giovedì 5 dicembre 2013

Can we just work it out?

È inverno, e fuori, in quella città medio-grande che ti ospita, fa un freddo boia. Vivi una vita abbastanza normale e mentre cerchi di vivertela e di capire come funziona cerchi anche di non lamentarti, sarà meglio. A questo proposito, ti ricordi sempre di baciare terra e, quando puoi, di osservare il mare e il suo sconfinato soffitto di cielo corrispondente: fa solo bene. Solo per il momento, hai un lavoro precario che finisce praticamente dopodomani, e un affitto stellare da pagare, ogni mese. Condividi quella che chiami casa, che è poco più di un semplice alloggio temporaneo e che, manco a dirlo, è terribilmente precario anche lui, proprio nelle fondamenta. Dicevo, condividi questa casa dell’anteguerra – quindi con un senso spiccato per il vintage – con un’altra persona o più di una, giusto per la strettissima necessità di ammortizzare in qualche modo le chiassose spese e, forse, diciamola proprio tutta, anche per vivere la tua personale indipendenza, ogni tanto. Hai una mamma che ti vuole bene, sempre. Un papà che ti appoggia in tutto quello che fai: entrambi, in un certo senso, si sono sempre spaccati la schiena per te, ma non te l’hanno mai detto. Non stai vivendo con loro la loro dolce mezza età, e quindi cerchi in qualche modo di rappresentarteli in volto tutte le volte che vi sentite per telefono, e per questo potresti essere profondamente incazzato, tutti-i-santi-giorni. Per fortuna uno che si fumava l’impossibile ha inventato una cosa che si chiama Skype: per questo la mia generazione gli sarà sempre profondamente grata, solo quando se lo ricorda però. Vivi in una città che vive praticamente di rendita: tutte le persone con cui parli, che siano d’oltreoceano o della tua stessa nazione, non nascondono la loro invidia, e tu, anche se non capisci il perché, fai finta di esserne compiaciuto. In realtà, molto in realtà, quella stessa realtà che è più cruda della verità, ti dice che vivi in un luogo altamente degradato, dove gente che vuole fare l’”alternativo” è solo la fotocopia di tanti altri individui che sono esattamente come lui, in tutto e per tutto. Queste collezioni di individui-fotocopia ciondolano per quelle strade rigate da rivoli di piscio ossessionati dall’“accessorio-cane” e, con quella capigliatura sempre medio-lunga, vogliono cercare di imitare simbolicamente il tribale, ma inutilmente. Questa loro ostentazione consapevole è povera, e anche piuttosto meschina, dato che poi, alla prima occasione, sfoderano il loro bancomat lucente e prelevano sbrigativamente dei contanti nuovi di stampa da quelle bocche lucenti di distributori che, in molte occasioni, potrebbero rappresentare il tuo unico vero orizzonte di salvezza (e questo fatto dell’”unico vero orizzonte salvifico” rappresentato dalle banche è davvero molto triste se ci pensi, visto che, lo sappiamo benissimo, i “gestori” che gestiscono quei maledetti distributori rappresentano il diavolo in terra). Questi tipi, dunque, i tipi di cui si parlava prima, sono esattamente come tutti gli altri, forse anche peggio, ma in tutti i modi vogliono farti capire che non è così e che loro, con te, non c’entrano assolutamente nulla: non si rendono conto però che sono irrimediabilmente identici nella loro sterile diversità: e che praticamente non riesci a distinguerli per quanto si assomigliano tutti. Proprio per questo motivo, entrano a pieno titolo in un altro tipo di normalità, quella stessa che contraddistingue questa città, conosciuta nel luogo comune anche solo per questo: e cioè la normalità di essere un emulatore postmoderno del vero punkabbestia (quello vero, giusto per ricordarlo, vive realmente per strada, sotto un portico, e ha come unico termosifone-stufetta naturale per l’inverno il proprio fidato cane, il quale cane non lo abbandonerà MAI – a differenza dei prototipi di individui fotocopia/o meno che rientrano nella sua specie). Questa città, quindi, vive di rendita, vive solo di questo e basta, al momento. Cerca di sopravvivere a stento ad un glorioso passato fatto di animate lotte studentesche e di comunità di cittadini con la C maiuscola (sia la Comunità che i Cittadini) che si prodigavano incondizionatamente per il prossimo; cittadini che, in un tempo non molto lontano, si aiutavano reciprocamente sempre, in tutte quelle tremende occasioni che si presentavano, ogni dannata e stramaledetta volta. “Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili”, ci ricorda sconsolato il nostro caro Dave (DFW). Una città in cui la resistenza ha segnato profondamente il territorio limitrofe e dove tutto, dalla memoria, al senso di fratellanza, fino al senso di appartenenza al luogo, sta cadendo irrimediabilmente a pezzi: visivamente, sembra proprio di assistere al rigurgito di una densa amnesia culturale. Qualche sincero bagliore di senso di comunità lo cogli ancora però, ma solo ogni tanto, e questo lo devo dire per amore di correttezza; questi bagliori non sono altro che granelli di sabbia in balia di una tempesta, una tempesta propriamente individualista. Noi però, nel nostro intimo, crediamo ciecamente in quei miseri e “sprovveduti” granelli sopravvissuti, sperduti: un giorno non molto lontano ritroveranno i loro fratelli e si ricongiungeranno, per farsi pietra; una pietra che permetterà di costruire solide fondamenta, e noi in questo non smettiamo mai di crederci, mai. Neppure quando si è fatto giorno, e annaspi cercando di aprire i tuoi occhi cisposi che si destano dal sonno, un sonno galattico. E quando alla fine li apri i tuoi occhi, riconoscendo confusamente il filtraggio à pois della tapparella abbassata, e ti accorgi che fuori c’è già il sole, questa non è esattamente una gradevole notizia: è inverno, e quando c’è inverno alle latitudine più elevate il sole è più pigro di come sei abituato a vederlo; dunque sei in ritardo, un ritardo imperdonabile. La sera prima è stata confusa, e si è conclusa con un affondo nel letto incosciente: le ragioni sono piuttosto oscure questa mattina. E poi pensi che sei autonomo ma non ancora così indipendente economicamente, e che la tua condizione è schiacciata solo sul presente, prendere o lasciare. Così, mentre sei davanti allo specchio e ti lavi i denti, rileggi mentalmente un passo di un saggio di antropologia sociale che fa più o meno così: “In un’epoca in cui le convinzioni durature e indiscusse perdono la loro influenza, gli aspetti più effimeri della vita diventano più significativi e la rottura con il passato focalizza l’attenzione sul presente. Il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle impressioni e questo ritmo impaziente è irresistibilmente attratto verso una serie di frontiere temporali: inizi e fini, andare e venire”. Forse non c’entra nulla, forse è tutto racchiuso qui dentro. Io nel frattempo, non so voi, entro molleggiato nel mio nuovo giorno e canticchio così “We scream and shout ‘till we work it out, ‘till we work it out, ‘till we work it out” (Afterlife, Reflektor, Acade Fire).              

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