domenica 22 settembre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 2)

Ero riuscito a trovare una sistemazione di fortuna. Una signora ultra-gentile mi diede il benvenuto nel suo condominio di periferia, in una camera singola, su, tra quelle uni-personali all’ultimo piano che, un tempo – mi informarono come una curiosità da sapere simpaticamente – erano destinate al personale di servizio. Un bagno che assomigliava più ad un ripostiglio senza finestra era collocato all’esterno di quella camera, proprio a due passi da lì e la sera, sistematicamente, mi ritrovavo a vivere ciondolante tra quei due spazi: assaporavo la mia loquace solitudine come mai era successo prima. In quel frangente momentaneo della mia vita cercavo disperatamente casa, a Bruxelles, e mi trovavo, come già detto, in un quartiere piuttosto ai margini della città, dove si poteva ammirare una struttura maestosa costruita dagli americani ai tempi della guerra fredda: un atomo di ferro gigantesco che, col passare degli anni, divenne il simbolo turistico indiscusso di tutta la città. Passavano i giorni, e il mio peso-forma mi abbandonava lentamente: tutte le riserve gastronomiche pugliesi che avevo accumulato durante l’estate mi dicevano Ciao e inesorabilmente, senza accorgermene, riducevo ogni giorno i frammenti rimasti di quel personale cordone ombelicale reciso ormai da tempo. Quelle mattine le ricordo nitidamente, come se fosse ieri, e lo scorrere del cursore sul PC dettava i ritmi affannosi di quelle giornate piene di indirizzi spalmati per la città; di numeri di telefono dagli interlocutori sempre a sorpresa (soprattutto dal punto di vista linguistico); e di immagini di appartamenti diversi tra loro ma che poi finivano per assomigliarsi tutti nel loro ultimo intento, dato che la mia cogente aspirazione del momento le racchiudeva tutte sotto lo stesso e unico ombrello: una qualsiasi collocazione in una nuova città, un posto qualsiasi, per una nuova e diversa e trepidante avventura. Le mattinate passavano veloci, tra visite in veri e propri tuguri o, diversamente, in carine casette in stile confetto di quelle che trovi isolate nei loro recinti verdi di prati, come nei sobborghi americani. Il cielo di settembre, stranamente, era molto alto e terso, e il sole padroneggiava sovrano. Le tipiche nuvole grigie piane e basse di quella città non facevano ancora capolino alle sensazioni costantemente bagnate che avrebbero caratterizzato i mesi a venire, per la maggior parte piovosi ma accessoriati di una specie tramonti che, a volte, davvero, ti sorprendevano togliendoti il fiato. Dopo le diverse mattinate passate a vivisezionare la città in un lungo e in largo, sottoterra in una lugubre metropolitana o in superficie tra stradine e stradoni tutti ancora da scoprire, passò un’intera settimana e, ancora, non avevo trovato una mia collocazione nel mondo. Così la sera, dopo cena, mi rifugiavo in quella camera su in alto, lontano da tutto e da tutti e amavo contemplare le luci della città da quell’esile finestra, e ascoltarne il tiepido fragore di suono che emettevano timidamente: luci intermittenti di caselle di vita in via di riposo, pronte a sfrecciare nuovamente il giorno dopo per riprendere il loro ritmo consueto. Pensavo alle mie possibili combinazioni future, chi sarei diventato in quel posto tanto nuovo quanto ancora lontano dalla mia carica esperienziale di vita. In qualche modo però anch’io trovai il mio ritmo. Dopo alcuni giorni passati sempre camminando i miei occhi ricevevano di riflesso un lustro completamente nuovo, di quel genere che possono donarti solamente i nuovi luoghi visitati e le disparate curiosità che custodiscono segretamente. E così, tra quelle curiosità, vedevo sbandieranti ombrelloni da pubblicità contraddistinti da nomi di birra improbabili e, sotto la loro ala protettiva, più volte trovai conforto e riparo: delle vere e proprie dolci pause riflessive che mi portarono a conoscere gente di tutti tipi e a scoprire i più sconosciuti bar degli angoli più inculati della città. Era un tardo pomeriggio, orario aperitivo, e capitai in un bar molto puzzoso di formaggio con stecchini incorporati, i quali richiamavano, suadenti, i diversi calici di birra armati al loro fianco. Beccai un signore, sulla sessantina, seduto solo ad un tavolo, mentre gli altri signori/e sparsi/e per il locale ballavano ubriachi e lenti al suono di melodie americane. Il tipo, non so per quale motivo, si accorse che ero italiano (strano, dato che il mio aspetto non è proprio un indice impeccabile di riconoscimento dell’italianità) e, con un italiano sgangherato di miniera, mi invitò a sedere con lui. Fu una bella chiacchierata. Mi raccontava la mia situazione del momento con gli occhi del suo passato e cercava di darmi più suggerimenti che poteva, delle vere e proprie lezioni di vita gratis dettate dall’alcol, tutte incentrate su quella città che mi stava pian piano accogliendo. Tra le scanalature dorate di bicchieri che lentamente venivano vuotati ogni tanto volgeva lo sguardo alla vetrina del locale che dava sulla strada battuta di gente, e, tra le tante cose che mi disse in maniera incondizionata, me ne rimase impressa una in particolare, per sempre; mi osservò e mi disse: "Di una sola cosa sono sicuro di questa vita; che il sole, fino a quando splenderà, qualunque cosa accada, sorge e sorgerà sempre per tutti, senza distinzioni."    

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