mercoledì 30 ottobre 2013

A cena con Tony Judt

L’ironico lascito degli anni Sessanta

Un aspetto peculiare di quell’epoca era che la frattura generazionale correva trasversalmente alle classi sociali, oltre che alle esperienze nazionali. L’espressione retorica della rivolta giovanile era ovviamente confinata a una ristrettissima minoranza: anche negli Stati Uniti di allora la maggior parte dei giovani non frequentava l’università e le proteste nei college non rappresentavano necessariamente la gioventù americana nel suo complesso. Ma i sintomi generali della dissidenza generazionale – musica, abbigliamento, linguaggio – erano insolitamente diffusi per effetto della televisione, della radio a transistor e dell’internazionalizzazione della cultura popolare. Alla fine degli anni Sessanta, il divario culturale che separava i giovani dai loro genitori era forse maggiore che in qualunque altro momento storico dall’inizio dell’Ottocento ad allora. Questa rottura della continuità evocava un altro mutamento tellurico. Per la precedente generazione di politici ed elettori di sinistra, il rapporto «lavoratori» e socialismo – fra «poveri» e Stato sociale – era lampante. La «sinistra» era associata da tempo (e vi dipendeva in gran parte) al proletariato industriale urbano. Al di là del pragmatico apprezzamento dei ceti medi, le riforme del New Deal, le socialdemocrazie scandinave e il welfare state britannico avevano fatto leva sul sostegno presunto di una massa di operari e dei loro alleati. Ma nel corso degli anni Cinquanta questo proletariato operaio si stava frammentando e riducendo. Lo sfiancante lavoro manuale nelle fabbriche tradizionali, nelle miniere e nell’industria dei trasporti stava cedendo il passo all’automatizzazione, alla crescita dell’industria dei servizi e a una forza lavoro sempre più femminilizzata. Perfino in Svezia i socialdemocratici non potevano più sperare di vincere le elezioni semplicemente assicurandosi la maggioranza del voto operaio tradizionale. La vecchia sinistra, con le sue radici nelle comunità proletarie e nelle organizzazioni sindacali, poteva contare sul collettivismo istintivo e sulla disciplina (e acquiescenza) comunitaria di una forza lavoro industriale compatta e determinata. Ma la sua incidenza percentuale sul totale della popolazione stava diminuendo. La nuova sinistra, come cominciava a chiamarsi in quegli anni, era qualcosa di molto diverso. Per la nuova generazione, il «cambiamento» non doveva arrivare attraverso una disciplinata azione di massa definita e guidata da portavoce autorizzati. Il cambiamento stesso si era spostato, apparentemente, dall’Occidente industriale ai paesi in via di sviluppo, al «Terzo mondo». Tanto il comunismo quanto il capitalismo erano accusati di stagnazione e «repressione» . L’iniziativa dell’innovazione e dell’azione radicale era ora affidata a contadini di paesi remoti o a una nuova gamma di categorie rivoluzionarie. I maschi proletari venivano soppiantati dai «neri», «studenti», «donne» e (un po’ più tardi) «omosessuali». Dal momento che nessuna di queste categorie, in patria o all’estero, godeva di rappresentazione distinta nelle istituzioni delle società del benessere, la nuova sinistra si presentava, più o meno consapevolmente, come un movimento che si opponeva non semplicemente alle ingiustizie dell’ordine capitalistico, ma principalmente alla «tolleranza repressiva» delle sue forme più avanzate, a quei sovrintendenti benevoli che avevano liberalizzato le vecchie restrizioni o che avevano garantito a tutti un miglioramento della propria condizione. Soprattutto, la nuova sinistra (e i suoi elettori, in stragrande maggioranze giovani) rifiutava il collettivismo tramandato dai suoi predecessori. Per la precedente generazione di riformisti, da Washington a Stoccolma, era lampante che la «giustizia», l’«uguaglianza di opportunità» o la «sicurezza economica» fossero obiettivi condivisi che potevano essere raggiunti solo attraverso l’azione comune. La regolamentazione e il controllo dall’alto, eccessivamente intrusivi, avevano i loro limiti, ma questo era il prezzo della giustizia sociale, ed era un prezzo che valeva la pena pagare. La generazione più giovane vedeva le cose diversamente. La giustizia sociale non interessava più i radicali. L’elemento unificante della generazione degli anni Sessanta non era l’interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno. L’«individualismo», l’affermazione del diritto di ogni persona alla massima libertà privata e alla libertà assoluta di esprimere desideri autonomi, ottenendo il rispetto e l’istituzionalizzazione di tali desideri da parte della società nel suo insieme, divennero le parole d’ordine della sinistra. «Fai quello che ti senti», «Spogliati di tutte le inibizioni», «Facciamo l’amore, non la guerra»: non sono obiettivi irrilevanti, ma sono per loro stessa natura beni privati, non pubblici, e com’era prevedibile condussero all’affermazione generalizzata secondo cui «il personale è politico». La politica degli anni Sessanta «devolvette» dunque in un’aggregazione di rivendicazioni individuali nei confronti della società e dello Stato. Il dibattito cominciò a essere colonizzato dall’«identità»: identità privata, identità sessuale, identità culturale. Da qui alla frammentazione della politica radicale, alla sua metamorfosi in multiculturalismo, il passo era breve. Curiosamente, la nuova sinistra continuava ad essere molto sensibile agli attributi collettivi degli esseri umani di terre lontane, che potevano essere ammassati in categorie sociali anonime come «contadini», «postcoloniali», «subalterni» e così via. Ma entro i patri confini, l’individualismo regnava supremo. Per quanto legittime possono essere le rivendicazioni individuali, per quanto importanti possono essere i diritti dell’individuo, mettere l’accento su simili aspetti comporta un costo ineludibile, e cioè il declino del senso di uno scopo condiviso. Un tempo il vocabolario normativo dell’individuo veniva ricavano dalla società (o dalla classe sociale, o dalla comunità): quello che andava bene per tutti andava bene, per definizione, per ogni singolo individuo. Ma il contrario non vale: quello che va bene per una singola persona non è detto che sia importante o utile per un’altra. I filosofi conservatori di epoche precedenti lo sapevano bene ed è per questo che ricorrevano al linguaggio e all’immaginario della religione per giustificare l’autorità tradizionale e i suoi diritti su ciascun individuo. Ma l’individualismo della nuova sinistra non rispettava né lo scopo collettivo né l’autorità tradizionale: d’altronde, era nuova, oltre che sinistra. Rimaneva il soggettivismo dell’interesse e del desiderio privato (e privatamente misurato). Tutto questo, a sua volta, favoriva un relativismo estetico e morale: se qualcosa va bene per me, non compete a me stabilire se va bene per qualcun altro, né tantomeno imporglielo («Fai quello che senti»). È vero, molti radicali degli anni Sessanta erano sostenitori entusiasti delle scelte imposte, ma solo quando tali scelte riguardavano popoli remoti di cui si sapeva poco. A posteriori, stupisce vedere quante persone in Europa e negli Stati Uniti espressero entusiasmo per l’uniformizzazione dittatoriale della «rivoluzione culturale» di Mao Zedong, mentre in casa il concetto di riforma culturale era interpretato nel senso di estendere il più possibile l’iniziativa e l’autonomia dell’individuo. A così tanti anni di distanza, può sembrare strano che molti giovani negli anni Sessanta si identificassero con il «marxismo» e con progetti radicali di ogni sorta dissociandosi al tempo stesso da norme conformistiche e obiettivi autoritari. Ma il marxismo era il tendone ideologico sotto cui si radunavano stili di dissenso molto diversi tra loro: e lo era anche e soprattutto perché offriva un’illusoria continuità con la precedente generazione di radicali. Ma sotto quel tendone e per effetto di quell’illusione, la sinistra si frammentò e perse ogni percezione di uno scopo comune. Al contrario, la «sinistra» assunse un’aria vagamente egoista. In quegli anni, essere di sinistra, essere radicali, voleva dire essere egocentrici, preoccupati solo di promuovere se stessi, avere un’ottica peculiarmente ristretta. I movimenti studenteschi di sinistra erano più interessati agli orari di apertura e chiusura dei college che alle condizioni di lavoro nelle fabbriche; gli universitari figli dell’alta borghesia italiana pestavano poliziotti sottopagati in nome della giustizia rivoluzionaria; le rabbiose contestazioni proletarie contro i capitalisti sfruttatori cedettero il passo a slogan spensierati e ironici che chiedevano libertà sessuale. Non significa che la generazione di radicali fosse insensibile all’ingiustizia o alla prevaricazione politica: le manifestazioni contro la guerra del Vietnam e le rivolte razziali degli anni Sessanta furono importanti. Ma erano scollegate dal sentimento di uno scopo collettivo, concepite più che altro come prolungamento della rabbia e dell’espressione dell’individuo. […] Il consenso implicito dei decenni del dopoguerra ormai era andato in frantumi e cominciava ad emergere un consenso nuovo, e decisamente innaturale, incentrato sul primato dell’interesse individuale. I giovani radicali non avrebbero mai descritto in questo modo gli scopi che si proponevano, ma era principalmente la distinzione fra encomiabili libertà private e indisponenti limitazioni pubbliche ad accedere le loro emozioni. E per ironia della sorte, anche la nuova destra che stava emergendo basava la propria identità su questa distinzione.

Questo libro va assolutamente letto: imprescindibile.

Parti in corsivo mie. L’intero testo tratto da Guasto è il mondo, Tony Judt, Laterza 2010.

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