Non vedi dove sono? È tutto chiaro e limpido, come una mattina cosparsa d’estate.
Il mare è già lì, e si è preparato durante tutta la notte, per attenderci. Ma io
non lo raggiungerò, non oggi. Me ne starò qui, invece, all’ombra: è una
sensazione di riposo che mi si addice di più, non biasimarmi: è l’organo più
esteso del mio organismo che me lo richiede.
È sofisticato quando
intravedo dalla finestra appannata della cucina il figlio del pakistano nell’alimentari
sotto casa. Mi ricorda tanto me, quando ero più piccolino. Lo vedo lì, seduto e
impaziente, che aspetta il prossimo cliente, e che prepara il suo rinnovato
sorriso per la prossima offerta che verrà, richiesta. Questa gente è umile,
coraggiosa, sconquassata dalla vita, eppure rimane lì, col sorriso sempre
stampato in viso, e attende. Attende. Ogni tanto dà un occhio all’ora, a quell’orologio
millenario velato appena da una ragnatela filata a metà, da un ragno
altrettanto millenario, e che vive di solitudine vera. Di tanto in tanto il
loro sguardo segue la gente che passa per strada. In questo modo la cura e la
meticolosità dei loro attimi si dilata, e diventa infinito. Segue le
traiettorie della mente che si tramutano in probabilità improbabili, e diventa senso.
Sì, il mare, meta di
sconosciuti: la grande piscina collettiva che si insudicia in agosto, e che
si incupisce per il grande afflusso di gente inferocita di finto relax che si riversa
in spiagge colme e ripiegate. Ma qui non c’è il mare, e gli sconosciuti hanno
altre infinite mete: i semafori lampeggiano i loro ritmi. Non so cosa penserai
di me, ma il concetto di diversità non credo mi appartenga. Per lo meno quello
che viene costantemente millantato da tutti coloro che ti capita di incontrare
a giro, gente impomatata e lustra di sé che si presenta con il biglietto da
visita stampato in viso, e che rivendica costantemente la sua di diversità, e che
pretende di splendere al cospetto degli altri. Ma che cos’è la diversità? Abbiamo
davvero avuto modo di assaggiarne l’essenza? Io ancora no, forse tu sì, ma io
ancora no. Come si fa a vivere nell’era dell’individualismo se non c’è stato il
minimo e benché sorprendente reciproco confronto? Come si fa, privi di quella
salubre chiacchierata in quel pub ricolmo e inneggiante, e che si materializza
al chiarore di una luce gialla appassita e avvolta dai fiati dell’alcol? Io dico,
come si fa.
È bello quando ti ritrovi in
un contesto in cui non ti puoi esprimere in quello che credi essere il meglio per
te, e dove ti senti quasi a disagio a sentirti bambino nell’impossibilità
comunicativa; è davvero bello nella sua impossibilità. Impari a rivalutare i
dettagli, a scoprirne di nuovi. Piccoli particolari che si richiamano ai gesti,
allo scossone dei visi, agli occhi smarriti e trepidanti di risposte: è bello
sentirsi tutti smarriti nella comune ignoranza. Capitava in un contesto di
lingua straniero, quando tutti, intenti ad imparare un’altra sconosciuta lingua,
si dimenavano in diversificati atteggiamenti corporei pur di farsi comprendere,
perché le parole nuove da imparare erano appena sfuggite alla mente, che si
ritrovava lì, nuovamente rossa e imbarazzata.
Come quando di notte ti sveglia il richiamo del sesso. Non il tuo, quello che per naturale necessità
spesso ti si agita dentro, ma quello esteriore, quello che ha il carattere dell’invadenza
inopportuna, e che trapassa noncurante le mura del tuo appartamento per dirti
che, nell’ambiente appena accanto al tuo, vi è una copulazione in corso,
animata. Quei mugugni, quei sospiri vitali si dipanano, e si fanno significato:
attraversano le mura. E allora pensi a quella volta in cui avresti voluto
vederla risvegliarsi, dopo una notte passata con te, il tuo volto appena
destato dal caldo cuscino e che la cerca, tra i suoi capelli meravigliosamente
disordinati, i suoi atteggiamenti accoccolati per l’altrove. E allora avresti voluto
pian piano accoglierla nel suo nuovo giorno con te, e riscoprire la
magnificenza del suo sguardo, la bellezza di quei suoi occhi unici al mondo, e
dirle buongiorno, con la tua voce timida e ricoperta ancora dal sonno, e
contemplarla, per fissarne l’eternità irripetibile.
Le parole non servono, in
certi momenti davvero non servono: sono solo il surrogato di quello che
vorremmo essere per noi stessi. E quindi una lacrima scende giù, e anche se fa
una brutta figura tra i tuoi occhi così cisposi che riportano il ricordo dei
sogni, quella lacrima è bella: testimonia la tua autentica e sempre rincuorante veridicità. Ma lei non c’è, per lo meno non ora, non più. Pensi di addormentarti, ma
più ci pensi e più non lo fai. E colleghi tutti i dettagli traendone un quadro:
il clown, che termina le sue tre giornate di ricordi melanconici cantando per
strada, chiedendo qualche soldo sul ciglio di una stazione, con un cappello di
fianco rovesciato, contenente una sigaretta gettata fintamente dall’alto,
giusto così, per richiamarne caritatevolmente della altre; gli occhi verdi, sempre presenti, di
un passato che si rifà sorprendentemente vivo e che bussa alle porte delle tue
risvegliate sensibilità: è bello ritrovarsi lungo il cammino, soprattutto quando
sai che qualcosa di te hai saputo lasciare, grazie; un tempo severo, un tempo
rannicchiato dietro il banco ortofrutticolo intento a sfogliare il tuo primo
libro della vita: codici di un mondo che sta per nascere; quel mare che sempre
attende, ma solo quando avrai abbastanza zavorra da rilasciarne a lui tutto il
suo peso: sì, lui può farlo, lui è il più grande di tutti: saprà lui il modo più giusto per smaltire tutto il tuo vissuto di scarto e che ti porti dentro. Sì, verrò, ti dico che ora verrò, sento il tuo
richiamo: ora sono pronto.
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