venerdì 6 settembre 2013

La spazializzazione dei ricordi

Già, chi l’avrebbe mai detto. Eppure ho sempre pensato che i ricordi, quelli più intimi e indissolubili, si serbassero dietro l’etichetta del tempo. Lo sapete bene, quel tempo vicino o remoto di cui custodiamo ogni minima sfaccettatura e ne andiamo fieri, gelosi, o viceversa malinconici e restii, in base ai casi. Ma succede poi che quello stesso tempo, con la sua stessa materia invisibile a noi ignota, si dissolve lentamente e perdutamente, in quel suo lento e perdurante ticchettio che misura gli istanti, che arrivano saltellando sino a noi, e ci bussano alla porta appellandosi “presente”, seppur anche questo non duri poi così molto. Ed è proprio questa inesorabile dissoluzione che ci deve far pensare, eh sì, perché da quando la vita ha assunto una sua materialità diacronica quel tempo birichino va a braccetto con lo spazio, e questo si configura come un suo indiscusso partner; e allora c’è chi dà maggiore peso all’uno o all’altro, variabilmente, in base ai casi storici congeniali. C’è da dire, per inciso, che la letteratura ricorrente in materia riconosce con il postmoderno (di cui, in seguito, spiegherò meglio la semantica) la supremazia delle categorie dello spazio sul tempo, e tutto ciò si ripercuote su un’inaudita compressione spazio-temporale che si manifesta nei nostri luoghi di vita, che debbono necessariamente reinventarsi in termini di identità se vogliono sopravvivere nella giungla della competizione globale. Ma questi sono altri temi piuttosto intricati che verranno ripresi nelle prossime puntate, non temete. Quello che ora invece mi preme sottolineare è come i nostri ricordi, in questi nostri tempi così travagliati, abbiano una loro maggiore e vivida legittimità con gli spazi che viviamo e percorriamo. Tante volte, e vi sarà sicuramente capitato, un suolo calpestato, o un’ambientazione visitata e vissuta che ci è rimasta “impressa”, ha inglobato per forza di cose le nostre esperienze, facendole sue, catturandole nella memoria, incastonandole nella loro immutabile eternità, e non ci vuole poi molto nel verificare come, una volta ritornati in quegli stessi spazi, questi ci risultano così “famigliari”. È come se ci sobbalzassero alla mente alcune armoniosità di noi stessi, che credevamo perdute in quelle ostinate e confuse date, in quei tempi così liquidi, perché, forse, chissà, così tremendamente succubi dei meandri di quel ciclo etichettato fin troppo convenzionale per i nostri gusti. E allora il tempo viene risucchiato come cenere dalle folate di vento che soffia ad intermittenza, e a noi non ci restano che i nostri spazi, quelli fighi, così ampi, così prospettici, così da praterie sempre verdi distensive.

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