sabato 26 ottobre 2013

Il luccichio del medium non è il messaggio

Lo scrittore postmoderno, non c’è che dire, dovrebbe essere un tipo di personaggio davvero incredibile – parlo, ovviamente, di scrittori con la S maiuscola, e non di quelli che vengono ritenuti tali solo perché riescono a far breccia grazie a quel tipo di marketing selvaggio che, per aderire alle macabre logiche di mercato, riempie, com’è ormai da tradizione, le librerie di tutto il mondo proponendo insulse pile di libri che ostacolano il passaggio davvero da boccata d’ossigeno (quando ci riesci) verso quelle traiettorie di scaffali veramente degni di uno sguardo incuriosito e a dir poco appagante. Dunque i veri scrittori li riconosci solitamente in seconda battuta, te li devi andare a cercare per dirla in breve, e percepisci che sei davvero in buone mani solo quando c’è il momento fatidico dell’apertura della prima pagina e scopri che sei al cospetto di un qualcosa di spiazzante e di voglioso che ti tira con sé nel prosieguo di quelle parole che si susseguono burrascose. Infatti, come cercò di suggerirci sapientemente il nostro, per molti aspetti insuperabile, Italo Calvino, nel suo romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, il più delle volte un buon libro deve riuscire a farti spiccare il volo dell’immaginazione, della curiosità e della commistione tra simbolico e reale dal ritmo inconfondibile delle sue prime battute, dall’incipit insomma. Quel romanzo di Calvino, ricordo (e chi se lo scorda) è abbastanza bizzarro nella sua costruzione e “narra la storia di un Lettore che, nel tentativo di leggere un romanzo (intitolato appunto Se una notte d'inverno un viaggiatore), è per ragioni sempre differenti costretto a interrompere la lettura del libro che sta leggendo e intraprendere la lettura di un altro. L'opera diventa quindi una riflessione sulle molteplici possibilità offerte dalla letteratura e sulla possibilità di giungere a una conoscenza della realtà.” Il protagonista, dunque, si ritrova nel perdersi tra svariate opere che iniziano ma che finiscono per non concludersi mai, e questo testimonia l’importanza sacrale del primo atto della lettura che, nel complesso, dà un senso di significatività all’opera tutta. Certo, al cospetto di un qualsiasi libro si ha sempre a che fare con le “leggi” smisurate e capricciose dei singoli gusti, dei gusti soggettivi e individuali di ognuno di noi, e magari anche gli scrittori davvero con i contro-coglioni necessitano, il più delle volte, su proposta sempre dei loro lungimiranti editori, di copertine degne di nota che parlino già da sé, e che riescano a penetrare nell’immaginario fatto di immagini del potenziale lettore. Ma io, a prescindere dalla bellezza di un’immagine o anche dal contatto epidermico con l’oggetto-libro (il ché è anche molto importante), mi sforzerei sempre, e ripeto sempre, di aprirlo quel libro capitato a caso, e di sfogliarlo, e di leggerlo nella sua prima così distinta pagina, perché è lì, nella maggior parte dei casi fortuiti, che si nasconde la vera chiave di volta della felicità abbandonata e lettrice. Sì, perché in quest’era postmoderna, in cui il macrosistema di mercato ha praticamente colonizzato ogni enclave di vita possibile, è tutto pressoché predisposto o quasi per abbindolarci irrimediabilmente di immagini piuttosto superficiali, e che hanno la presunzione di svelare le miriadi di linguaggi che aleggiano sulle nostre vite. Ecco perché lo scrittore postmoderno serio è un tipo acuto e che ci vede abbastanza lungo, e che cerca, padroneggiando la giungla dei codici proteiformi, di dare un senso dignitoso alla realtà che vuole raccontarci. La sua, se riesce a cogliere tutto questo, è davvero un’opera enciclopedica, un’opera propriamente memorabile che vuole abbracciare tutto lo scibile, una scrittura che affascina e spiazza, proprio perché va a toccare le corde dei significanti che viviamo tutti i giorni (i più diversi e a volte irriconoscibili perché super-specializzati) e che non riusciamo ad afferrare nelle loro intenzionalità significative. Questi veri scrittori dunque, con le loro frasi a volte cerebrali, cercano di farci assaporare quei significati perduti che non vediamo più (se ancora ne è rimasto qualche barlume). Siamo letteralmente bombardati dai significanti (i mezzi per raggiungere i contenuti), ma ci ritroviamo ad essere alquanto poveri e sterili riguardo ai significati (di senso o di contenuto) che vogliamo a denti stretti raggiungere, e che, un tempo, prima di quest’epoca, davano selettivamente manforte all’autentico stato di insignificanza della vita tutta. Le cosiddette meta-narrazioni sono morte ragazzi; anche la differenza tra destra e sinistra, per farvela riduttiva e più comprensibilmente afferrabile, non necessita più di battibecchi sterili, proprio perché non hanno più un obiettivo di contenuto propriamente sensato: sono dei cani strumentali che si mordono la coda e basta, e che alla lunga si rispecchiano in un pensiero circolare e davvero balbettante: ecco perché quando sentiamo i nostri politici parlare ci viene il rigetto del loop fastidioso: non dicono praticamente più nulla. Quando il visionario Marshall McLuhan ci proiettò con le sue teorizzazioni nel cosiddetto “villaggio globale”, e si rese riconoscibile ai più con la sua famosa affermazione “il medium è il messaggio”, voleva dire proprio questo: non che lui volesse esaltare in qualche modo la supremazia dei mezzi (significanti) sui messaggi (contenuti o significati), al contrario! Stava prendendo atto che le dinamiche societarie si stavano dispiegando verso una piega maledettamente bizzarra e voleva che noi, noi tutti, ce ne rendessimo conto. E allora quando vogliamo raggiungere dei significati che ci serviranno (mettiamoli comunque nel nostro zaino di viaggio, non si sa mai le cose cambino), cerchiamo di riconoscere lo scrittore propriamente postmoderno, colui che ha un senso acuto del messaggio che vuole proporci, colui che vuole comunicarci le significatività delle più dislocate enclavi della vita di tutti i giorni, e lo fa facendosi beffa del bazar postmoderno, sfruttandolo per così dire, dato che si tratta di un vero e proprio mercato a cielo aperto in cui disparati modi di comunicare e di relazionarsi si caricano di un luccichio oltremodo superficiale che abbaglia, che si erge come verità indiscussa, nascondendo il vero contenuto arricchente e salvifico della vita simbolico-reale: perché il simbolico e il reale si avviluppano incessantemente e sono loro, sempre insieme e mai separati, a costruire la nostra biografia di vita con gli altri. Il luccichio, l’euforia del momento, la patina di disinteresse informativo che copre ogni cosa non fa che peggiorare e impoverire irrimediabilmente tutte le cose; come quando “si può essere a certe feste e non esserci davvero. Si sente che certe feste hanno il loro implicito fine incastonato nella coreografia della festa stessa. Uno dei momenti più tristi in assoluto è quell’invisibile svolta alla fine di una festa – anche di una brutta festa – quel momento di tacito accordo quando tutti cominciano a raccogliere l’accendino e la partner, la giacca o il cappotto e l’ultima bottiglia di birra con la fascetta di plastica ancora attaccata, dicono alcune cose sbrigative alla padrona di casa in quel modo sbrigativo che non le fa sembrare insincere, e se ne vanno, in genere chiudendo la porta. Quando le voci si allontanano lungo il corridoio. Quando la padrona di casa dà le spalle alla porta chiusa e guarda il campo di battaglia e la bianca V in espansione del silenzio assoluto della fine della festa”. (Infinite Jest, David Foster Wallace)

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