiest girl who ever entered my mind

The bliss I feel knowing you’re delirious
Makes me feel oh so imperious
When the longing comes I’ll fight it till the end

When all broken dreams are glued back together
And there’s nothing to talk about not even the weather
And all rivals are all laid to rest

When in purity I silently reach for you
Where the scarecrow shivers and the cornfields too
I’ve reached my goal of eternity with you

When that painful restless feeling does subside
And your perfume lingers cooly in my night
I’m fit to leave this war behind

I recharge & revolt my time has come
And I’m tempted to duel even the sun
I’ll dodge the rays and kill it with my gun


Traduzione
Con un buco nella testa ti ho cercata
Attraverso le trincee di guerra, per tutto il mondo intero
Il mio desiderio di partire con te non lo posso proprio contenere

Mi pento di tutto ciò che ho fatto fino adesso
Da quando i pilastri dell’amore sono stati distrutti
Inciampo tra macerie e rovine

Quando sono terrorizzato, chiudo gli occhi
Quando sono triste e malinconico, preferisco combattere
Avere il cuore spezzato può solo portarti dall’altra parte

La mia impressione su di te è difficile da comprendere
Quando due persone non hanno tempo da spendere
Tu sei la ragazza più fantastica che sia mai entrata nella mia mente

La felicità che provo sapendo che sei delirante
Mi fa sentire oh, così imperioso
Quando il desiderio arriva, lo combatterò fino alla fine

Quando tutti i sogni spezzati sono incollati insieme di nuovo
E non c’è nulla di cui parlare, neppure del tempo
E tutti gli avversari sono tutti sdraiati a riposare

Quando nella purezza, silenziosamente ti raggiungo
Dove lo spaventapasseri rabbrividisce e il campo di grano anche
Ho raggiunto il mio obiettivo di eternità con te

Ora che questa dolorosa irrequieta sensazione si placa
E il tuo profumo persiste leggermente nella mia notte
Sono in grado di lasciarmi questa guerra alle spalle

Mi ricarico e mi ribello, il mio tempo è arrivato
E sono tentanto di duellare persino con il sole
Schiverò i raggi e lo ucciderò con la mia pistola

Buon ascolto…https://www.youtube.com/watch?v=49PKoAU07qY

giovedì 17 ottobre 2013

Nation Branding & Intrattenimento

La riforma della Rai: un intervento auspicabile per l’identità-Paese

Oggi la parola crisi sembra impregnare il sentire comune con una tale insistenza da racchiudere, con una certa aurea di significatività, ogni tipo di destabilizzazione strutturale e/o personale di fronte all’incerto. La ricorsività di tale allusione comporta molto spesso, a torto o ragione, un alibi di non-intervento proprio su quelle tematiche o questioni che sembrano necessitare, per la loro gravità e urgenza, di una condivisione pubblica auspicabile sulle prospettive risolutive, volte al raggiungimento di un benessere collettivo.
Per affrontare dunque l’emergenza che sta investendo il sistema-Paese, bisognerebbe individuare delle strategie sensate di rinnovamento proprio in quei settori o sottosistemi che, per la loro rilevanza, potrebbero risollevare sia le sue sorti identitarie che il suo livello di immagine e rappresentanza a livello globale. Uno tra questi – e oggetto di un recente intenzione politica/riformatrice – è il “soggetto” Rai, il più importante servizio pubblico informativo in Italia. Tale rivestimento, che deriva da una storia complessa e articolata, potrebbe trovare nell’attuale contingenza politica del Paese le condizioni opportune per un rilancio d’immagine, a seguito di un ripensamento dei fattori di forza e di potenzialità tutt’ora esistenti e che caratterizzano i diversi comparti aziendali.
L’auspicabile ripensamento dovrà necessariamente tener conto – e dunque rapportarsi – agli sviluppi societari in atto, che vedono una colonizzazione sempre più marcata del sistema-mercato in altri sistemi per natura differenti, in cui dovrebbero vigere logiche del tutto diverse da quelle che regolano le transazioni riconducibili alle categorie economiche. Sempre in quest’ottica, si dovrebbe d’altro canto tener conto della visibile e palpabile disaffezione politica dei cittadini, che in ordine di uno scarso riconoscimento di tipo ideologico (caratteristico invece degli anni passati), registra la debolezza dei diversi partiti politici nella rappresentanza dei bisogni espressi e riconosciuti.
Per quanto riguarda la prima questione, pare evidente il ricorso – all’interno di un settore, quello della Rai, considerato pubblico – alle logiche di mercato, poiché considerate meno costose e più efficienti (anche per tenere testa – in una logica concorrenziale – all’altro grande canale informativo di natura privata: Mediaset). La concezione e la pratica delle esternalizzazioni, che si concretizza nella gestione di interi reparti produttivi da parte di soggetti privati, deve essere necessariamente ri-definita secondo un equilibrio che vede soddisfatti sia il valore della flessibilità – uno dei principi cardini su cui poggia il regime di mercato – sia il rispetto dell’equità e del pluralismo societario, che, in teoria, dovrebbe essere garantito da un sistema pubblico teso al raggiungimento di un interesse di tipo collettivo. Quest’ultimo, va reso praticabile e spendibile offrendo tutta una serie di servizi che permettano la concreta esplicitazione di un certo tipo di informazione considerata di qualità, avulsa dalle caratteristiche proprie dei format esterni, che tendono a privilegiare e a perseguire la logica del successo immediato negli orientamenti della competizione sfrenata alla ricerca di maggiore audience.
Ci si rende conto, soprattutto in un’ottica generazionale, che questo tipo di televisione oggi non funziona più, o meglio, che ha funzionato solo per un certo periodo di tempo, in cui il mercato si ergeva come giustiziere dell’intrattenimento e la spinta all’individualizzazione che ne conseguiva soddisfaceva i bisogni culturali del momento, fornendo un senso “confezionato” a certe visioni sul mondo. Oggi, soprattutto tra i giovani, si preferisce accedere ad un’informazione “fai da te” e ricercare un senso culturale più di tipo personalizzato. Questo implica da un lato il quasi completo abbandono di quella “scatola parlante” e unidirezionale chiamata TV, dall’altro l’utilizzo sempre più marcato delle nuove tecnologie messe a disposizione della rete, che consentono in maniera più libera e più critica – e attraverso alcuni strumenti anche in una logica bi-direzionale – la ricerca di quegli spazi di interesse personale, e soprattutto di interesse collettivo, trascurati dall’emittente pubblico, e dunque non messi a disposizione da quest’ultimo. Detto ciò, pare opportuno restituire e concedere una maggiore autonomia alle strutture editoriali proprie di questa azienda, promuovendo un giornalismo che sia veramente d’inchiesta, e che permetta una ricerca sul campo atta a conciliare il bisogno di cultura e la sua declinazione non elitaria del vivere quotidiano. Quindi alleggerire la struttura burocratica, non nell’ottica di una politica dei tagli bensì nell’intenzione di rivitalizzare una struttura che si presenti più funzionale, sembra uno degli interventi strategici più congeniali per mettere in atto una pluralità autonoma all’interno del comparto aziendale, che potrebbe tentare – nelle sue diverse ramificazioni produttive – di vivisezionare la realtà informativa rendendo e offrendo un servizio di maggiore qualità, tale da poter essere fruito da uno spettro di popolazione più ampio.
Ritornando dunque alla prima questione, pare evidente che il risparmio dei costi compiuto attingendo da fonti esterne di mercato sia, ormai, una via impraticabile nella direzione del perseguimento di un servizio che si riconosca – e venga dunque legittimato dall’esterno – come servizio propriamente pubblico. Occorre, in sostanza, un approccio “conciliante” che prenda in considerazione sia le acquisizioni di flessibilità e di libertà proprie del sistema-mercato, sia le qualità e le peculiarità intrinseche che dovrebbero di per sé caratterizzare un sistema di pubblica utilità, com’è quello del soggetto Rai. Quest’ultime, data la cogente situazione odierna d’emergenza, dovrebbero essere rispolverate e rivitalizzate, allo scopo di dar luce a quel senso identitario e patriottico che possa risollevare – e dunque dar voce – al pluralismo societario presente nel nostro Paese, in chiave competitiva ed internazionale. In quest’ottica, gli elementi utili confacenti il sistema-mercato serviranno a snellire e debellare – e rendere in questo modo più dinamiche – quelle logiche che, proprio perché attribuibili al sistema pubblico, vengono troppo spesso imputate di lentezza burocratica, e che per giunta sono gravate da costi onerosi non più sopportabili.
In ultimo, per quanto riguarda la questione della disaffezione dalla politica dei partiti da parte dei cittadini, risulta proponibile un allentamento della “politicizzazione” sugli aspetti gestionali complessi dell’azienda, dando adito ad un quadro della democrazia rappresentativa in ordine alle funzioni essenziali. Questo perché la politica, intesa in senso ampio, sta cominciando ad essere pensata e anche praticata in maniera del tutto diversa rispetto al passato. Le ideologie, ormai, trovano sempre più spesso pochi cittadini proseliti, che preferiscono organizzarsi autonomamente in soggettività sempre più diversificate allo scopo di rivendicare – e rendere in questo modo manifesti – nuovi diritti, valori e bisogni concreti da soddisfare. In questo senso, è utile osservare le diverse realtà che pian piano vanno consolidandosi in quelle che sono state definite “comunità virtuali” e che, attraverso le loro azioni “digitalizzate”, compiono concreti interventi di rappresentanza nel e sul mondo reale: in virtù della loro innovativa rilevanza, riscuotono piccoli successi avendo una non irrilevante incidenza di ripercussione a livello macro-societario. Sarebbe a questo punto auspicabile creare e promuovere nuovi canali informativi pubblici che, in connessione con le nuove tecnologie di rete, possano dare visibilità – tenendo conto dei relativi messaggi – a questi nuovi micro-fenomeni identitari. Quest’ultimi, nel complesso, non esprimono altro che un bisogno di democrazia partecipativa che va a concretizzarsi in un nuovo “Pensiero di Paese”, attivato da soggetti sociali motivati nella creazione inter-attiva di un benessere comune; tutto questo a fronte delle nuove sfide emergenti dal cambiamento in atto.       

Sangu meu #5

(… segue da parte #4)

Dopo questa tiepida mattina (solamente in riferimento alla temperatura atmosferica) il rapporto ufficiale della storia non dà chiare spiegazione su ciò che ne seguì nei giorni immediatamente successivi. Per fare un esempio, non si sa in che modo si dispiegò il ritorno di lui nella sua ormai ex abitazione[6]; se ci fu, in qualche modo, una specie di confronto chiarificatore tra i due, e cosa in questo famigerato incontro si dissero; o se, davvero (e se è andata veramente così, non c’è che dire, è stata proprio un’eventualità drasticamente concepita dal fato), il nostro lui non ha mai beccato la nostra lei nell’unico ritorno alla sua ex abitazione per recuperare “quel poco che gli restava”, dato che, punto primo, 1) probabilmente, sarà rincasato proprio in quelle ore in cui lei era fuori, in centro città, intenta a concludere selvaggiamente più acquisti che poteva, in una delle sue solite escursioni terapeutiche da shopping sfrenato (che, data la tragicità interiore e piuttosto incasinata del passaggio esistenziale che stava attraversando, riusciva a donarle (lo shopping terapeutico) momenti di indiscussa serenità, soddisfazione capillare dei sensi assieme ad una pace interiore del tipo distensivo-riflessiva); punto secondo, 2) rifacendoci alla seconda parte del messaggio, scritto da lui su quel famoso post-it giallo svolazzante e appiccicato in bella mostra sullo specchio ovale, seconda parte che, ricordo, recitava lapidariamente “se sei o meno in casa non mi tange”, si può facilmente dedurre che, nel caso in cui, per l’appunto, lui non l’avesse trovata in casa, non avrebbe avuto nessunissima intenzione di richiamarla precedentemente o successivamente a quell’ultima volta che decise di farsi vivo nella sua ex abitazione, nulla di nulla, vuoto assoluto, davvero spiazzante e inspiegabile per uno come lui, che sempre si era rifatto, per ogni evenienza che capitava nella sua vita, al pensiero economico neoliberale, che fonda, è risaputo, la sua primigenia ragion d’essere sul culto dell’individuo, e dove, per inciso, impera l’individualismo metodologico, “che non vuole né può contemplare altro che le azioni volutamente e coscientemente calcolate da attori isolati in vista di fini individuali ed egoistici altrettanto deliberatamente posti.”[7] Una concezione della vita che si accordava, smaccatamente, con una filosofia implicita dell’economia e del suo rapporto con la politica (la politica intesa e praticata per il “bene comune”), consistente (questo rapporto) in “una visione che conduce a stabilire una frontiera invalicabile tra l’economia, retta dai meccanismi fluidi ed efficienti del mercato, e la sfera sociale, abitata dall’arbitrio imprevedibile della tradizione, del potere e delle passioni.”[8] (continua parte #6...)


[6] Sì, proprio quella lussureggiante abitazione lasciata interamente nelle mani di lei, senza nessuna firma di trasferimento di proprietà per un eventuale pagamento di alimenti, né un lascito dichiarativo dove si sottoscriveva un’ipotetica soluzione disgiuntiva dei beni di proprietà da sempre posseduti in comune; insomma, nulla di nulla. Solo un presumibile, e parecchio strano, silenzio assenso che consegnava, di fatto e nei fatti – dato che lui non si era fatto più vivo dopo quella sola volta in cui ritornò a prendersi “quel poco che gli restava” – tutto il patrimonio racimolato con tanta fatica dopo anni di messa in pratica di “business ideas” geniali e lungimiranti da parte di lui che, non pago dei suoi reiterati successi, lavorava sempre più accanitamente per vederne realizzati di altri (di successi), salvo godersi davvero umilmente e quando capitava – e quindi si potrebbe dire che quasi quasi la denigrava – l’immensa ricchezza che, da sempre, aveva solo dispensato con amore (perché questo sì che è vero amore – come anche quando mangi, per esempio, il cornetto Algida e concedi il momento finale di goduria cioccolatosa al tuo amore che è lì, e che ti guarda con occhioni supplichevoli di sole coccole gustative che saranno unicamente ed interamente concesse dal momento finale/croccantoso di cioccolato, e non da te, sappilo) dicevo, che quasi denigrava l’enorme ricchezza racimolata negli anni, la stessa che veniva dispensata con amore alla compagna di una vita, beccata – ormai il fattaccio è ritrito – a letto con l’amante di sempre (l’amante di lei, se non fosse ancora ben chiaro).
[7] Pierre Bourdieu; Intervento al Colloquio Raison d’agir – Loccumer Kreis, Loccum (Germania) 16-17 ottobre 1999
[8] Ibidem.

martedì 15 ottobre 2013

Un Paese con le ginocchiere

Ancora alcune riflessioni del mio caro amico Federico; a lui la parola...

“L’analfabetismo funzionale designa l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente e compiuto le abilità di lettura, scrittura e calcolo nella vita quotidiana, ma anche l’incapacità di esprimere adeguatamente sentimenti, emozioni, stati d’animo o sofferenza in maniera propria”, da ciò risulta che “gli adulti funzionalmente analfabeti non sono capaci di operare efficacemente nella società moderna” e “non possono svolgere adeguatamente compiti che vengono loro assegnati perché non in grado di comprenderne sempre il senso e la finalità”(p.57)
In Italia, “le statistiche ci dicono che il 5% della popolazione compresa fra i 14 e i 65 anni non è in grado di distinguere una lettera dall’altra, un numero da un altro; il 38% riesce a malapena a leggere singole scritte o cifre e non è in grado di leggere una frase composta da più parole e comprenderne il significato. Per Il 33% (della pop. adulta) un testo che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è ben oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile” (p.59)
“Queste tre categorie, sommate tra loro, rappresentano il 76% della popolazione adulta italiana. Se negli Stati Uniti si calcola che il 45% degli abitanti sia costituito da analfabeti funzionali, in Italia il loro numero supera i tre quarti della popolazione adulta” (p.58)
Basterebbero queste poche righe estratte dal saggio di Elio Cadelo e Luciano Pellicani (Contro la Modernità. Le radici della cultura antiscientifica in Italia, Rubbettino, 2013, pp.172, euro 12) per capire la vacuità degli appelli alla crescita economica che ogni giorno sentiamo pronunciare dalle colonne dei principali quotidiani, dai banchi del Parlamento, dalle iperuraniche sedi delle istituzioni europee.
Basterebbe portarsi dietro questi pochi appunti, scarabocchiati alla buona in un quaderno, per sconfessare i soloni nei summit internazionali e comprendere le cause di un declino che ci ostiniamo a descrivere come peste o epidemia portata da qualche batterio straniero; rimosso il quale – magari attraverso l’antidoto “riforme strutturali” cioè più mercato, più concorrenza, più meritocrazia – ci incammineremmo di nuovo nella via luminosa del benessere


QUALE ECONOMIA DELLA CONOSCENZA?

“Economia della conoscenza, knowledge economy”. E’ il paradigma che si è imposto nelle società avanzate dopo i mutamenti tecnologici ed istituzionali intervenuti alla fine dello scorso secolo: rivoluzione telematica e globalizzazione dei mercati. Le parole magiche dell’economia della conoscenza sono: Innovazione, sostenibilità, coesione sociale. Le tre colonne portanti sulle quali si vuole costruire l’Unione Europea del 2020. L’unica via per generare ricchezza e benessere in un mondo post industriale, di servizi avanzati.
In questo contesto, l’istruzione assume un ruolo cruciale. “Education, education, education” fu il motto del New Labour di Anthony Giddens e Tony Blair negli anni ‘90, reiterato poi da quasi tutti i leader europei occidentali. Bisogna peraltro fare un po’ di chiarezza sui fini dell’istruzione. A cosa serve l’istruzione? serve a dotare gli individui di “competenze” pratiche o per formare cittadini? I sistemi scolastici devono educare per il profitto o per la democrazia?
Per i neoliberisti, gli investimenti pubblici in istruzione sono strumentali alla crescita economica, alla massimizzazione del Prodotto Interno Lordo (PIL). Essi privilegiano l’istruzione funzionale alle logiche del mercato, mentre considerano sprecate le risorse impiegate per sostenere, ad esempio, la ricerca nelle materie umanistiche. Per chi segue il “capability approach” di studiosi sociali come Amartya Sen e Martha Nussbaum , invece, l’istruzione non deve seguire solo una logica strumentale alla produzione di merci, ma deve contribuire a sviluppare le capacità dell’individuo in maniera più ampia possibile. Competenze tecniche da spendere sul mercato del lavoro, certo, ma anche capacità critiche, empatia per le problematiche sociali e ambientali, partecipazione attiva al dibattito politico (v. Sen, 2010, Nussbaum, 2011).
Quando atterriamo sul pianeta Italia, però, ci accorgiamo dell’irrilevanza di questa contrapposizione. Da noi una “visione” dell’Istruzione non c’è, semplicemente. Si leggano questi dati. Nel 2010, in quella che è ancora la settimana economia del mondo, il 18,8% degli alunni (circa 700mila ragazzi) ha abbandonato gli studi, contro l’11,6% della Francia e il 10,5% Germania e il 14,1% della media europea (Istat,2011). Dovrebbe allarmare più questo spread che quello virtuale del mercato del debito pubblico. Ancora. Il numero di ore giornaliere e annuali passate a scuola dagli studenti italiani sono di gran lunga minori rispetto a quelle di altri Paesi. Cadelo e Pellicani (p.60) specificano che sono le stesse famiglie, in molti casi, a determinare l’abbandono scolastico: si preferisce che questi si dedichino a lavorare nell’azienda di famiglia o che imparino il mestiere del padre o del parente. Questa predilezione italiana per la veduta corta, per il guadagno immediato, privato ma di corto respiro, costa al paese intero 70 miliardi l’anno (Checchi, 2013). Cioè quanto gli interessi finanziari che ogni anno dobbiamo ai rentier che detengono il nostro debito pubblico.
A quarantacinque anni dalla pubblicazione di Lettera ad una professoressa di Don Lorenzo Milani, il problema dell’abbandono scolastico, più attuale che mai, sembra essere scomparso dall’agenda politica. Come si fa a discutere di Crescita economica senza affrontare seriamente questo tema? Come si fa a parlare di Crescita quando abbiamo poco più della metà di persone, tra i 25 e i 64 anni, che è in possesso di un diploma di scuola media secondaria, mentre la media Ocse è del 73%, ed in Germania è dell’85%?


LA FAVOLA DEL “TUTTI DOTTORI”

Tocchiamo l’argomento laurea. La percezione diffusa nell’opinione pubblica è che i laureati siano troppi nel nostro paese: molti, compresa l’ex ministra Fornero, non si sono affatto allarmati della caduta verticale delle immatricolazioni che si è verificata in questi anni (58.000 studenti in meno, anni 2007-2011). Anzi: l’hanno preso come un segnale positivo; la laurea è semplicemente uno “status symbol”, una tipica ossessione piccolo borghese. Meglio che i giovani si dedichino immediatamente a mestieri cosiddetti pratici (“i nostri giovani non vogliono più fare certi mestieri” è il mantra che viene ripetuto da più parti), e non perdano tempo sui libri. A questo punto, dispiace deludere chi è convinto che in Italia siano “tutti dottori”, ricordando i dati Ocse. “In Italia solo il 19,8% dei giovani è laureato; queste percentuali ci consegnano al terz’ultimo posto tra i 27 paesi dell’Unione Europea, peggio di noi sono solo Malta ed Estonia. In Germania i giovani laureati sono il 27% del totale, in Francia il 43% e in Gran Bretagna il 45%. Si aggiunga che nel 19,8% dei laureati italiani vanno in ogni caso considerate le lauree brevi e le lauree rilasciate dalle università telematiche” (p.62)


LA DISOCCUPAZIONE DEI PIU’ ISTRUITI

Cadelo e Pellicani spiegano gli allarmanti dati Ministero per l’Istruzione e la Ricerca (Miur) sul basso tasso numero di laureati e sul preoccupante numero di abbandoni nelle facoltà scientifiche (20% degli immatricolati) con le scarse prospettive di lavoro qualificato offerte dal mercato.
In effetti, secondo l’associazione Almalaurea (si vedano i Rapporti 2012 e 2013), lo stipendio medio dei laureati in Ingegneria, Fisica, Matematica, Statistica, a dieci anni dal conseguimento del titolo è di 1600 euro, di gran lunga inferiore a quello dei loro omologhi stranieri. E l’indagine Excelsior 2012 sulle previsioni di assunzioni delle aziende private italiane mette in luce che, su 407mila assunzioni previste, il 14,5% riguarderà i laureati e il 32,3% lavoratori senza alcuna formazione specifica (p.75).
Citare dati di questo tipo in maniera estemporanea crea solo irritazione, indignazione e scoramento nel lettore; tocca invece fornire un’immagine più dettagliata del problema in questione, comprendere cioè le ragioni strutturali della disoccupazione del capitale umano più qualificato. Bisogna sciogliere un apparente paradosso: com’è possibile che le imprese italiane richiedano così pochi laureati, nonostante la loro bassa incidenza nella popolazione attiva? Non dovrebbero fare a gara per aggiudicarseli, data la loro “scarsità relativa”?
Per formulare una risposta corretta, la prima variabile da considerare è la dimensione delle imprese. In Italia, operano 4,5 milioni di imprese (Istat, Archivio Statistico Imprese Attive, 2009). Il 95% di queste (4.250.000) sono classificate come microimprese: hanno meno di 10 addetti. Salendo nelle classi di addetti, il numero di imprese si restringe: le imprese con più di 250 dipendenti – le grandi imprese - sono solamente 3.630. Da notare che il peso delle grandi imprese è sceso moltissimo negli ultimi venti anni (cfr. Coltorti, 2013), da quando, negli anni ’90, è iniziata la ritirata dello Stato imprenditore dall’economia del paese. Partiamo quindi svantaggiati nei confronti di competitor come Germania e Francia, che invece hanno un buon numero di colossi multinazionali in grado di assorbire la manodopera più qualificata. In più, l’85% delle imprese italiane è a conduzione familiare, e nel 66% dei casi il management è diretta emanazione della proprietà familiare, non di una selezione meritocratica (v. Bankitalia, 2009). L’Eurostat (citato in Almalaurea 2013) ci informa che quasi il 40% dei manager italiani ha completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 19% della media europea a 15 paesi e il 7% della Germania.
Seconda variabile da tenere in mente è la specializzazione produttiva della nostra economia: i beni che produciamo. Il peso più grande, in termini di valore aggiunto, ce l’hanno 4 settori: 1) Metallurgia e prodotti in metallo; 2) Macchine e apparecchi meccanici; 3) Alimentari e bevande: 4) Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature. Come argomentato in un interessante Report della Banca d’Italia del 2009, sono tutti settori caratterizzati da bassa innovazione: di processo e di prodotto, di organizzazione, di marketing. Una spia di quanto appena affermato sta nei livelli infimi di spesa in R&S sostenuti dal settore privato italiano (meno dell’1% del PIL), oltre che nel numero di brevetti depositati per milione di abitanti, inferiore di circa venti punti rispetto alla media europea (vedi Rapporto Istat 2011). Il punto da evidenziare è che l’attività di innovazione è più diffusa in comparti nei quali l’Italia non investe più da decenni: la farmaceutica e la chimica, la fabbricazione di apparecchi radiotelevisivi, per le comunicazioni, medicali e di precisione, le macchine per ufficio e i mezzi di trasporto. Comparti nei quali l’Italia aveva dei primati che si è lasciata sfuggire colpevolmente negli anni, a causa di sciagurate decisioni del mondo politico ed industriale (cfr. Gallino, 2003). Anche nella pubblica amministrazione, ad onta delle continue lamentele sul livello insostenibile della spesa pubblica italiana, la domanda di laureati è in diminuzione costante da almeno un decennio. Dal 2001 al 2011 il numero di occupati in tutto il settore pubblico è sceso di 38mila unità, a causa di tagli e blocchi nel turnover. Tra i molteplici effetti negativi di queste politiche, c’è n’è uno macroscopico, che riguarda il mondo della scuola. Solo l’1,1% del corpo docente è al di sotto dei 30 anni, mentre il 55% ha un’età al di sopra dei 50 anni, percentuale che in Europa è del 32,4% (Cadelo e Pellicani, p. 61).


CONCLUSIONI

Negli anni duemila l’Italia ha creato occupazione soprattutto nelle costruzioni e nei servizi a più bassa produttività media, nei quali i laureati non sono richiesti o, quando trovano uno posto, sono utilizzati prevalentemente con contratti di lavoro a tempo determinato (Istat, 2013). Uno spreco straordinario. Questo perché si è rinunciato a fare politica industriale, lasciandosi scappare i settori più innovativi e a rilanciare il settore pubblico con piani straordinari riguardanti la scuola e la sanità. Si è lasciato alla mano invisibile del mercato l’allocazione delle risorse. Ciò ha coinciso con un periodo di grave stagnazione dei redditi e di straordinaria crescita delle disuguaglianze di reddito e patrimonio. Bisogna cambiare strada. Prima che sia troppo tardi. L’alternativa è che l’Italia, come spiegato da Giulio Sapelli in un suo bell’articolo recente (7/10/2013, Il Sussidiario.net), torni la nazione agricolo-commerciale che era agli inizi del Novecento. Bel giardino in cui verranno ad abitare i ricchi d’Europa e del Mondo, a cui non ci resterà altro che fare da camerieri.


federico.stoppa@tiscali.it

lunedì 14 ottobre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 3)

Dopo diverse traversie, ero riuscito finalmente a trovare una collocazione in terra straniera: strano ma vero. Era stata una conquista ardua, sudata, percorsa da km che disegnavano, di traiettorie solo mie, l’intera città sconosciuta, ma eccola lì: una casa-bomboniera che scintillava di candido pulito. Strano. Sì perché la maggior parte delle abitazioni a Bruxelles, riservate ai forestieri precari, non si presentano poi così tanto bene; eh no: ti deve andare proprio di lusso. E vi ho detto tutto. Ed ecco che tra quei rarissimi casi di fortuna, di cui ne vai tremendamente fiero a fronte di altri sprovveduti come te in cerca disperata, rientrò statisticamente anche il mio: un’autentica botta di culo inaspettata. Una casa non tanto grande ma graziosa, curata sin nei minimi dettagli, con un soggiorno da urlo e un piano di cottura in cucina da far invidia alle innumerevoli trasmissioni televisive che sfoggiano tanta arte culinaria al fuoco quanto pietanze stranissime tali da spiazzare completamente le tue gelose e minute conquiste in cucina lontane dalla mamma; ma questo è un altro discorso. Dicevo dell’appartamento; uno di quelli che rientra solo lontanamente nella casistica degli appartamenti fuori-sede, una sede lontana da sogno. Almeno era quello che si percepiva stando nel nido privato di raccoglimento, di ristoro, di rientro dal tram tram della giungla cittadina, eh sì, perché là fuori era tutto completamente e diametralmente diverso. Devo dire, però, che il quartiere immediatamente limitrofe, tutto sommato, non era poi tanto male: ricordava i tanti sobborghi carini e residenziali, di quelli accessoriati di un pizzico di storia alle spalle, e ti rendevi immediatamente conto di toccare con mano un sentore fiammingo che si affacciava alla vicina tulipana Olanda. Quello che avvertivi dopo, immediatamente attraversato l’uscio di quel quartiere quasi asettico-temporale, non aveva nulla a che fare con la strada di casa mia, forse con la città intera, ma che dico, probabilmente con l’intero continente europeo preso per le sue generalità... E mi chiederete giustamente il perché, e io allora ve lo spiego con spassionato riscontro. Eh sì, perché quello che lambiva il mio appartamento, aldilà della zona d’area immediatamente successiva, non c’entrava davvero nulla con tutto ciò che osservavo con gli occhi annaspati ogni volta che mettevo piede fuori casa, a quelle orrende e tremendamente fredde ore del mattino, quando un sole che non c’era mai manco si era svegliato, e quando lo faceva, così, a stento, si comportava esattamente come un capriccioso dittatore dispotico, che impartiva ordini per ogni dove a lastre di nuvole capricciose e grigie, dispensando, a più riprese, la sua umida, lontana, fredda autorità (del sole dispotico). E quindi dopo qualche passo ti ritrovavi immerso in un altro mondo, letteralmente, fatto di strade colonizzate da una cultura che percepivi da subito lontano dalla tua, e le cui etichette dispensavano ad ogni occasione scritture corsive e ricamate; anche i negozi esponevano insegne di quel tipo, avvertendoti che lì, sì, proprio su quella terra che stavi calpestando distrattamente, la tua di cultura (qualsiasi essa fosse stata) proprio non era riconosciuta in quel contesto fuori da quello specifico mondo, o quasi. Sinceramente non ho mai pensato che ci fosse una specie di netto rifiuto da parte della gente che popolava quei luoghi, una sorta di status auto-conclamato che li differenziava marcatamente dagli altri; no, nulla di tutto questo. Piuttosto era una sorta di auto-percepita esclusività, tipica di quei sistemi che vogliono gelosamente custodire le loro tradizioni e non ne vogliono proprio sapere, proprio perché non vogliono barattare le loro regole o tradizioni o cerimonie per nessun’altra cosa al mondo. E quindi dopo tutte queste osservazioni da novello sociologo immerso in un contesto sconosciuto capii di essere di fronte ad una terra altra, che determinata gente del posto, diversa da quella appena descritta, etichettava come “Arabia Saudita”. Ebbene sì, vivevo alle porte di parte dell’Islam: non suonavi neppure il campanello e c’eri dentro, imbevuto, e accolto fino al midollo. E fino a qui nessunissimo problema, direi. Fino a quando però seppi che la stazione della metropolitana più vicina (la famosa Bekkant, e chi se la scorda... Che razza di nome è Bekkant??), che ogni giorno attraversavo per prendere il mio solito quotidiano treno sporchissimo che mi conduceva a lavoro, era stata, nel recente passato (la zona prossima a quella stazione), teatro dei delitti più efferati: omicidi, stupri, sparatorie, spaccio di quello pesante di roba altrettanto pesante, e così via... Insomma: un posto che era meglio evitare o, alla peggio, da frequentare con due occhi grandi così. Ed io con la mia aria da flaneur, da naif sprovveduto e ignaro, osservavo e a volte addirittura sorridevo con compiacenza a tutta quella popolazione così diversa (perché i visi e i volti erano davvero così diversi), che non aveva nulla da spartire con tutti gli altri visi e volti sparsi e formicolanti per tutta la città (e sia bene inteso, non erano solo arabi quelli che mi circondavano, ce n’era per tutti). E quindi un bel giorno conobbi un mio nuovo collega appena sopraggiunto in terra bruxellese e, poverino, in cerca anche lui disperata di una sistemazione all’arrembaggio, mi chiese per favore ospitalità nel frattempo, in attesa di tempi migliori. Ovviamente lo ospitai, anche perché un qualcosa mi diceva che saremmo diventanti tanto complici di quelle miriadi di avventure che ci aspettavano anzitempo, e su questo, non mi sbagliavo affatto. Infatti capitò che in quei giorni, di gradevole e tranquillissima ospitalità, gli feci visitare il mio quartiere e, anche lui, un po’ spaesato nella mia stessa misura, condivideva con me le bizzarrie proteiformi che avevamo di fronte: questi scorci di città spaccata diversissimi l’uno dall’altro, una città tipicamente postmoderna che, come un puzzle senza senso, mette insieme i più disparati linguaggi e paesaggi senza nessun apparente nesso logico. E allora una sera, in questo teatrino delle meraviglie, ci imbattemmo in un bar veramente losco all’apparenza, di quelli che proprio non gli dai due soldi visto dall’esterno, una catapecchia che si regge in piedi su quei muri smerdati di piccione. E arrivò quel fatidico momento in cui ci si guarda incuriositi e sorridenti e, tra quei nostri sguardi reciproci, cominciò a saettare, insinuandosi, un “ci proviamo?”, e ci provammo. Per una birra, poi, di quella genuinamente belga, nessuno è morto mai... Il posto non era affatto male, più per la tipologia di persone che lo popolavano che per il resto. Era uno di quei bar in stile familiare, gestito da gente davvero paciona e tranquilla dove potevi rilassarti per veramente stare in assoluta comunione col mondo, e bere. Non potevamo desiderare altro: una serata rilassata all’insegna del folklore più intimo e inaspettato, incuneato negli interstizi di quella pittoresca città. E tutti cantavano, chiacchieravano animatamente; famiglie con carovane di bambini che vivevano le loro sacre ore del riposo all’insegna dell’anelata e sempre presente per tutti noi comuni mortali sorella birra. E noi uniti nel cerimoniale più melodioso, circondati da una lingua francese veramente strascicata, e davvero lontanamente elegante, ma animata dalla generosità rincuorante da fuocherello accesso in un bosco di quelle formose persone (sì la barista, identifichiamola così, anche se affaccendata in tutt’altre faccende, era formosa e bella in carne e costantemente sorridente = tanto alcol inalato e non solo), dicevo di queste persone che ti inglobavano nel loro mondo, e chi davvero, chi se lo aspettava. E dopo svariate bevute che consistevano in quelle prelibatezze belghe dorate ne uscimmo intrisi di tutto: di festa, di candore nostalgico dei bei tempi andati (ma che lì stranamente erano ancora presenti) e una luna, sorprendentemente una luna che, finalmente fattasi spazio sgomitando tra quei soldati di nuvole instancabili e umide nella loro tristezza piovosa costante, ci ammiccava da lontano (sempre quel miraggio di luna) e ci sorrideva sghemba, luminosa, tra i cerchi fumosi di un caldo alcolico che era finalmente e propriamente interiore.

domenica 13 ottobre 2013

Non tutte le stelle sono pulsanti (Fine)

(… segue da parte #3)

Studiò la busta, la annusò e non sapeva minimamente il perché; poi, con molta delicatezza, estrasse un foglio che pareva crittografato e che recitava così:

“...un'ansia, una giovanile ansia eccitata e in fondo dolorosa,
una dolorosa insostenibile tensione d'impazienza.”

Italo Calvino


Caro Italo,
Ho immaginato questo momento nascosto da sempre, pieno di un fragore intento a spingere cocciuto e a spuntare alla fin fine trionfale, indomito: un silenzio traboccante di emozioni durato fin troppo tempo, e che arrivato ad un certo punto non ne poteva più di resistermi. Devo dirti, che si è trattato di un tempo di lunghissime attese, alimentato da estenuanti blocchi mentali perseveranti che, pur non costringendosi rassegnati in gabbie di amori falliti, galoppavano in fuga per ogni dove, facendo pulsare sempre te, con loro, ovunque cercassero di andare... È stato un tempo che ha trasportato con sé il pesante rammarico per la nostra rottura prematura, le pause inspiegabili d’indifferenza che creavano una voragine risucchiante di non-risposte e, con esse, una mistura inebriante concepita appositamente per i disillusi d’amore... Un tempo che, nonostante il brulicare di vita trascorsa, ha riempito ogni volta le crepe sfilacciate del contatto che è venuto meno tra di noi, per mezzo di uno spazio ciclico e a me sempre familiare. Quello spazio, quell’occasione persistente, consisteva nelle consuete e immancabili vacanze estive che mi conducevano da te, senza che tu lo sapessi, senza che tu potessi in qualche modo riconoscermi ancora, dopo quella prima volta in cui quell’incontro così naturale ci immortalò per sempre insieme, con quel mio viso che ora è certamente cambiato, ma che ha ritrovato nei miei occhi consapevoli lo stupore sorprendente che ebbe la prima volta nell’osservarti. Non riesco a decifrare esattamente la portata di quello che la mia mano ora fremente scrive, probabilmente anche tu starai leggendo disorientato, spiazzato, incredulo, senza una presunta connessione logica; ma dovevo pur tentare un modo per raggiungerti nuovamente, perché fin troppe volte le mie non-decisioni si sono tramutate in decisioni altre, dove tutto si vanificava e basta, come un noncurante e rassegnato buco nell’acqua che si dipana concentrico e inesorabile in quel solo fisso punto d’impaziente inutile attesa... Ho viaggiato tanto, ho vissuto e conosciuto innumerevoli sensazioni: la mia vita si è sviluppata su percorsi erranti e affascinanti, sempre vividi, spesso increduli negli inciampi di sofferenze costantemente all’uscio delle mie porte... Eh sì, le sofferenze... Come quelle che mi investirono quando ebbi notizia del tuo sventurato incidente, sferzata malefica al mio cuore lontano e impotente, che nulla poteva nell’asfissiante lontananza, se non credere incessantemente in un minuto barlume di ricordo rimasto in te, e aggrappato tenace alle pareti innamorate delle tua cognizione per me. Vorrei tanto che quella tua perduta memoria di me riaffiorasse, languida brezza che mi ristora e che mi riporta finalmente a riabbracciarti felice. Vorrei tanto accarezzarti le mani, stringerti nuovamente a me, raccontarti a cuore aperto di come, a seguito della nostra parentesi insieme, la mia vita si sia avviluppata in storie senza senso... Mi piacerebbe ricordare con te il presente, quello che anche ora si sta materializzando sotto i nostri occhi; quello che nonostante tutto ritorna sempre sincero e più necessario di prima, in un ansante battibecco amoroso che assomiglia tanto al pulsare di due stelle che si distinguono nel nostro pezzo di cielo che è lì e ci è sempre spettato, e che ancora spero ci spetterà, accovacciati e stesi su quelle spiagge che si stendono lontane tessendo i fili della nostra storia che ricomincia, sì, ricomincia proprio da qui... perché non tutte le stelle riuscirai a vedere pulsare, e solo quelle che lo faranno per te custodiranno un intimo, luminoso ed intermittente segreto che ti cambierà per sempre la vita, perché così arditamente saranno riuscite a conquistarti toccando il pulsante giusto che, senza spiegazioni, ti renderà semplicemente quello che sei... Ricordi quella prima volta che ci conoscemmo per sbaglio, quando aspettando Alfredo giù per il cortile schiamazzasti urlando senza ricevere risposta, e allora ti precipitasti nel premere il pulsante del campanello errato che avrebbe interpellato anche me, in quella serata a dir poco indimenticabile, colma di risate e scandita dai battiti di un amore che appena cominciava... Vorrei che quell’errore-quanto-mai-azzeccato-di-pulsante ricapitasse ora, in questi giorni, inconsapevole come quella prima volta, perché come ogni anno sempre sarò qui, e sempre nei paraggi della tua memoria tramortita mi presenterò, affinché questa si desti finalmente risollevata dopo un tumulto di vuoto e di nulla e sia accolta così, con la stessa naturalezza di chi serve una carezza al chiarore di luna.

Viola, tua sempre


Una lacrima scese giù e bagnò un ricordo che forse cercava, con tutti gli sforzi del caso, di riemergere dagli abissi di un mare in burrasca. Il vento si infittì, e le ripetute raffiche sferzanti che ne derivarono accompagnavano rimbombanti quelle parole che ancora vorticavano nella sua mente in subbuglio. Si alzò; cercò di riordinare le idee. Sospinto da bagliori precari di lucidità, si convinse della falsa arbitrarietà della sua vita, di quanto non tutto potesse dipendere solo dalla pura convinzione soggettiva impregnata nelle cose. Doveva allora considerare anche le occasioni che non mostravano alcun apparente collegamento col sé, che erano trasportate dal vento, o abbandonate giù dalla pioggia o magari semplicemente scritte, in maniera inequivocabile, su un immane spazio bianco di una lettera. Come quasi colto da un guizzo di memoria, gli balenarono in mente alcune parole che, anni addietro, aveva dedicato ad una ragazza tanto amata, ma che ora rimaneva solo appannaggio di remote reminiscenze ancora un po’ annebbiate. Così, di faccia al mare, quasi intorpidito, si rivolse agli scogli in dirupo:
– “...il mare, con quel suo movimento semantico che è solo il mare, ti viene incontro e ti seduce, si alza maestoso e si scaraventa a capofitto sulle rocce increspate, debellando d’improvviso nel suo baluginare il noioso ritmo che esclude il pensiero. E quindi Lui ti sussurra segretamente all’orecchio, con la sua schiumosa e effervescente presenza ti riconduce alla naturalezza, quel sano sentore pacifico che riassetta tutti i tuoi sensi per ricondurli al vicino primordiale.”
Casa di Alfredo, dopotutto, non era poi così distante; giusto a pochi minuti da lì... (Fine)

venerdì 11 ottobre 2013

Della non Rassegnazione

Riporto, di seguito, un prezioso contributo di un amico, con cui tempo fa scambiammo intense e disparate visioni sul mondo – in quella breve contingenza che ci permise la conoscenza reciproca (per di più in terra straniera). Mi rende onorato continuare qui, in questa sede, quelle che erano le nostre lunghe e interessanti chiacchierate, seppur in modo completamente diverso.
Ve lo presento:
lui è Federico, laureato in scienze economiche e finanziarie, e oggi vorrebbe parlarci di...

LORENZO MILANI, ADRIANO OLIVETTI, ENRICO MATTEI

Chi vuole parlare in modo credibile di sviluppo economico e civile del nostro paese deve rompersi il capo sul modo di affrontare i seguenti problemi: l’abbandono scolastico e la disoccupazione del capitale umano più qualificato. Sono queste le questioni cruciali da cui dipende la sopravvivenza del Paese. Vanno affrontate in modo radicale, recuperando alcune esperienze del nostro passato più luminoso. Propongo tre figure: Don Lorenzo Milani, Enrico Mattei, Adriano Olivetti. Don Milani, come pedagogo. Enrico Mattei, come manager pubblico di formazione tecnoscientifica e non finanziaria, attento quindi più ai risultati di lungo periodo che agli sbalzi giornalieri dei titoli in borsa. Adriano Olivetti, infine, come modello di imprenditore innovativo e solidale e cerniera tra la cultura scientifica e umanistica. Tutti e tre sono in grado di illuminare come pochi altri il tempo in cui viviamo.
Nell’Italia rurale degli anni ’50 in cui viveva Don Milani, la maggior parte delle persone era analfabeta. Allora come oggi, si considerava l’istruzione una perdita di tempo. Certo, negli anni ’50 si pativa la fame: era quasi obbligatorio mandare i propri figli a lavorare presto. Ma questa forma mentis mercantile, che privilegia il guadagno immediato, sicuro, senza particolare sforzo, piuttosto che il faticoso e lento apprendimento che produrrà i suoi frutti solo in futuro pervade anche la nostra società. Ovviamente, questo atteggiamento favorisce le classi più ricche, che possono permettersi di mandare i propri figli ad istruirsi nei migliori istituti e perpetuare così le disuguaglianze. I dati Ocse (riportati in Draghi, 2010) certificano che l’Italia è uno dei paesi a più bassa mobilità sociale intergenerazionale: le prospettiva di carriera e i redditi dei figli dipendono sempre meno dalle capacità ed impegno personale e sempre di più dalla situazione familiare di partenza. Don Milani non si arrese però ad una scuola classista: la sua pedagogia era centrata non sul livellamento verso il basso degli studenti più bravi, ma nella promozione in alto di quelli che, per motivi legati allo scarso interesse e alle condizioni economiche, faticavano ad apprendere. Suo obbiettivo era riaccendere la passione dello studente attraverso la partecipazione attiva ai dibattiti, attraverso la formazione di uno spirito critico, e all’ascolto alle ragioni degli altri. La Scuola di Barbiana fondata da questo prete toscano divenne così famosa a livello internazionale: dobbiamo recuperare quel modello, liberato dalle incrostazioni del peggior ‘68, se vogliamo sconfiggere la peste dell’abbandono scolastico.
Abbiamo bisogno di una classe di manager formati dagli istituti tecnici e scientifici, non dalle business school americane. Manager che non obbediscano alla stupida teoria dello shareholder value, per i quali l’obiettivo non sia la crescita di breve termine del valore delle azioni dell’impresa nei mercati finanziari; ma la formazione di valore aggiunto che vada ad arricchire l’intero Paese. L’Italia aveva una grande classe di manager, operanti nella Grande IRI e nelle banche di interesse nazionale, che l’hanno trasformata in pochi anni da paese agricolo di serie B in seconda potenza industriale d’Europa: Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia, Enrico Mattei. E’ soprattutto alla lezione di quest’ultimo che dobbiamo guardare. Mattei si oppose alla svendita dell’Agip agli americani, già programmata dal governo De Gasperi; costituì l’Eni e dotò l’Italia di una politica energetica indipendente che diede vita al Miracolo Economico. Negoziò nuovi accordi più favorevoli ai paesi produttori per l’importazione di petrolio, appoggiando anche le loro lotte d’indipendenza contro il colonialismo; si scontrò con le Sette Sorelle americane. Soprattutto: dimostrò come un’economia sana e competitiva abbia bisogno di grandi aziende pubbliche nei settori strategici. Aziende gestite con l’occhio rivolto al benessere sociale e non colluse con i partiti.  Aziende pensate come Communities (modello tedesco), non come Commodities (modello americano). Dobbiamo pensare ad un ritorno, in forme nuove, degli investimenti pubblici nell’economia. Le scellerate politiche di privatizzazione degli anni ’90 hanno portato alla distruzione di autentici gioielli industriali (vedi Telecom), con migliaia di posti di lavoro qualificato in fumo e con l’arricchimento indebito di pochi grandi imprenditori.
Concludo con l’ingegner Adriano Olivetti; le cui parole sono sempre capaci di accendere un fuoco in chi li legge. Amo questa figura perché è riuscito ad avvicinare mondi che oggi ci appaiono assolutamente distanti ed inconciliabili. Il mondo delle lettere e dell’arte con quello dell’economia, della tecnologia, della fabbrica. La qualità del prodotto con l’attenzione meticolosa alle esigenze del lavoratore, non solo in fatto di salario, ma anche di servizi di welfare, di spazio in cui lavorare, di sviluppo civile della propria persona. Un personaggio del genere fece scandalo negli anni Cinquanta. Figuriamoci oggi. Come allora, sarebbe detestato dal gruppo di imprenditori che gravitano attorno all’orbita di Confindustria. Perché per Olivetti la competitività andava perseguita con l’innovazione dei prodotti, con il reinvestimento degli utili in ricerca e sviluppo, non con gli aiuti pubblici, la repressione sindacale e salariale Fiat style. Ma sarebbe trattato con diffidenza, come allora, anche dalla paleolitica classe di sindacalisti e politici che continuano a rappresentare l’imprenditore (e non lo speculatore, che è cosa bene diversa: si veda Schumpeter, 1912) come un parassita, il cui unico scopo è quello di succhiare soldi e sangue ai lavoratori. Negli anni Sessanta il Pci considerava Olivetti “paternalista”, perché con le sue scelte “progressiste” avrebbe tentato di comprarsi il consenso della classe operaia. Classe operaia che, come recitano i Sacri testi, dovrebbe perpetuare ininterrottamente la lotta di classe contro i “padroni”.
Olivetti apparteneva al filone del cristianesimo sociale. Leggeva (e pubblicava)  il T.S. Eliot dei Four Quartets e dell’Idea di una società cristiana, l’operaia mistica Simone Weil, il filosofo del cristianesimo democratico Jacques Maritain. Nei suoi discorsi, ricorreva spesso allo straordinario passo evangelico che San Matteo mette in bocca al Cristo (Matt 6,25:34): Perciò vi dico: non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.  Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Era profondamente convinto che il lavoro, in quanto Beruf, vocazione, chiamata, avesse un’aura di sacralità, una dignità che non potesse essere misurata dal solo compenso monetario. Per questo oggi si sarebbe certamente battuto contro lo svilimento del lavoro ad opera della attuale cultura d’impresa, per il quale il lavoratore è un oggetto intercambiabile da motivare esclusivamente con la carota dell’incentivo di carattere pecuniario o con il bastone del licenziamento. Il che, alla lunga, impoverisce le relazioni sociali  nelle organizzazioni e si ripercuote negativamente sulla stessa produttività.
Olivetti era convinto che l’impresa avesse un ruolo sociale ben preciso: lo sviluppo integrale della persona umana, la promozione della democrazia economica (e non solo politica) e della Bellezza del territorio in cui opera. Per questo chiamò in azienda tanti grandi sociologi come Ferrarotti e Gallino, psicologi come Musatti, Novara, Rozzi, scrittori come Paolo Volponi e Geno Pampaloni. Per questo mise a disposizione dei suoi operai una vasta biblioteca, organizzò corsi di storia dell’arte e d’urbanistica, portò in Italia con la sua casa editrice (Le Edizioni di Comunità) i testi dei più grandi economisti e scienziati della politica stranieri, come Kenneth Galbraith e Hannah Arendt.
Poi morì. E il nocciolo duro del grande capitalismo italiano – Mediobanca, Agnelli – decise di liquidare la Olivetti del primo computer da tavolo come un “neo da estirpare”: la divisione elettronica fu quindi ceduta alla General Electric, segnando la fine di quella straordinaria esperienza.
Tuttavia, la voce di Adriano, come quella di Mattei e Don Lorenzo, ci parlano ancora, in un coro che oggi griderebbe, soprattutto ai più giovani: non rassegnatevi! Non possiamo più permetterci il lusso dell’indifferenza: è tempo di tornare a camminare insieme, sulla “cattiva strada” da loro indicata.

federico.stoppa@tiscali.it