sabato 8 marzo 2014

Spaccato

Vediamo se ci riesco. Tu che fai? Fluttui? Dai, fluttuo anch’io. Vado bene così? Ok, ciao.

Ci sono esplosioni nelle mie cuffie, le loro sonorità avvengono in cielo però. Le vedo sì, ma solo in acustica. E allora il cuore comincia a pompare e ad accelerare e a inviare e ricevere il flusso sanguigno per tutte le estremità, cammino. Osservo dappertutto. Così mi lascio trasportare dagli eventi. Cos’è un evento se non la dimostrazione orchestrata di sprazzi di vita? Accade che sfreccia il blu emergenza dell’ambulanza e a seguire un puma di macchina poliziesca che urla al largo, mi defilo. Tre tipi loschi vengono braccati da altrettanti tipi ancora più loschi di loro che gli chiedono documenti e roba, qualsiasi roba, chimica e non: dispute di giustizia clandestina. Un altro tipo ha una busta sporca in mano, è claudicante, si piega nella sua sporcizia e raccoglie un mozzicone di sigaretta abbandonato, fumato a metà. Pensa bene di infilarlo distrattamente in quella sua busta e di continuare il suo percorso errante. Un bambino di colore piange, ha un cappellino blu notte e il viso rivolto al cielo, dove supplica un altro viso, quello di suo padre, che è lì e fa finta di ascoltarlo, e intanto le sue lacrime disinfettano la sporcizia accumulata sul marciapiede: un pianto inascoltato. Una ragazza attraente si ritrova appoggiata ad un palo, quello del semaforo, aspetta il verde, e intanto però, è anche al telefono, e le sue labbra si muovono e si contorcono di un piacere immaginato, un desiderio futuro la cui fonte, probabilmente, deriva dal tono di voce di quella chiamata che le trasmette, sempre probabilmente, allusioni serali in dolce compagnia. Ieri l’ho chiamata ma non mi ha risposto, e pensare che per me c’era sempre. Due sacchi di persone sono avvolti in coperte, quelle persone lì sotto non si vedono, sono invisibili. La loro casa è quel freddo e duro pavimento di strada: è vero che forse i barboni preferiscono Roma, ma qui ci sono i portici e in culo alla pioggia. Il rosso Bologna ha sempre ben pensato di trasmette una calorosità di benvenuto, così come il detto dice che dopo i tortellini venivano anche elargiti anche tutt’altri orali servigi, ma questa era una socialità concepita per altri tempi, per i rari e preziosi forestieri: ora ce ne sono troppi: lo siamo ormai tutti: forestieri del mondo globalizzato. Un tempo questa città vantava i servizi sociali più accoglienti al mondo, i più predisposti, i più pronti a recepire il malaugurato bisogno. Ora invece le risorse scarseggiano e tutto si riduce a fuffa elettorale.
Attraverso la strada: ero bello un tempo passeggiare con te mano nella mano, ora, invece, le mie mani sono in tasca, e si accontentano solo del calore di una piuma che viene da chissà dove. Un capannello di persone è radunato in un piccolo parco pieno di piccioni: anche questi sono radunati, ma attorno al pane duro e sparso e sedimentato come pietre, pietre di un castello di fame distrutto e rifiutato, scartato perché tanto ce n’è ed è stato pagato. Quelle persone, invece, incontrano calorosamente i richiami di un’identità lontana: stranieri non integrati, messi da parte; l’intercultura si fa beffa del multiculturalismo, e il multiculturalismo delle belle parole è sempre stato compreso solo sulla carta, almeno ad una prima lettura. Anziani, anziani ovunque: questa è ormai diventata la città più vecchia d’Europa, questo è un bene? Vivere a lungo potrebbe essere una grandiosa prospettiva: già, la vita è bella: ma dove è finita quella bellezza? Ah sì, è vero: ha vinto l’oscar, e in questo momento, probabilmente, è con la sua statuetta scintillante a sorseggiare un mojito in spiaggia, una spiaggia piuttosto lontana, penso. Biciclette, tante biciclette, speranza, aria verde e pulita: circolate e soffiate quella nuvola di smog, per favore: pedalate!
Comincia a fare caldo, strano per la stagione corrente, ah, vero: le stagioni non esistono più: fanno bene gli studenti francesi a non conoscerle, ecco perché, a ripensarci, non hanno mai imparato quante e quali sono: l’ignoranza è lungimirante, a tratti. Un ragazzo manda una colazione e dei fuori ad un altro ragazzo, nella bottega dove lavora quotidianamente: l’amore non conosce identità, genere letterario, distinzione di orientamento. Peccato che sia così complicato, anche se Tizianone nazionale canta e si sgola sul fatto che si tratti di una cosa semplice: lo stimo per questo: soffre e soffre, e non se ne vergogna. Tutti noi non dovremmo mai vergognarci di esternare un sentimento, un amore appena sbocciato, un tumulto di bene che ci ha sedotto: la paura del destinatario a cotanta bellezza deve essere messa da parte, bisogna solo aspettare le sue ragioni e comprenderle e raccontarle appieno, e dopo lo stare insieme farà il suo corso. Come quel fiume burrascoso a volte scende lento, e accarezza le sue sponde martoriate di brutti vissuti.
Uno stormo di uccelli spicca il volo, sembra ammaestrato, come i balletti sincronizzati di quelle ragazze che con cuffie e sorrisi disegnano cerchi nell’acqua alle olimpiadi. Dovrei saltellare sulle pozzanghere, Hoppipolla, dovrei farlo più spesso. Dove sei tu, ora, che tanto ti divertivi nel bagnarti d'acqua di pozzanghera? Mi chiedo ancora dove sei. Sfilano gonne, tante gonne, desideri espressi e accolti dai passanti che girano lo sguardo e seguono le formosità sinuose che nascondono. Linguaggi corporei, linguaggi visibili e muti, un linguaggio universale che si destreggia dalla parola consunta.
Boll fa parlale il clown, John osserva il pantofolare della mamma che va in cucina e che sfodera pietanze italiane in terra straniera. Dave parla di dipendenze, e la dipendenza dalle persone è la nostra droga più presente, l’antidoto contro la solitudine. Cormac racconta lo scenario apocalittico di un figlio e un padre in preda al cannibalismo del mondo: per fortuna c’è sempre una Coca-cola in un distributore scassato: lei e la sua scritta sinuosa ci sarà sempre, anche alla fine del mondo. Alda ci restituisce il miracolo in manicomio e Italo fa parlare un punto, QFWFQ, che si diverte a prenderci per il culo dallo spazio. Sì, come loro, io scrivo: o vivi o scrivi: ho vissuto e ora ho bisogno di scriverlo. Dove sei tu, poetessa, con le tue gonne fantasiose e con le tue parole di ritorno dalla salsedine di mare? Sì, dove sei? Sì, è vero: hai un’altra vita, lontano. Ricordo quando appena le prime volte incominciavi a chiamarmi amore: ti rannicchiavi sotto il mio viso, circumnavigando la pelle del mio collo, per non farti vedere, per non far vedere quel dolce imbarazzo malcelato che il tuo volto non ce la faceva proprio a trattenere. In quei momenti cominciavo a capire quanto di te si sarebbe poi riversato su di me: una barca spaccata a metà che sarebbe sicuramente affondata nel frastuono insostenibile della vita vissuta. Amore come concetto, come idea? Oppure amore come semplice sostantivo interpellato? Non l’ho mai saputo.
Attraverso nuovamente la strada ora sgombra, le macchine ferme al rosso sono frementi, e le loro code di nuvolette scodinzolano impazientite. Un’altra sirena blu impazzita, arresta tutti i timpani e anche in questo caso chiede il largo, il fermi tutti. E poi penso all’altra metà della medaglia, all’altra parte dell’umanità che si dispiega a conforto: la vera amicizia. Saremmo fottuti se non ci fossero quelle due o tre persone che ascoltano, che hanno piacere nel conoscere il tuo vissuto, coloro che nonostante le distanze che ci separano sono sempre presenti e si fanno in quattro per te, non conoscendo barriere: riconoscono in te anche la loro di salvezza e, per questo, vanno ringraziate tutti i giorni. A te che lotti per la vita, a te che non so dove ora tu sia, a te con la borsetta sempre verde riposta su quel tuo esile e delicato avambraccio, a te la cui forza col sorriso non l’ho mai incontrata in nessun'altro: i miei pensieri sono tutti per te ora, perché io, ne sono sicuro, ascolterò di nuovo la tua voce, da qualche parte.             

Nessun commento:

Posta un commento