lunedì 3 agosto 2015

Abbagli messicani

Il Messico è questo selciato arso dal sole, pietre e polvere che fanno pace con la vegetazione vessata. Il Messico sono tutti questi paesaggi sciancati, che ti abbracciano a protezione in quel loro circolo di montagne, solite dialogare con nuvole orfane. Il Messico è una nostalgia senza tempo: è un maggiolino scassato che danza senza freni sulle ruote di un trattore. Il Messico è una vergognosa polarizzazione tirata agli estremi: il disagio da una parte – braccianti in piedi su camionette aperte mentre vanno a lavoro sotto al sole; e la classe irraggiungibile dall’altra, che sposando il “modello di successo” ha praticamente dato il culo agli Stati Uniti d’America. In mezzo a tutto questo non è rimasto nulla; c’è solo il deserto a coprire le distanze...

E ancora. Il Messico è il buongiorno delle signore inservienti, che tutte le mattine, col sorriso, lustrano i pavimenti di centri commerciali fintamente sgargianti. Il Messico è un autobus a forma di camion, un bastone di legno al posto del cambio, una cassettina a scomparti che raccoglie centesimi di pesos incolonnati, traballanti e precari, ed è tutto un fragore di vetri come spezzati a trasportare con sé il lato vero dell'antropologia. Il Messico è il mango fresco alla mattina, e il meritato litro di caguama alla sera; Il pane c’è, sì, ma non è lo stesso: ci pensano pile di tortillas a fare da base a tutto. Il Messico sono tutte queste salse colorate e piccanti: più il colore è acceso e più le salse rianimano la vita.

Il Messico è una perenne distonia sui volti: è una tristezza che si fa sottomissione eterna, ma che in un attimo si libera in festa non appena trombe e chitarre rilevano le solite maschere raggrinzite. “Tutto è permesso; scompaiono le gerarchie abituali, le differenze sociali, i sessi, le classi, i gruppi. Gli uomini si travestono da donne, i padroni da schiavi, i poveri da ricchi. Vengono ridicolizzati l’esercito, il clero, la magistratura. Governano i bambini o i pazzi. Si commettono profanazioni abituali, sacrilegi obbligatori. L’amore si fa promiscuo. Talvolta la festa diventa messa nera. Si violano regolamenti, comportamenti, costumi. L’individuo rispettabile getta la sua maschera di carne e gli abiti scuri che lo isolano e, vestito di colori sgargianti, si nasconde dietro una maschera che lo libera da se stesso. La Festa, dunque, non è solamente un eccesso, un dispendio rituale dei beni penosamente accumulati durante tutto l'anno; è anche una rivolta, una subitanea immersione nell'informe, nella vita allo stato puro. Attraverso la festa, la società si libera dalle norme che si è imposta. Si burla dei suoi dèi, dei suoi princìpi e delle sue leggi, nega se stessa. La festa è una rivolta nel senso letterale del termine. Nella confusione che genera, la società si dissolve, affoga in quanto organismo retto in base a regole e princìpi determinati. Ma affoga in se stessa, nel suo caos o libertà originale. Tutto entra in comunicazione: si mescola il bene col male, il giorno con la notte, il santo col maledetto. Tutto convive, perde forma, singolarità e torna alla massa primordiale. La Festa è un'operazione cosmica: l'esperienza del disordine, la riunione degli elementi e dei princìpi contrari allo scopo di provocare la rinascita della vita.(Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, p. 42).

Il Messico è un’identità bistrattata: è una farfalla che dopo aver vissuto pienamente il suo giorno rallenta spossata il suo ritmo, il cui disegno d’ali risulta spezzettato. Il Messico è un’accoglienza senza scadenze: la casa di chi ti conosce sarà sempre la tua, e il parcheggiatore sdentato senza patria ti ricorderà, senza remore, quali sono le tue lontane origini alla deriva. Ma il Messico, dopotutto, non è che una colonna sonora di Piero Piccioni, splendida, al pomeriggio, che riproduce incessantemente quel suo “Mexican Dream”.

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