martedì 24 dicembre 2013

Lettera a Babbo Natale

Questa lettera è stata scritta da un ragazzo figlio del suo tempo: disoccupato e in costante ricerca di un lavoro che non riesce proprio a trovare, si ritrova nel periodo Natalizio ad avere le sue speranze, i suoi sogni, completamente infranti: sente di aver gettato un po’ la spugna ecco. Così, senza una motivazione logica, decide di fare una cosa che non faceva da tantissimo tempo. L’ultima volta, infatti, che ha fatto questa cosa manco se la ricorda più: scrivere cioè una lettera a Babbo Natale. Pur consapevole di essersi deciso a scriverla un po’ in ritardo (non si sa se la lettera arriverà in tempo, visto l’impazzito traffico natalizio), confida che, in un modo o nell’altro, Babbo Natale riuscirà ad aprire la sua busta e a tastare la carta e a leggera questa sua lettera, perché ha cercato di scrivere tutto quello che in queste feste sentiva di dire; tutto quello che, per una cosa o per l’altra, non è riuscito a dire a nessun altro in tutto questo tempo di frustrazione, di rassegnazione prematura.
Per circostanze fortuite, noi abbiamo la possibilità di leggere questa sua lettera... Perché? Perché, fondamentalmente, c’è stata una violazione della sua privacy, e un postino parecchio ubriaco ha deciso di scartare la sua busta perché – così ha riferito – gli piaceva un sacco al tatto quando se l’è ritrovata tra le dite, e voleva scoprirne il contenuto. (Questi ubriachi!)
Altre motivazioni non ci sono pervenute, ma questo poco importa: importa solo che la lettera sia stata definitivamente spedita e che, in questo momento, stia viaggiando per arrivare al suo effettivo destinatario: il Babbo dalla barba più bianca che c’è.
Ad ogni modo, dato che siamo troppo curiosi come quel postino e saremo ben presto brilli anche noi, leggiamo insieme cosa scriveva il Nostro; forse potrebbe interessarci:


Caro Babbo Natale,

non ricordo sinceramente l’ultima volta in cui ti ho scritto una lettera, ma sarà stato parecchio tempo fa. Probabilmente pensavo sul serio che tu esistessi, e che scendessi da quella specie di camino (che camino esattamente non era) dove Papà era solito arrostire i polipetti appena pescati; e mi preoccupavo tantissimo per te, non sai quanto, perché la canna fumaria era veramente nera, e quando sbirciavo in su constatavo, assurdamente, di quanto il suo buco in cima fosse davvero piccolo; uno spiraglio di luce. Allora mi chiedevo come diavolo facevi, tutte le volte, a calarti giù da quella sporca angusta strettoia (anche se l’odore dei polipetti arrostiti doveva essere stata una cosa mondiale, non è vero??). Quando ritrovavo però i miei regali sotto l’albero pensavo sempre che eri stato un grande, e per questo mi meravigliavo ogni volta della tua dimestichezza con questo genere di cose; mi sorprendevo del tuo trasporto, della tua magia: riuscivi, non si sapeva come, a portare a tutti i bambini i loro regali, qualsiasi fosse stato l’ostacolo che te lo avesse impedito.
Col tempo però scoprii che tutta questa magia non era altro che un’elaborata e sofisticata menzogna; che tu in realtà non esistevi per davvero, e che eri solo una figura inventata lì per lì per instillare nei bambini sogni e speranze. Incarnavi, in quei nostri sogni, la consapevolezza di un Babbo buono che dispensava doni a tutti, anche se noi bambini avevamo fatto un po’ i cattivi durante quell’anno. Eri, insomma, quella figura così umana che riusciva a ristabilire, con la sua risata da orco buono, la pace e la felicità in un mondo di ansie e di frenesie: che riusciva, in un certo senso, a ripristinare l’equilibrio ovunque andasse, ovunque fosse trasportato dalle sue renne (anche qui non si sapeva come) che volavano; esattamente come quando, lentamente e in un dolce balletto, cadono i fiocchi di neve ricoprendo tutto: non importa cosa ricoprono ma lo ricoprono e basta, e tutto sembra più bello come un sincero sorriso dalla finestra.
Ormai sono diventato grande e non penso di credere più a queste cose: non penso, insomma, che tu esista per davvero. Nonostante questa mia incredulità però, e la mia ormai tramontata propensione verso questo genere di credenze, ho deciso di scriverti una lettera lo stesso, sperando che in qualche modo (non so davvero ancora come) tu riesca a leggere cosa avevo da dirti per questo Natale.
Forse in questi tempi di crisi ho perso davvero il mio personale trasporto per ogni cosa, mi sento come se fossi in scacco e tutto fosse vano, nonostante i miei tenaci tentativi di creare qualcosa; di dare qualcosa a me stesso e a gli altri. Non so come siamo capitati a vivere questa orrenda situazione, ma so di per certo che quello che provo io lo provano tanto altri ragazzi come me: lo sento da loro, lo percepisco quando vedo i loro stanchi volti, nei loro sorrisi spenti. Gli stessi ragazzi che in passato sono stati bambini, esattamente come me, e credevano ciecamente e incondizionatamente in te, nella magia della speranza che dispensavi ad ogni Natale.
Ora, questi ragazzi si ritrovano ad essere dei bambini cresciuti: non solo sono disillusi da quel genere di magia che tu non facevi altro che trasportare con la tua polvere di stelle, ma si ritrovano anche ad essere completamente rassegnati e impotenti di fronte ad un futuro che ci prefiguriamo sempre di più come oscuro, sempre peggio, senza alcuna via d’uscita. Forse starò esagerando, forse non è tutto negativo come lo sto descrivendo io, ma è quello che sento, e penso che troverei tanti ragazzi della mia età pronti a sottoscriverlo così come lo dico, parola per parola.
Non so perché io ti stia scrivendo, forse perché davvero ho perso tutte le speranze e volevo ancora una volta illudermi. O forse perché, anche non credendoci più, credo nel luccichio festoso di quei bambini che ci credono ancora, ancora per poco, quel poco che basta e che avanza e che fa viaggiare incredibilmente le nostri menti, da bambini.
La crisi d’identità della nostra epoca è parecchio profonda; probabilmente da lassù, dal Polo Nord, te ne potrai chiaramente rendere conto, avendo una sguardo più prospettico e più comprensivo sulle cose; può benissimo essere. Quello che però voglio dirti, al di là di quello che tu possa realmente fare, e di presentarti nei pensieri di quei ragazzi che vivono brutalmente questa situazione, e di dispensare uno di quei tuoi famosi e barbosi sorrisi; e magari anche un abbraccio di speranza, se ti va, perché oggi, più che mai in questo natale, ne abbiamo veramente bisogno.
Forse sto parlando a nome di tutti impropriamente. Forse ancora una volta starò esagerando. Ma non penso che i ragazzi di oggi si sentano utili a far qualcosa. Non penso che siano veramente motivati nel fare quello che potrebbero fare in maniera eccellente, e magari non hanno ancora capito cosa possono fare di concreto, semplicemente perché nessuno li riconosce come umane potenzialità; perché nessuno, fondamentalmente, li riconosce, punto. Noi giovani dovremmo essere la risorsa del futuro, il motore del domani che verrà, e invece veniamo trattati continuamente come lo scarto, come un qualcosa che più passa il tempo e più si rendere invisibile; invisibile più che agli altri prima di tutto a se stessa. E allora ripieghiamo sul falso divertimento, sulle droghe, leggere e pesanti, per dimenticare. Per non pensare. Per staccare la spina da questa realtà: bruta, fredda e brutale... Senza emozione. Un realtà dominata dalle disuguaglianze più marcate. Dai ricchi che diventano sempre più ricchi e dai poveri che diventano sempre più poveri. Da una realtà egoisticamente concepita, che si fa beffa di tutto e di tutti e che acquista ogni dannata cosa al mercato dei consumi, perché solo lì e solo così gira oggi il mondo. Il liberismo economico ha sradicato il sociale che ci rendeva uniti, e tutti noi ora non abbiamo più un’identità solida con cui interfacciarci, con cui scambiare una parola di conforto. Certo, forse siamo dotati di più identità, quelle identità plurali che ci permettono di vivere in una società globalizzata dalle mille possibilità. Ma queste identità pluri-genere non hanno un filo conduttore che le riconduce alla nostra personalità: il mio carattere, la mia persona che crea nel mondo non avrà mai una dignità se non gli sarà concessa l’opportunità di averla; di poter creare qualcosa per il futuro dei miei di figli. E quindi tutti questi ragazzi spossati si ritrovano a casa, senza fare nulla, senza avere un lavoro da fare e un lavoro che ti consente di andare, via di casa: quel lavoro che possa in qualche modo redimerli dalla nullafacenza della loro misera condizione. Forse tu mi dirai: “Beh, dovrai impegnarti un pochino di più se vuoi ottenere qualcosa. Lo so che attualmente è più difficile di qualche tempo fa, ma se non muovi i primi passi non arriverai mai a nulla: nessuna possibilità piove dal cielo se non incominci davvero a fare qualcosa, tu, prima di tutto, in prima persona”...
In un certo senso, questa tua probabile affermazione in mia risposta potrebbe avere un senso, ma non quando noi giovani, risorsa preziosa per il futuro, siamo completamente lasciati a noi stessi; non quando il mondo ce l’hanno consegnato guastato e poi ci dicono “Vedetevela voi, noi non possiamo farci più nulla, e questo è...”.
La verità è che troppe politiche sbagliate sono state fatte nell’ultimo trentennio. Politiche di “sganciamento” e di riduzione dello Stato, nella convinzione che questo fosse il male in terra e che usurpasse le nostre individuali libertà. Si pensò che era meglio lasciare la società senza una direzione da seguire, senza una pianificata programmazione dall’alto, perché solo così si potevano realmente realizzare le singole libertà di ognuno: lo Stato-Nazione, la concezione di bene comune era troppo limitante in questo senso: bisognava cambiare.
In America, un gruppo di studiosi di Chicago pensò bene di riesumare delle idee “contro lo Stato”, idee e concezioni che erano state concepite, in origine, da degli intellettuali austriaci. Quest’ultimi pensarono che era meglio limitare i poteri dello Stato, perché avevano troppo vissuto male il periodo tra le due guerre mondiali, e non volevano assolutamente rivivere un ulteriore periodo in cui lo Stato si trasforma in uno Stato dispotico, in un dittatore che si arroga il diritto di “dirigere” e di dettare le sorti della vita di ognuno.
Così scrissero le loro idee di Società e, in un primo momento, non se li cacò nessuno. Poi questi giovanotti americani ritrovarono queste scritture e cominciarono a proporle alla nuova politica che avrebbe cambiato il mondo, che lo avrebbe reso più libero, più autonomo, più capace di creare ricchezza per tutti: e come non poteva sposarsi tutto questo con una cultura americana votata al progresso e che celebra il “Self-Made Man”, e cioè “L’uomo che si fa da sé”? E così abbiamo avuto la globalizzazione, che è stata, in un primo tempo, una sorta di americanizzazione e che, se da un lato ci ha permesso di confrontarci sempre più spesso con tanti altri popoli della terra (una figata!), dall’altro ci ha pian piano prosciugato delle nostre autentiche identità, quelle identità sedimentate nei nostri luoghi, quegli stessi luoghi che ospitano le nostre case.
E allora per poter sopravvivere a tutto questo dovevamo diventare egoisti, idolatrare il Dio denaro e fregarcene di tutti, tutti quanti, nessuno escluso, per andare avanti e pensare solo a noi stessi.
Ecco, io per questo natale non vorrei proprio nulla, davvero, perché se cominciassi a chiedere qualcosa poi vorrei troppo. Ma se ci penso un attimo però, su quel che voglio davvero, non penso che sia così difficile ottenerlo, da uno come te poi, che non hai mai fatto mancare nulla a nessuno.
Ecco, se proprio dovrei avanzare dei desideri vorrei...
Vorrei che le persone fossero un po’ più gentili, le une con le altre, perché è con la gentilezza che si misura il grado di civiltà in una società che si ritiene tale.
Vorrei che si cominci solo a sospettare (solo a sospettare, non a pensare seriamente) che il denaro, e tutto ciò che esso comporta, non è la vera felicità, e che porta solo alla miseria individuale, sempre e comunque: è una cosa che corrode e poi ti rende ancora più misero di prima.
Vorrei che i potenti della terra si rendessero conto di quanto siano soli e spregevoli nelle loro “gabbie” piene di lussi sfrenati, perché le loro fortune, e sono solo fortune (ereditate e guadagnate a discapito di altri), diventano davvero fortune se vanno condivise, con gli altri.
Vorrei che si facesse più beneficenza, quella vera, quella anonima, e non solo quella di facciata che si fa solo per avere un tornaconto di immagine.
Vorrei che alle forme si sostituissero di più i contenuti, e che l’apparenza ceda il passo al senso autentico che sempre c’è dietro, brutto o bello che sia.
Vorrei un mondo più uguale, con meno sperequazioni inique che fanno soffrire sempre di più la povera gente, che ha sempre lavorato e che si è sempre spaccata la schiena per poter fare qualsiasi cosa, anche per sorridere: vorrei più giustizia sociale.
Vorrei meno televisione e più libri, una biblioteca nella mia città piena di libri.
Vorrei più piazze piene e meno gente che riempie i supermercati.
Vorrei che a tutti i ragazzi fosse data la possibilità di studiare, come è stata data a me, perché lo studio è ricchezza, lo studio è saper leggere il mondo ma è, soprattutto, emancipazione dal sé.
Vorrei che fossero valorizzate le nostre distinzioni, le nostre differenze di qualsiasi tipo, di razza, di genere, differenze nei gusti sessuali, perché sono solo le differenze che creano le scenografie migliori: il piattume del gruppo dove tutti sono fotocopie degli altri mi annoia.
Vorrei che si pensasse di più agli altri e meno a se stessi egoisticamente, anche se questa cosa pare una cosa trita e ritrita e, ciononostante, non si riesce mai a fare per davvero.
Vorrei dei veri amici, e non quelli che ti girano le spalle alla prima difficoltà, o quelli ancora che ti sfruttano perché vogliono solo qualcosa per sé, tristezza.
Vorrei una ragazza che vuole viversi una relazione, seriamente e spensieratamente, e non che debba avere sistematicamente paura del dolore che potrà esserci dopo, qualora la nostra relazione abbia un termine: la vita è piena di alti e bassi e va preso tutto il pacchetto se si vuole vivere veramente, altrimenti cedi il biglietto ad un altro e rinuncia al tuo viaggio.
Vorrei che ci fosse più coscienza comune, in un popolo disorientato e ormai allo sbando.
Vorrei che si facesse più politica seria, perché la politica non è un male in sé: parla del nostro futuro. Sono quei poveri che al palazzo credono di avere le risposte che l’hanno svuotata di senso.
Vorrei un mondo più globale ma più globale in senso umano.
Vorrei che ci fosse più Stato e meno mercato. Lo Stato è la garanzia per i nostri diritti; il mercato, invece, se non ben regolamentato, è solo la giungla degli egoismi e dell’usa e getta per antonomasia.
Vorrei godermi un tramonto senza preoccuparmi di respirare delle polveri sottili e nocive, derivanti da un inquinamento selvaggio che ha ormai portato al collasso la nostra terra, che è malata e si ribellerà, fra non molto.
Vorrei più amore e meno menefreghismo.
Vorrei più considerazione per gli altri e meno quel via vai di gente che non si considera nemmeno.
Vorrei che tutto i soldi spesi per gli addestramenti militari, per le armi, e per la realizzazione di guerre fossero impiegati per rivitalizzare i paesi che non hanno davvero nulla (tante cose si potrebbero risolvere con quegli investimenti che chiamarli investimenti mi viene il vomito); perché queste pratiche, oltre a disumanizzare e togliere un cervello a chi di mestiere fa il soldato, non portano davvero a nulla, se non alla distruzione e alla morte. Questi addestramenti disumanizzanti non servirebbero neppure a fronteggiare un'improbabile invasione da parte di simpatici extraterrestri venuti da molto lontano: tanto ci farebbero il culo lo stesso.
Vorrei più luoghi e meno non-luoghi.
Vorrei stringere la mano a più persone che posso, perché so che, anche se a prima impatto possono anche non piacermi, avranno sempre qualcosa di diverso da dirmi.
Vorrei un mondo in cui i giovani contano, perché se poco poco ci viene data una possibilità, noi la sapremo di certo sfruttare, e vi renderete conto, voi, poveri padri increduli e sfiduciati e miscredenti, e che vi siete pappati davvero tutto, che noi, seppur con le nostre debolezze, siamo gli esseri al momento più innovativi sulla faccia di questo pianeta. E spacchiamo.
Vorrei, vorrei...

Lo sapevo Babbo Natale che, se ti avessi scritto, sarebbe andata a finire così: era da tanto che volevo scriverti tutte queste cose, ecco perché.

Un felice natale anche a te, dato che raramente ti viene augurato.

Anonimo

1 commento:

  1. Pensieri in libertà. Il primo. Babbo Natale arriva la notte in cui si festeggia la nascita di Gesù e porta doni ai bambini di tutto il mondo. La nascita è un dono, forse è il dono per eccellenza. Alcune popolazioni attribuiscono unicamente alla femmina la capacità di donare riconosciuta in primis nell'atto del parto (che sia per questo che generalmente se ci sono regali da acquistare si chiede ad una donna di occuparsene?). Allora però invece di un Babbo Natale dovrebbe esserci una Mamma Natale. Forse il Babbo allora rappresenta la capacità/possibilità dell'individuo di soddisfare i propri bisogni, che nell'infanzia, per ovvi motivi, e' rappresentato da una figura esterna, in questo caso magica e buona a prescindere. Dunque seguendo questa ipotesi diventa ovvia e quasi necessaria la delusione nella scoperta dell'inesistenza di Babbo Natale. E' il disincanto della crescita, perché la scoperta implica l'assunzione di responsabilità verso di se è verso gli altri. Ho letto da qualche parte di recente che più l'uomo è libero più questo ha il dovere di essere responsabile. Babbo Natale esiste dunque, implicito nella natura dell'individuo libero.
    Il secondo. Non posso conoscere le difficoltà e le emozioni dei giovani di adesso, io non lo sono più da qualche anno, forse posso solo intuirle; però posso assicurare che anche io, e gli amici coetanei frequentati in passato, ho vissuto e pensato le stesse fatiche e difficoltà nel trovare una mio collocazione sociale adeguata e soddisfacente per mantenere la quale diventa necessario lottare quotidianamente. Ricordo di aver vissuto momenti in cui osservavo quasi con invidia, mentre andavo a piedi a lezione all'università, quegli anziani che si riunivano in crocchio davanti ai bar a tutte le ore del giorno e della sera a godersi la pensione e il tempo del non lavoro, perché loro, la loro strada, l'avevano trovata e percorsa. Voglio dire che forse la fatica, trasversale ad ogni età, fa parte del percorso come tappa obbligata, e se non la si riesce ad assumere su di se' il crocchio davanti al bar non ha lo stesso senso.
    Il terzo ed ultimo, breve. Non posso che essere d'accordo con i "vorrei" chiesti da quel ragazzo nella lettera, a partire da se'. E se ho letto bene, tra le righe della lettera, a partire da se', quel ragazzo è lui Babbo Natale.

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