lunedì 15 settembre 2014

Il senso di devozione per l'illusione

Se lo Stato è assente, il popolo se ne crea un altro tutto per sé, su misura, dove delinquere può diventare normale e la norma di quella normalità vede il più furbo o il più forte prevalere sugli altri. Se lo Stato non riesce ad infondere un sentimento collettivo, una reciproca comunanza in cui, cascasse il mondo, tutti si possano sentire riconosciuti e valorizzati, allora ogni individuo si ritrova spaesato, e privo di questa importante garanzia il suo contributo alla società si declinerebbe senza dubbio in un'ottica di sopravvivenza spregiudicata, in una traiettoria di vita che è chiaramente individuale; votata all'isolazionismo più che alla condivisione; destinata ad un futuro privo di quell'illusione salvifica di cui è fatta l'intera vita: come l'illusione della piccola ed intermittente luce di stelle, che dal firmamento quasi del tutto ignoto giunge fino a noi, in differita.
Si tratta di un'illusione poiché magari quelle stelle non ci sono più, e a noi quella luce arriva semplicemente in un ritardo di milioni di anni. Ma è chiara la salvezza che deriva dal fatto di non percepire la loro luce tutta quanta assieme. In quel caso, oltre a non saper più distinguere nulla, si perderebbe il tatto per le cose veramente importanti, e senza dubbio la mancanza di un cielo così lattiginoso e spolverato di luminescenze non alimenterebbe più il mistero esistenziale; quello stesso mistero che ci permetterebbe, in un'inconsulta stretta di mano, di andare avanti nel nostro cammino. Quindi l'illusione è la possibilità del diverso; tale diversità è cambiamento e costruzione: elementi fondamentali per il procedere umano.      
Certo, ogni agire sociale è prima di tutto individualistico, personale e bisognoso delle necessità immediate. Ma queste ultime prendono forma e vivono solo in un senso sociale, che è organizzato e tacito, e permette la sorprendente coordinazione di diversità ed eterogeneità individuali mozzafiato; un bacino inesauribile se ci si ferma un attimo a pensare. Ecco: è esattamente il tipo di coordinazione sociale vigente che si è andata ad inceppare, che non funziona più, e che non rende, ai popoli, un tipo di giustizia che si avvicina ad una che può essere chiamata umana.
Troppo della ricchezza e delle ultime risorse rimaste viene accumulato in poche mani, sadiche e spietate. E troppo poco, viceversa, rimane sulle braccia di chi, stanco per aver lavorato onestamente una vita, si ritrova a dover combattere ancora, e ancora, solo per strappare un sorriso alle persone care. Non va bene così. Le opportunità devono essere equamente distribuite. Le possibilità di redenzione personale devono trovare un comune accordo in una collettività che esalta le qualità del singolo, perché uniche e preziose per le assetate e bisognose comunità.
Chi detiene e pratica e preserva quelle qualità deve poterle spenderle localmente, affinché ci sia una ripercussione sana e positiva in senso globale. Pensare globalmente e agire localmente è una strada positiva, ma solo se i contesti in cui la si intraprende riconoscano le risorse dei soggetti, mettendole a sistema, valorizzandole e permettendone uno sviluppo cosciente. Evitando quindi una loro mortificazione, che arriva subito in senso "assistenziale" qualora quelle stesse risorse risultano impoverite e in deficit. Il puro assistenzialismo non serve a nulla, non costruisce proprio nulla: sperpera solamente quei pochi aiuti rimasti. Quest'ultimi, al contrario, dovranno essere spesi per uno sviluppo personale e cosciente delle risorse personali, e ciò significa riattivare quelle stesse risorse latenti, ed espanderle, e immetterle nel circuito della comunità sfilacciata di legami sociali.  
Non esistono solo le risorse economiche: bisogna estirpare dalla testa questo cancro onnipresente. Non è che da questo tipo di risorse si ricavano tutte le altre importanti alla vita. Non è che aumentando a dismisura questo tipo di beni materiali si ottiene poi automaticamente un benessere diffuso, condiviso. È una visione sbagliata questa.
Le risorse umane, quelle spirituali per semplificare, creano col tempo le prime, ma ci vuole pazienza, lungimiranza, senso di devozione: occorre la canalizzazione di pratiche sane e decenti alla vita buona. Solo così, con il lavoro sociale nel sociale e per il sociale si può avere la ghiotta probabilità di moltiplicare la ricchezza, una ricchezza fatta di testa e braccia che è però prima di tutto umana.

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