venerdì 11 ottobre 2013

Della non Rassegnazione

Riporto, di seguito, un prezioso contributo di un amico, con cui tempo fa scambiammo intense e disparate visioni sul mondo – in quella breve contingenza che ci permise la conoscenza reciproca (per di più in terra straniera). Mi rende onorato continuare qui, in questa sede, quelle che erano le nostre lunghe e interessanti chiacchierate, seppur in modo completamente diverso.
Ve lo presento:
lui è Federico, laureato in scienze economiche e finanziarie, e oggi vorrebbe parlarci di...

LORENZO MILANI, ADRIANO OLIVETTI, ENRICO MATTEI

Chi vuole parlare in modo credibile di sviluppo economico e civile del nostro paese deve rompersi il capo sul modo di affrontare i seguenti problemi: l’abbandono scolastico e la disoccupazione del capitale umano più qualificato. Sono queste le questioni cruciali da cui dipende la sopravvivenza del Paese. Vanno affrontate in modo radicale, recuperando alcune esperienze del nostro passato più luminoso. Propongo tre figure: Don Lorenzo Milani, Enrico Mattei, Adriano Olivetti. Don Milani, come pedagogo. Enrico Mattei, come manager pubblico di formazione tecnoscientifica e non finanziaria, attento quindi più ai risultati di lungo periodo che agli sbalzi giornalieri dei titoli in borsa. Adriano Olivetti, infine, come modello di imprenditore innovativo e solidale e cerniera tra la cultura scientifica e umanistica. Tutti e tre sono in grado di illuminare come pochi altri il tempo in cui viviamo.
Nell’Italia rurale degli anni ’50 in cui viveva Don Milani, la maggior parte delle persone era analfabeta. Allora come oggi, si considerava l’istruzione una perdita di tempo. Certo, negli anni ’50 si pativa la fame: era quasi obbligatorio mandare i propri figli a lavorare presto. Ma questa forma mentis mercantile, che privilegia il guadagno immediato, sicuro, senza particolare sforzo, piuttosto che il faticoso e lento apprendimento che produrrà i suoi frutti solo in futuro pervade anche la nostra società. Ovviamente, questo atteggiamento favorisce le classi più ricche, che possono permettersi di mandare i propri figli ad istruirsi nei migliori istituti e perpetuare così le disuguaglianze. I dati Ocse (riportati in Draghi, 2010) certificano che l’Italia è uno dei paesi a più bassa mobilità sociale intergenerazionale: le prospettiva di carriera e i redditi dei figli dipendono sempre meno dalle capacità ed impegno personale e sempre di più dalla situazione familiare di partenza. Don Milani non si arrese però ad una scuola classista: la sua pedagogia era centrata non sul livellamento verso il basso degli studenti più bravi, ma nella promozione in alto di quelli che, per motivi legati allo scarso interesse e alle condizioni economiche, faticavano ad apprendere. Suo obbiettivo era riaccendere la passione dello studente attraverso la partecipazione attiva ai dibattiti, attraverso la formazione di uno spirito critico, e all’ascolto alle ragioni degli altri. La Scuola di Barbiana fondata da questo prete toscano divenne così famosa a livello internazionale: dobbiamo recuperare quel modello, liberato dalle incrostazioni del peggior ‘68, se vogliamo sconfiggere la peste dell’abbandono scolastico.
Abbiamo bisogno di una classe di manager formati dagli istituti tecnici e scientifici, non dalle business school americane. Manager che non obbediscano alla stupida teoria dello shareholder value, per i quali l’obiettivo non sia la crescita di breve termine del valore delle azioni dell’impresa nei mercati finanziari; ma la formazione di valore aggiunto che vada ad arricchire l’intero Paese. L’Italia aveva una grande classe di manager, operanti nella Grande IRI e nelle banche di interesse nazionale, che l’hanno trasformata in pochi anni da paese agricolo di serie B in seconda potenza industriale d’Europa: Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia, Enrico Mattei. E’ soprattutto alla lezione di quest’ultimo che dobbiamo guardare. Mattei si oppose alla svendita dell’Agip agli americani, già programmata dal governo De Gasperi; costituì l’Eni e dotò l’Italia di una politica energetica indipendente che diede vita al Miracolo Economico. Negoziò nuovi accordi più favorevoli ai paesi produttori per l’importazione di petrolio, appoggiando anche le loro lotte d’indipendenza contro il colonialismo; si scontrò con le Sette Sorelle americane. Soprattutto: dimostrò come un’economia sana e competitiva abbia bisogno di grandi aziende pubbliche nei settori strategici. Aziende gestite con l’occhio rivolto al benessere sociale e non colluse con i partiti.  Aziende pensate come Communities (modello tedesco), non come Commodities (modello americano). Dobbiamo pensare ad un ritorno, in forme nuove, degli investimenti pubblici nell’economia. Le scellerate politiche di privatizzazione degli anni ’90 hanno portato alla distruzione di autentici gioielli industriali (vedi Telecom), con migliaia di posti di lavoro qualificato in fumo e con l’arricchimento indebito di pochi grandi imprenditori.
Concludo con l’ingegner Adriano Olivetti; le cui parole sono sempre capaci di accendere un fuoco in chi li legge. Amo questa figura perché è riuscito ad avvicinare mondi che oggi ci appaiono assolutamente distanti ed inconciliabili. Il mondo delle lettere e dell’arte con quello dell’economia, della tecnologia, della fabbrica. La qualità del prodotto con l’attenzione meticolosa alle esigenze del lavoratore, non solo in fatto di salario, ma anche di servizi di welfare, di spazio in cui lavorare, di sviluppo civile della propria persona. Un personaggio del genere fece scandalo negli anni Cinquanta. Figuriamoci oggi. Come allora, sarebbe detestato dal gruppo di imprenditori che gravitano attorno all’orbita di Confindustria. Perché per Olivetti la competitività andava perseguita con l’innovazione dei prodotti, con il reinvestimento degli utili in ricerca e sviluppo, non con gli aiuti pubblici, la repressione sindacale e salariale Fiat style. Ma sarebbe trattato con diffidenza, come allora, anche dalla paleolitica classe di sindacalisti e politici che continuano a rappresentare l’imprenditore (e non lo speculatore, che è cosa bene diversa: si veda Schumpeter, 1912) come un parassita, il cui unico scopo è quello di succhiare soldi e sangue ai lavoratori. Negli anni Sessanta il Pci considerava Olivetti “paternalista”, perché con le sue scelte “progressiste” avrebbe tentato di comprarsi il consenso della classe operaia. Classe operaia che, come recitano i Sacri testi, dovrebbe perpetuare ininterrottamente la lotta di classe contro i “padroni”.
Olivetti apparteneva al filone del cristianesimo sociale. Leggeva (e pubblicava)  il T.S. Eliot dei Four Quartets e dell’Idea di una società cristiana, l’operaia mistica Simone Weil, il filosofo del cristianesimo democratico Jacques Maritain. Nei suoi discorsi, ricorreva spesso allo straordinario passo evangelico che San Matteo mette in bocca al Cristo (Matt 6,25:34): Perciò vi dico: non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.  Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Era profondamente convinto che il lavoro, in quanto Beruf, vocazione, chiamata, avesse un’aura di sacralità, una dignità che non potesse essere misurata dal solo compenso monetario. Per questo oggi si sarebbe certamente battuto contro lo svilimento del lavoro ad opera della attuale cultura d’impresa, per il quale il lavoratore è un oggetto intercambiabile da motivare esclusivamente con la carota dell’incentivo di carattere pecuniario o con il bastone del licenziamento. Il che, alla lunga, impoverisce le relazioni sociali  nelle organizzazioni e si ripercuote negativamente sulla stessa produttività.
Olivetti era convinto che l’impresa avesse un ruolo sociale ben preciso: lo sviluppo integrale della persona umana, la promozione della democrazia economica (e non solo politica) e della Bellezza del territorio in cui opera. Per questo chiamò in azienda tanti grandi sociologi come Ferrarotti e Gallino, psicologi come Musatti, Novara, Rozzi, scrittori come Paolo Volponi e Geno Pampaloni. Per questo mise a disposizione dei suoi operai una vasta biblioteca, organizzò corsi di storia dell’arte e d’urbanistica, portò in Italia con la sua casa editrice (Le Edizioni di Comunità) i testi dei più grandi economisti e scienziati della politica stranieri, come Kenneth Galbraith e Hannah Arendt.
Poi morì. E il nocciolo duro del grande capitalismo italiano – Mediobanca, Agnelli – decise di liquidare la Olivetti del primo computer da tavolo come un “neo da estirpare”: la divisione elettronica fu quindi ceduta alla General Electric, segnando la fine di quella straordinaria esperienza.
Tuttavia, la voce di Adriano, come quella di Mattei e Don Lorenzo, ci parlano ancora, in un coro che oggi griderebbe, soprattutto ai più giovani: non rassegnatevi! Non possiamo più permetterci il lusso dell’indifferenza: è tempo di tornare a camminare insieme, sulla “cattiva strada” da loro indicata.

federico.stoppa@tiscali.it

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