lunedì 30 settembre 2013

Chi la vuole l’ha riavuta

Il postmoderno è un’epoca abbastanza strana, amorfa. Tutto ciò che si osserva, si vive e si documenta mentalmente ha il sapore di una compressione spazio-temporale rivoluzionaria, che disegna gli assetti, muove le logiche e conduce qualsiasi cosa all’obsolescenza programmata. Così, nel vortice societario degli eventi attuali, l’opulenza sgargiante si affianca alla povertà più degradante, e in tutto ciò vige una compiacenza rassegnata, una reazione inattiva che accentua le disparità. Questi radicalismi emergono e convivono, non sotto uno stesso tetto ma sempre a debita distanza. Una distanza ricercata, voluta e artificialmente inventata. I loro confini solitamente sono invalicabili, inamovibili, ma la finzione imperante che è alla base dei circuiti relazionali odierni opera una traslazione verso una spettacolarizzazione accessibile, fruibile da tutti. Sì, quasi proprio da tutti. E questo comporta una formattazione delle menti, menti che si orientano all’unisono, membra di pensieri che si rifanno a stampe di modelli pre-confenzionati, in cui viene intravista, pienamente realizzata, la propria conformazione biografica individuale. Benché vi sia stato un passo significativo verso le diverse concezioni e pratiche della partecipazione – e cioè un vero e proprio coinvolgimento generalizzato che vede collezioni di individui dire sempre la propria in qualsiasi contesto – raramente tale fervore pensante e attivo si traduce in una comunicazione significativa tra i due estremi, che restano lontani e sempre separati dalle diverse sfumature che si alimentano nel loro mezzo. E quindi il popolino famelico continua a nutrirsi di illusioni, perché quest’ultime sono la vera anticamera della speranza che, tramite il suo piacevole veleno, permette la concretizzazione – in versione digitale – di vite altre a parecchi km di distanza. Allora, dato che le distanze sono enormi e spesso impraticabili, e molto spesso ci si vede infrangere quei nostri sogni come cocci frantumati caduti dal cielo, si tende a vivere l’odierno nel locale, nel nostro contesto più prossimo, e si cercano tutti gli espedienti necessari per far rivivere le più radicate identità nella continua lotta con le invasioni globali. Pensa globalmente e agisci localmente. Questo è uno dei tanti slogan anni ’70 che è stato riesumato nell’ambito della ri-semantizzazione forzata del vintage. Perché forzata? perché come mi disse una volta un mio compagno di eterne passeggiate, nuovi significati applicati a vecchi modelli decrepiti fanno fatica a conquistarsi una propria legittimità, una loro ragion d’essere, e quindi è sostanzialmente difficile conferire significati compiuti ad un’ipotetica svolta societaria, soprattutto quando quest’ultima non è altro che un’effimera moda schizofrenica e fallita. E quindi tra tutti questi discorsi intrecciati, legati da un filo comune nascosto ma incastrato in tutte le sue diverse dimensioni, ci si presenta al solito bar per la solita sospensione-dalla-quotidianità, per i soliti discorsi sul tempo e sui tempi che corrono e sfuggono, e tutto quanto si riduce ad una richiesta perenne di un’eterna bevuta, che fa parlare, e che permette la momentanea comunicazione nel turpiloquio infernale di altre voci: una richiesta sacrosanta che non è mai stata effettivamente inevasa. Perché chi veramente la vuole sempre l’ha cercata e infine riavuta la vita, che sia stata una chiacchierata creativa e seducente, o una bevuta sospensoria di magia, o ancora un incontro ricercato alle pendici di un tramonto e perduto nei meandri di foreste cerebrali; come se fosse tutto ciò, tutto questo, l’unica vera situazione mai capitata da tutta una vita.

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