lunedì 9 settembre 2013

Anime delocalizzate

Pare sia vero. Siamo costretti ad essere liberi (che Sartre sia lodato e maledetto allo stesso tempo). Giorno dopo giorno ora dopo ora attimo dopo attimo dobbiamo reinventarci, costruire i nostri piccoli mondi e, contemporaneamente, mantenere un lucida consapevolezza verso il mondo che ci circonda. E come si fa? Abbiamo forse una cassetta di attrezzi appropriata per adempiere a tutto ciò? Siamo stati coscientemente educati alla complessità in una società votata all’entropia e, dunque, ad un’implosione che è lì lì se non già bella e avvenuta? Siamo in grado, in definitiva, di costruire una seppur minima nostra identità ed essere flessibili ai bombardamenti informativi del nostro tempo?... Un’eccessiva informazione, sembra, è uno dei migliori stimoli a dimenticare... A lavoro ci chiedono perennemente adattabilità e spirito d’iniziativa, flessibilità nelle contingenze e autonomia creativa “sull’orlo di un meraviglioso cambiamento”... Dobbiamo necessariamente venire a patti, dicono, con la prospettiva di un’istantanea obsolescenza, l’obsolescenza che riguarda tutto ciò che viene creato. Si tratta di schizofrenia? Pare di sì. E allora siamo davvero dei replicanti come Roy di Blade Runner? “La fiamma che splende con il doppio della forza dura la metà del tempo”, il prototipo dell’uomo postmoderno, impeccabile e forte e resistente agli stress, ma che dura poco... Quel film, dopotutto, non aveva poi tutti i torti nel preconizzare gli ipotetici scenari futuri, gli scenari che, per l’appunto, volevano essere propriamente postmoderni... Una pellicola che ritrae un mondo che cade a pezzi, tumefatto da una pioggia insistente e torrenziale, un mondo completamente de-industrializzato e de-localizzato; uno sciame di lingue incomprensibili (forse un globish o un “chinatown everywhere”), che fa da sfondo alle anime perse e tenebrose dei personaggi, che cercano a stento di dare senso alle loro identità, riconoscendosi, solo, in alcune immagini sbiadite di famiglia che ricordano un passato che ora non conta assolutamente più nulla. E allora ci ritroviamo davanti ad un pc, ad esplorare e vivere mille ed innumerevoli vite lontano da noi, identificarci in esse e con esse, cercare un bagliore di appiglio per capire dove dobbiamo andare e cosa vogliamo fare... “I’m totally very americanized”, afferma Naomi, una giovane indiana che si schiarisce la pelle e decolora i capelli per assomigliare a Marilyn Monroe. Naomi, una dei tanti giovani indiani che barattano la proprio identità con un’altra, quella americana. E perché dovrebbero farlo? Perché lavorando nei promiscui e angusti luoghi dei call center devono per forza di cose incorporare una cultura che non è la loro, per vendere prodotti e merci e mettere a proprio agio commerciale i loro clienti contattati all’altro capo del mondo. Questi giovani non attraversano le frontiere dello spazio per assaporare quella nuova e lontana cultura, no, assolutamente; sono loro stessi che vengono attraversati dalle frontiere del fuso orario senza lasciare il proprio paese. “Che cosa significa trasportarsi in un paese remoto che non si è mai visto? Cosa comporta vivere così lontano dal proprio corpo?”… E allora sapete cosa vi dico? Bisogna sempre, e dico sempre, disegnare in noi stessi, in quel poco che ancora ci rimane, un mito romantico talmente potente, talmente da paesaggio interiore lussureggiante, che possa per la miseria redimerci dall’universo informe della contingenza.

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