lunedì 9 settembre 2013

Bruxelles Amarcord (capitolo 1)

Bruxelles, Bruxelles… Che diavolo di città è Bruxelles?

Inizierò con un affresco generale,

poi passerò alle cose un po’ più serie (vedi Birra belga).

Rovistando tra i miei ricordi “spazializzati” direi, tanto per iniziare, che la prima cosa che salta subito all’occhio, quando approdi in questa “capitale delle capitali” e per un attimo ti distrai e alzi lo sguardo, è la raffigurazione del cielo, un cielo dipinto da strisce bianche e fumanti di aerei che sfrecciano in tutte le direzioni; ne risulta un drappeggio reticolare, una testimonianza evidente di ciò che rappresenta questa città da un punto di vista nevralgico: un crocevia ininterrotto di passaggi e di scambi culturali che si avvicendano e si animano scambievolmente. Di converso, la trasposizione in terra di ciò che accade in cielo trova il suo culmine in una città-multidimensionale, a tratti in preda a disparati localismi e a tratti influenzata globalmente; fortemente istituzionalizzata da un lato per poi proporre la sua contraddittoria diversità appena svoltato l’angolo. Infatti, linguaggi e gesti multiformi si susseguono origliando e passeggiando per i boulevard e, una volta entrati nel metrò, si fa fatica a distinguere le particolari nazionalità delle persone che la popolano: alle lingue ufficiali della città – Il francese e il neerlandese – pare che si assecondino altre mille lingue, in cui l’eventuale “comunione dei beni” o il necessario punto di contatto sfocia, solitamente, in un inglese “salvifico”. Le comunità ufficiali dello Stato Belga – ovvero quella Vallone e quella Fiamminga – vivono a Bruxelles a stretto contatto, condividendo spesso malvolentieri sia pezzetti di città sia le divergenze culturali di cui sono portatrici. Pare ovvio ormai constatare come, assieme ad esse, siano presenti numerose altre comunità: il mondo in miniatura può aver trovato una sua collocazione anche qui. Tra le altre, non indifferente, risulta essere la presenza italiana, radicata qui per ragioni storiche a tutti note. Per questo, come per altri motivi, la città assomiglia a un teatro, a una serie di palcoscenici in cui gli individui possono elaborare la loro magia personale assumendo molteplici ruoli; un vero e proprio alveare, con reti di interazione sociale così diverse e orientate verso obiettivi così diversi che la sua enciclopedia diventa un folle album pieno di ritagli colorati che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Dunque mondi diversi separati in casa da linee invisibili che puoi attraversare e trasformare a tuo piacimento: “bene o male, la città vi invita a rifarla, a consolidarla in una forma in cui voi possiate vivere. Anche voi. Decidete chi siete, e la città assumerà nuovamente una forma fissa intorno a voi. Decidete che cos’è, e la vostra stessa identità sarà rilevata, come una mappa definita da una triangolazione. Noi le modelliamo a nostra immagine; esse, a loro volta, ci foggiano con la resistenza che offrono quando cerchiamo di imporre loro la nostra forma personale. In questo senso, mi sembra che vivere in una città sia un’arte, e abbiamo bisogno del vocabolario dell’arte, dello stile, per descrivere la particolare relazione che esiste fra l’uomo e la materia nell’incessante gioco creativo della vita urbana.” (Raban, J., Soft city, Londra 1974).

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